Gian Carlo Zanon
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Quando ho letto questo testo del poeta, scrittore e giornalista Stig Dagerman che Antonio – un outsider che dai margini dell’anarchia ci invia sapienti messaggi culturali – ci ha inoltrato, sono rimasto un po’ sconcertato.
«ciao vi invio questo breve scritto di stig dagerman, anarchico svedese, poeta, e scrittore immenso, morto suicida a soli 31 anni … per me e come se non fosse mai andato via. tratto dal libricino stampato da iperborea che porta il medesimo titolo, ed è considerato il suo testamento spirituale.» Così scriveva, entusiasticamente il nostro “consulente” anarchico, a cui non piacciono neppure le maiuscole. Questo suo entusiasmo con faceva che aumentare il mio sconcerto, generato da una nichilista visione della realtà del poeta svedese.
Però, devo confessare, che più pensavo a questo testo e più il primo movimento di rifiuto, che non rimpiango, lasciava spazio a “sagge” considerazioni.
D’altronde, ho pensato, Dagerman, nella sua disperazione nelle sue affermazioni sull’inutilità dell’esistenza, non fu poi tanto diverso da altri poeti ed artisti che lo precedettero e gli sopravvissero.
Il poeta svedese sta in buona compagnia. Molti poètes maudits tra cui von Kleist, Majakovskij, Pavese lo precedettero nel suicidio, e altri come Rimbaud e Poe non si fecero mancare nulla che portasse alla propria distruzione. Il gorgo della “nientificazione” ha da sempre attirato grandi artisti: Borromini che si uccise gettandosi sulla sua spada, Jackson Pollock che ubriaco fradicio si schiantò in un incidente stradale, passando da Caravaggio, Modigliani e Soutine, ma anche grandi interpreti musicali morti alcolizzati o affogati nel loro vomito per eccesso di stupefacenti, vennero travolti dal fascino indiscreto della morte. Questi poeti ed artisti “realizzarono” alla fine ciò che scrissero nei loro versi, o cantarono nelle loro canzoni: la pulsione di morte.
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«Porterò con me nel viaggio un’inutile conoscenza del globo terrestre, una lettura superficiale dei filosofi e, terza cosa, un desiderio di annientamento e una speranza di liberazione. Porterò inoltre un mazzo di carte, una macchina da scrivere e un amore infelice per la gioventù europea. Porterò infine con me la visione di una lapide, relitto abbandonato nel deserto o nel fondo del mare, con questa epigrafe: Qui riposa/uno scrittore svedese//caduto per niente/sua colpa fu l’innocenza/dimenticatelo spesso». Questo è quanto scriveva nel 1951 Stig Dagerman, tre anni prima del suo suicidio, per sottolineare l’inutilità dell’esistenza.
So e sappiamo, ed è quasi inutile ridirlo, che i moventi psichici profondi, non sempre riconoscibili nelle composizioni dei poeti, li obbligano ad una visione del mondo pessimistica che va ad incidere enormemente sulle loro opere. È chiaro che se E.A. Poe fosse stato un inguaribile ottimista non avrebbe scritto La caduta della casa degli Usher né sarebbe morto in una via malfamata con il fegato zeppo di rum.
In tutti loro possiamo trovare, come ho provato a scrivere in un articolo scritto quasi dieci anni fa, la perdita di un’unità originaria, che spesso essi vanno a cercare attraverso l’uso di alcool e droghe smarrendosi tragicamente. In questo viaggio su “battelli ebbri” i poeti navigano verso il centro di sé stessi cercando l’essenza di quella parola che li salverà dall’abisso. Ma per cercarla devo scendere come “palombari” nelle profondità del loro pensiero per poi emergere e fissare con termini verbali il loro vissuto. E, se non hanno gli strumenti psichici necessari e scafandri adeguati che li proteggano dal non senso, in quegli abissi, spesso, si perdono per sempre.
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«I confini della realtà umana (Psyché , ψυχή) non li potrai mai raggiungere, per quanto tu proceda nel fondo per cercare le sue strade; così profondo è il suo discorso (logos)» Eraclito – [45 Diels-Kranz ]
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Se chi si avventura in quelle regioni inesplorate, “dove nessun viandante è mai tornato” , non ha salvato o ricreato la propria fusione originaria, unico e imprescindibile attributo per non smarrirsi nei meandri del senso, prima o dopo nella zona inconscia perderà se stesso.
Il poeta che riesce come un funambolo ad attraversare come un funambolo gli abissi infiniti del logos sulla sottile linea del senso senza smarrirsi, arricchirà l’umanità con la propria poetica vitale. Chi invece si smarrirà genererà visioni da aprè la bombe, scriverà di “stagioni all’inferno”, descriverà squallore e disperazione, navigherà “lungo Fiumi impassibili” sfiorando i cadaveri di “annegati pensosi” e alla fine del viaggio rimarrà solo con la visione di una pozzanghera “nera e fredda dove, nel crepuscolo odoroso,/un bimbo accovacciato, e pieno di tristezza, vara /un battello fragile come una farfalla di maggio.” . Ed già molto. Poi, come successe al poeta de Le bateau ivre, perderà anche quel fragile battello-relitto che per un po’ lo sottrae dai gorghi del Maelström.
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Si parla spesso e a vanvera di mal de vivre come nutrimento di artisti, musicisti, poeti. Se ne parla in maniera stolida e anaffettiva assumendo che la depressione è l’unico elemento da cui l’unto da Mnemosyne, la madre delle muse, può attingere la propria creatività. Se questo storicamente è in parte vero non è detto che questa sia la verità assoluta: Nazim Hikmet e Picasso sono lì a dimostrare il contrario.
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Questa vorrebbe essere la premessa posta a cappello del testo di Stig Dagerman che pubblichiamo qui si sotto. Un testo quello dello svedese in cui si evidenzia – sotto una quasi invisibile vocazione all’ironia – una palese volontà di dimostrare l’inutilità e il non senso dell’esistenza umana e nello stesso tempo, quasi fosse il suo un acting aut, una richiesta d’aiuto c’egli però chiama erroneamente “consolazione” . «Poiché sono minacciato dal mare: uno scoglio d’inamovibile granito.» Il mare per lui è “granito” da cui non si può staccare; per Camus invece il mare è tutt’altro: «Ho sempre avuto l’impressione di vivere in alto mare, minacciato, nel cuore di una felicità da re».
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Sul questo breve testo, che leggerete poi, si potrebbe scrivere un trattato filosofico e qualche psicologo potrebbe tracciare lussureggianti interpretazioni cliniche … lo si potrebbe fare se questo testo non grondasse di disperazione sulla quale non si dovrebbe mai fare facili ironie.
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Dal testo di Stig Dagerman estraggo solo la parola “consolazione” per cercare di darne una definizione e poi inserirò tre o quattro note con alcune considerazioni.
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Non vorrei sembrare troppo severo con il poeta svedese. Indubbiamente egli cerca di narrare il suo disagio esistenziale. Nel testo egli cerca di definire la realtà umana come un’entità in cerca di consolazione. Già dal titolo “Il nostro bisogno di consolazione” egli assume questo “bisogno” come indispensabile per la realizzazione umana. Per lui la consolazione è il paradigma in cui è racchiuso il senso dell’esistere. Dagerman – forse giustamente visto la cultura religiosa a cui fa riferimento – non si premura nemmeno di spiegare cosa sia la “consolazione” di cui parla. Egli da per scontato che per tutti sia imprescindibile come è imprescindibile l’espiazione di una colpa ancestrale : «di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto. (…) Ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il contrario di una scusa: l’espiazione. »
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Ora ci sarebbe da intenderci su termini come consolazione, tempo, desiderio, bramosia, espiazione, ecc. ma non vedo come questo sia possibile.
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Usando il termine consolazione come viene usato normalmente posso dire che la “consolazione” è una stampella usata solo da chi crede in un minus originario vagheggiato dalla ragione filosofica come animalità e dalla religione come peccato originale. Persa ogni speranza di poter raggiungere la realizzazione piena della propria esistenza umana serve una stampella consolatoria che offre la religione e che Dagerman rifiuta senza però trovare via d’uscita. Una stampella per chi, perduta ogni speranza di trovare nell’infinita dialettica con l’altro da sé il senso dell’esistenza, cerca una impossibile consolazione che può trovare solo ingannandosi. E Dagerman sembra troppo onesto per fingere di credere nella consolazione. Certo è che per chi, come lui, creda che anche «libertà –sia – ingannevole, – e che non sia altro che – l’immagine riflessa della mia disperazione.» è difficile salvarsi dal suicidio fisico o mentale.
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Ma tutto ciò non è vera realtà umana. Questa disperazione appartiene solo a chi ha perduto, nei marosi di deludenti rapporti interumani, la speranza certezza dell’esistenza di un uguale a se stesso. E la biografia di Dagerman parla dell’abbandono da parte della madre nei primissimi mesi dopo la nascita; parla delle difficoltà del padre di garantire le condizioni essenziali alla crescita intellettuale; parla dell’uccisione del nonno da parte di uno squilibrato e della conseguente perdita della nonna. Entrambi i nonni erano molto amati dal poeta svedese. Tanto amati che queste scomparse “senza senso”, portarono Stig Dagerman a commettere il primo di una serie di tentati suicidi.
La sua onestà intellettuale non gli consentiva di chiudere gli occhi né su se stesso né sulla realtà storico culturale che lo circondava: egli vedeva chiaramente come «torta liberale – fosse – la panna finta – che – ha lo scopo di camuffare verità troppo amare».
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Quando nel ‘45 l’Expressen gli affidò l’incarico di redigere una serie di reportage sulle rovine dell’«impero» hitleriano, Dagerman fu sopraffatto dall’orrore e dal dolore. Dolore degli altri che, scrisse lo svedese «è qualcosa di indegno» perché rende stupidi o cinici. Quelle rovine e quel dolore lasceranno nell’animo di Dagerman l’«odore acre e amaro di incendi estinti nell’umido crepuscolo autunnale».
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Certamente le sue vicende mi portano in qualche modo a comprendere le ragioni che lo portarono ad assumere una poetica nichilista – pochi si sarebbero salvati da una mitragliata di traumi psichici simili – ma tutto ciò non può portare al biasimo del mio primo movimento mentale di rifiuto … io mi fido sempre delle mia naturale reazione … irrazionale … la rivendico come strumento primario per la salvaguardia della mia identità umana.
15 maggio 2016
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Stig Dagerman
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Il nostro bisogno di consolazione
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Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa.
Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre.
Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto.
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Io stesso sono a caccia di consolazione come un cacciatore lo è di selvaggina. Là dove la vedo baluginare nel bosco, sparo. Spesso il mio tiro va a vuoto, ma qualche volta una preda cade ai miei piedi. Poiché so che la consolazione ha la durata di un alito di vento nella chioma di un albero, mi affretto a impossessarmi della mia vittima.
Cosa stringo allora tra le mie braccia?
Poiché sono solo: una donna amata o un infelice compagno di strada. Poiché sono un poeta: un arco di parole che tendo sentendomi pervadere di gioia e di spavento. Poiché sono un prigioniero: un improvviso spiraglio di libertà. Poiché sono minacciato dalla morte: un animale caldo e vivo, un cuore che batte irridente. Poiché sono minacciato dal mare: uno scoglio d’inamovibile granito.
Vi sono però anche consolazioni che vengono a me come ospiti non invitati e riempiono la mia stanza di bisbigli volgari: io sono il tuo desiderio – amale tutte! Io sono il tuo talento – abusa di me come di te stesso! Io sono l’amore per il godimento – solo i bramosi vivono! Io sono la tua solitudine – disprezza gli esseri umani! Io sono la nostalgia della morte – recidi!
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In equilibrio su un asse sottile, vedo la mia vita minacciata da due forze: da un lato dalle bocche avide dell’eccesso, dall’altro dall’amarezza avara che si nutre di se stessa. Ma io mi rifiuto di scegliere tra l’orgia e l’ascesi, anche se il prezzo dev’essere un tormento continuo.
A me non basta sapere che ogni cosa può essere scusata in nome della legge del servo arbitrio. Ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il contrario di una scusa: l’espiazione.
Mi coglie infine il pensiero che qualsiasi consolazione la quale non tenga conto della mia libertà è ingannevole, non è che l’immagine riflessa della mia disperazione. Quando infatti la mia disperazione dice: abbandonati allo sconforto, perché il giorno è racchiuso tra due notti, la falsa consolazione urla: spera, perché la notte è racchiusa tra due giorni.
L’uomo non ha però bisogno di una consolazione che sia un gioco di parole, ma di una consolazione che illumini. E chi desidera essere malvagio, vale a dire un uomo che agisce come se tutte le azioni fossero difendibili, dovrebbe almeno avere la bontà di accorgersi quando è riuscito nel suo scopo.
Nessuno è in grado di enumerare tutti i casi in cui la consolazione è una necessità. Nessuno sa quando cala l’oscurità, e la vita non è un problema che possa essere risolto dividendo la luce per la tenebra e i giorni per le notti, è invece un viaggio pieno d’imprevisti tra luoghi inesistenti. Posso per esempio camminare sulla spiaggia e all’improvviso sentire la spaventosa sfida dell’eternità alla mia esistenza nell’incessante movimento del mare e nell’inarrestabile fuga del vento. Cos’è allora il tempo se non una consolazione perché niente d’umano può essere perenne? E che consolazione miserabile, da arricchire solo gli svizzeri.
Posso starmene seduto davanti al fuoco nella più sicura delle stanze e, all’improvviso, sentire la morte che mi accerchia. È nel fuoco, in tutti gli oggetti taglienti che mi stanno intorno, nel peso del tetto e nella massa delle pareti, è nell’acqua, nella neve, nel calore e nel mio sangue. Cos’è allora la sicurezza dell’uomo se non una consolazione perché la morte è prossima alla vita? E che povera consolazione, che riesce solo a ricordarci ciò che vorrebbe farci dimenticare!
Posso riempire tutti i miei fogli bianchi con le più belle combinazioni di parole che sorgono nel mio cervello. Siccome desidero assicurarmi che la mia vita non sia priva di senso e che io non sia solo sulla terra, raccolgo le parole in un libro e ne faccio dono al mondo. Il mondo mi dà in cambio dei soldi, la fama e il silenzio. Ma che m’importa dei soldi, che m’importa di contribuire a rendere più grande e perfetta la letteratura? L’unica cosa che m’importa è quella che non ottengo mai: l’assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo. (1) Cos’è allora il mio talento se non una consolazione per la mia solitudine? Ma che consolazione spaventosa, che riesce solo a farmi vivere la solitudine con intensità cinque volte maggiore!
Posso vedere la libertà incarnata in un animale che attraversa veloce una radura e sentire una voce che sussurra: vivi semplicemente, prendi ciò che desideri e non temere le leggi! Ma cos’è questo buon consiglio se non una consolazione perché la libertà non esiste? E che consolazione spietata, per chi comprende che occorrono milioni di anni a un essere umano per trasformarsi in lucertola!
Posso infine scoprire che questa terra è una fossa comune in cui Salomone, Ofelia e Himmler riposano fianco a fianco (2). Posso trarne l’insegnamento che il crudele e l’infelice muoiono la stessa morte del saggio, e che la morte può quindi apparire una consolazione per una vita sprecata. Che orribile consolazione, però, per chi nella vita vorrebbe vedere una consolazione alla morte!
Non possiedo una filosofia in cui potermi muovere come l’uccello nell’aria e il pesce nell’acqua.
Tutto quello che possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni istante della mia vita tra le false consolazioni, che solo accrescono l’impotenza e rendono più profonda la mia disperazione, e le vere consolazioni, che mi guidano a una temporanea liberazione. Dovrei forse dire: la vera consolazione, perché a rigore non c’è per me che una sola vera consolazione, e questa mi dice che sono un uomo libero, un individuo inviolabile, una persona sovrana entro i miei limiti.
Ma la libertà ha inizio con la schiavitù e la sovranità con la soggezione. Il più sicuro indizio della mia mancanza di libertà è il mio timore di vivere. L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo è sicuramente vero. Alla luce delle mie azioni mi rendo conto che tutta la mia vita sembra avere per scopo quello di procurare delle pietre da attaccarmi al collo. Ciò che potrebbe darmi la libertà mi dà schiavitù e pietre al posto del pane.
Uomini diversi hanno padroni diversi. Io, per esempio, sono a tal punto schiavo del mio talento che non ho il coraggio di farne uso per timore d’averlo perso. Sono poi così schiavo del mio nome da non osare quasi scrivere una riga per paura di arrecargli danno. E quando infine sopravviene la depressione, sono schiavo anche di quella.
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Il mio più grande desiderio diventa quello di trattenerla, il mio più grande piacere è sentire che il mio unico valore stava in ciò che credo di aver perduto: la capacità di spremere bellezza dalla mia disperazione, dal mio disgusto e dalle mie debolezze. Con gioia amara voglio vedere le mie case crollare e me stesso sepolto nell’oblio. Ma la depressione ha sette scatole, e nella settima sono riposti un coltello, una lametta da barba, un veleno, un’acqua profonda e un salto da una grande altezza. Finisco per essere schiavo di tutti questi strumenti di morte. Mi seguono come cani, o sono io a seguirli come un cane. E mi pare di capire che il suicidio è l’unica prova della libertà umana.
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Ma da una direzione di cui ancora non ho idea si avvicina il miracolo della liberazione. Può accadere sulla spiaggia, e la stessa eternità che poco fa ha suscitato la mia paura è ora testimone della mia nascita alla libertà. In cosa consiste dunque questo miracolo? Semplicemente nella scoperta improvvisa che nessuno, nessuna potenza e nessun essere umano, ha il diritto di esigere da me tanto da far dileguare la mia voglia di vivere. Perché se non esiste questa voglia, cosa può esistere allora?
Dal momento che mi trovo sulla riva del mare, dal mare posso imparare. Nessuno ha il diritto di pretendere dal mare che sorregga tutte le imbarcazioni o di esigere dal vento che riempia costantemente tutte le vele.
Così nessuno ha il diritto di pretendere da me che la mia vita divenga una prigionia al servizio di certe funzioni. Non il dovere prima di tutto, ma prima di tutto la vita! Come ogni essere umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere un’unità che agisce autonomamente.
Solo in questi momenti posso essere libero davanti a tutte quelle consapevolezze sulla vita che mi hanno prima portato alla disperazione. Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che l’eternità non si cura di me. (3)
Ma chi mi chiede di curarmi dell’eternità? La mia vita è breve solo se la colloco sul patibolo del calcolo del tempo. Le possibilità della mia vita sono limitate solo se faccio il conto della quantità di parole o di libri che avrò il tempo di produrre prima della mia morte. Ma chi mi chiede di fare questo conto? Il tempo è una falsa misura per la vita. Il tempo è in fondo uno strumento di misura privo di valore, perché tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita. (alla vita di ognuno di noi appartiene un proprio tempo interno: un tempo che ha inizio col pensiero e un tempo che ha una fino quando il pensiero muore per sempre)
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Ma tutto quel che mi accade di importante, tutto quel che conferisce alla mia vita il suo contenuto meraviglioso – l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza – tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è del tutto indifferente. Non solo la beatitudine si trova al di fuori del tempo, ma essa nega anche ogni relazione tra il tempo e la vita.
Depongo dunque il fardello del tempo dalle mie spalle e, con esso, quello delle prestazioni che da me si pretendono. La mia vita non è qualcosa che si debba misurare. Né il salto del capriolo né il sorgere del sole sono delle prestazioni.
E nemmeno una vita umana è una prestazione, ma uno svilupparsi e ampliarsi verso la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni, opera nella quiete. (4) È privo di senso sostenere che il mare esiste per sorreggere flotte e delfini. Lo fa, certo, mantenendo però la sua libertà. Ed è altrettanto privo di senso affermare che l’uomo esiste per qualcos’altro che non sia il vivere. Certo, egli alimenta macchine o scrive libri, ma potrebbe fare qualsiasi altra cosa. L’essenziale è che faccia quel che fa mantenendo la propria libertà e con la chiara coscienza di avere in sé – come ogni altro della creazione – il proprio fine. Egli riposa in se stesso come una pietra sulla sabbia.-
Posso anche essere libero dinanzi al potere della morte. Certo, non potrò mai liberarmi dal pensiero che la morte segue i miei passi, e tanto meno negare la sua realtà. Ma posso ridurre la minaccia fino ad annullarla non ancorando la mia vita a punti d’appoggio tanto precari come il tempo e la fama.
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Non è invece in mio potere restare costantemente rivolto verso il mare e confrontare la sua libertà con la mia. Verrà il tempo in cui dovrò volgermi verso la terra e affrontare gli organizzatori della mia oppressione. Sarò allora costretto a riconoscere che l’uomo dà alla propria vita delle forme che, almeno in apparenza, sono più forti di lui. Con tutta la mia libertà appena conquistata non mi è possibile spezzarle, posso solo lamentarmi sotto il loro peso. Posso però distinguere, tra le richieste che pesano sull’uomo, quali sono irragionevoli e quali ineludibili. Un tipo di libertà, mi rendo conto, è perduto per sempre o per lungo tempo. Parlo di quella libertà che deriva dal privilegio d’essere padrone del proprio elemento. Il pesce ha il suo elemento, l’uccello ha il suo, l’animale di terra il suo. L’uomo invece si muove in questi elementi correndo tutti i rischi dell’intruso. Ancora Thoreau aveva la foresta di Walden, ma dov’è adesso la foresta in cui l’uomo possa dimostrare che è possibile vivere in libertà, al di fuori delle norme irrigidite della società?
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Sono costretto a rispondere: in nessun luogo. Se voglio vivere in libertà, dev’essere – per ora – all’interno di queste forme. ( la mia libertà è quella di reagire e cercare di mutarle) Il mondo è dunque più forte di me. Al suo potere non ho altro da opporre che me stesso – il che, d’altra parte, non è poco. Finché infatti non mi lascio sopraffare, sono anch’io una potenza. E la mia potenza è temibile finché ho il potere delle mie parole da opporre a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà. Ma la mia potenza sarà illimitata il giorno in cui avrò solo il mio silenzio per difendere la mia inviolabilità, perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente.
Questa è la mia unica consolazione. So che le ricadute nella disperazione saranno molte e profonde, ma il ricordo del miracolo della liberazione mi sostiene come un’ala verso una meta vertiginosa: una consolazione più bella di una consolazione e più grande di una filosofia, vale a dire una ragione di vita. (5) ——–
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NOTE
(1)Queste parole di Stig Dagerman fanno riverberare il frammento 441 di Emily Dickinson: «Questa è la mia lettera al Mondo/che non scrisse mai a me -/notizie che la Natura portò -/con tenera maestà/Il suo Messaggio è affidato/a mani che vedo -/per amor di lei – dolci – compatrioti -/giudicate – di me – teneramente» La Dickinson, pur avendo piena coscienza del proprio talento, non lo ostenta. Per lei, che sa come vanno le cose del mondo, il non venir riconosciuta non è un problema. La poetessa sa che nessuno potrà annullare il suo talento. Per lei non è necessario che le sue parole tocchino “il cuore del mondo” per dar senso alla propria esistenza e alla propria poesia. Per Stig Dagerman invece ciò appare imprescindibile, e in questo si può intravedere un vuoto ontologico.
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(2)Mettere sullo stesso piano Salomone, Ofelia e Himmler è un grave spostamento di senso, che un buon psichiatra potrebbe definire “nesso strano”. In poesia è difficile capire quando la licenza poetica mutua se stessa in insalata di parole dello schizofrenico o perlomeno in una schizofasia fine a se stessa. Sembra quasi che il poeta svedese usi le parole imposte che ha trovato nel pret a porter del linguaggio comune, incapsulandole in un proprio “senso” che gli impedisce di andare a vedere la vera radice della realtà umana. A volte anch’io come Andrea Zanzotto rivendico la mia capacità di “avvertire” stonature nei testi che leggo che mi fa “sentire” uno scollamento tra lo scritto e il suono.
«Avverto anche subito quando c’è qualcosa che non va, perché l’onda ritmica fa sentire un suo vuoto.»
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intervista di Noemi Ghetti a Zanzotto leggi qui.
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Per una breve biografia vedi Wikipediahttp://it.wikipedia.org/wiki/Stig_Dagerman
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ipazia.............e bakunin
18 Ottobre 2013 @ 19:52
le tue ” sagge considerazioni” confermano l’affermazione di dagerman.
il tuo furore inquisitorio ,quello si ,di matrice religiosa, ti fa vedere pazzi e paranoici dapertutto.a leggere quello che scrivi ho l’impressione che tu abbia letto un’altro testo. o forse sono i tuoi pregiudizi……….
lascio all’intelligenza e alla sensibilità dei lettori giudicare il testo di dagerman.
ci sono i pochi libri in circolazione ,per chi avesse voglia di leggerlo ,a dimostrare il suo indiscutibile valore ,come scrittore.
probabilmente da uomo e da anarchico quale era…… il giorno prima di morire, dagerman spedi la sua ultima poesia ad un giornale anarchico svedese ,di cui per anni ne era stato il direttore…….lui il nobel al contrario dei tanti che predicavano bene………e prezzolavano ancora meglio…… lo avrebbe rispedito al mittente…………..
forse giancarlo,senza scomodare la tua amata pischiatria , dagerman era un uomo la cui estrema dignità e sensibilità, lo rese : FELICE DI ANDARMENE DA UN MONDO DOVE L’AZIONE NON E’ SORELLA DEL SOGNO…..come scrisse boudelaire.
ciao antonio.
ps
non sono un consulente che vive ai margini dell’anarchia……….ma un semplice ebanista che vive di pane,frutta( sono vegetariano ) e quando ne ho tempo e voglia……..quasi sempre………anche di anarchia
ipazia.............e bakunin
18 Ottobre 2013 @ 19:55
chi costruisce prigioni si esprime meno bene di chi costruisce la libertà
ps
cosi ha inizio la mia risposta siccome l’ho virgolettata non compare nel commento sopra.
XXX
20 Ottobre 2013 @ 15:27
Leggi qui la risposta al commento di Antonio http://www.igiornielenotti.it/?p=17802