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Pubblichiamo un altro racconto di Sam Shepard raccolto nel volume Motel Choronicles
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Qui una breve biografia dell’autore.
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San Marcos, Texas – marzo ‘79
Attraversò furtivamente la piscina
Dall’Holiday Inn
E sentì una fitta di inutilità
La vista di una piscina
A mezzanotte
In Texas
Povero Texas
Scolpito dentro
Come tutto il resto
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Homestead. Valley, Ca. – 13 agosto ‘80
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La prima volta che marinai scuola avevo dieci anni. Mi convinsero a farlo due ragazzi più grandi. Erano fratelli ed entrambi erano entrati t usciti dal Riformatorio per cinque volte. Mi dissero che sarebbe stato come prendersi una breve vacanza. Così ci andai. Rubammo tre biciclette da un cortile e decollammo verso I’Arroyo Seco. La bicicletta che avevo rubato era troppo grande per me per cui non riuscii mai a sedermi sul sellino per tutto il tragitto. Pedalavo stando in piedi.
Nascondemmo le biciclette in un boschetto di Eucaliptus sulla sponda dell’Arroyo e scendemmo verso il torrente. Prendemmo dei Gamberetti d’acqua dolce con dei pezzi di caramelle di gomma poi li stappammo dal guscio e usammo la polpa per catturare altri Gamberetti. Quando arrivò l’ora di pranzo dovetti dividere il mio con i fratelli perché loro avevano dimenticato di portarselo. Sparpagliai il contenuto del sacchetto di carta su una grossa roccia piatta.
Una carota avvolta in carta oleata fissata da un elastico. Un panino al polpettone. Una stecca mezza liquefatta di cioccolata.
Attaccarono la cioccolata per prima. Strapparono il pacchetto e leccarono la cioccolata dalla carta. Mi offrirono una leccata ma declinai l’invito. Non mangiai neanche il panino al polpettone. Avevo sempre odiato il polpettone. Specialmente freddo e in mezzo a[ pane.
Per il resto del pomeriggio ci arrampicammo su e giù per le colline a caccia di serpenti finché a uno di loro non venne l’idea di calare le bicicllette nell’acquedotto e percorrerne il letto asciutto fino a Los Angeles. Io dissi “sì” a tutto anche se sospettavo che Los Angeles fosse almeno a cento miglia di distanza. L’unica volta che ero andato a Los Angeles era stato quando mia zia mi aveva portato alla Fiera dell’Agricoltura con la sua Dodge del ‘45 a vedere gli uccelli Myna. Dovevo avere più o meno sei anni allora.
Mi arrampicai sulla rete metallica mentre i due fratelli toglievano la corrente elettrica dal filo spinato in cima al recinto. Il tempo necessario perché io scavalcassi la rete mettessi un piede sulla parete di cemento dell’acquedotto e mi lasciassi cadere sul fondo con un salto di tre metri.
Poi loro mi passarono le biciclette, appese alle loro cinture.
Pedalammo per miglia lungo quel gigantesco corridoio di cemento, con le ruote delle biciclette che sobbalzavano sulle strisce di calafataggio marroni usate per saldare le fessure. A eccezione di queste giunture era la superficie più liscia e più piatta su cui fossi mai andato in bicicletta.
Sorpassammo rosse cartucce da fucile sbiadite dal sole, opossum morti, lattine di birra. Gusci di noce, bucce di carrube, un Procione lavatore con due piccoli, pagine strappate da riviste porno, grossi pezzi di corda, camera d’aria, mozzi di ruota, tappi di bottiglia, piante di Salvia essiccate, assi coi chiodi, mozziconi di sigarette, radici, pezzi di vetro, palline da golf gialle a strisce rosse, una chiave inglese, biancheria femminile, scarpe da tennis, calze stecchite, un cane morto, topi, libellule che battevano l’elica a mezz’aria, rane accartocciate con gli occhi di fuori. Pedalammo per miglia finché non arrivammo in un punto in cui l’acquedotto era rutto chiuso come un grande tunnel di cui non si riusciva a intravedere l’uscita. Fermammo le nostre biciclette e guardammo attraverso la bocca del tunnel e io mi accorsi che anche loro avevano paura come me nonostante fossero più grandi. Stava già incominciando a fare buio e la prospettiva di rimanere bloccati là dentro di notte, senza sapere quanto era lunga quella roba o in quale città saremmo sbucati, o come diavolo avremmo fatto a arrampicarci fuori di nuovo una volta che ne fossimo usciti fece desiderare a tutti quanti di essere di nuovo a casa.
Non che qualcuno avesse detto che era questo che volevamo però io lo sentii passare tra noi.
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Non ricordo come fu presa la decisione, ma ci buttammo a capofitto dentro al tunnel. Il pavimento era concavo e viscido di muschio, cosa che faceva slittare le ruote. A momenti i nostri piedi affondavano fino alla caviglia in una melma nera e alla fine ci toccò portare le biciclette a mano per la maggior parte del tragitto. Continuavamo a lanciarci segnali se non altro per localizzare le nostre posizioni mentre la luce spariva alle nostre spalle. All’inizio cercammo di spaventarci a vicenda con dei rumori sinistri ma lasciammo perdete perché la eco era davvero terrorizzante.
Incominciai ad avere delle visioni di Los Angeles che appariva all’improvviso alla fine del tunnel. Si sarebbe materializzata davanti a noi, tutta un baluginare di luci e di movimento e di vita. Talvolta mi appariva come l’avevo vista nelle cartoline. (Palme che si stagliavano sullo sfondo di montagne innevate con boschetti di aranci sparpagliati sulle pendici. La Stazione Ferroviaria con davanti un asino, attaccato a un carretto.) Ma non arrivò. Per ore non arrivò.
E avevo i pedi bagnati. E ormai avevo dimenticato persino l’aspetto dei due fratelli. Continuavo ad avere dei pensieri terribili su casa mia. Su cosa sarebbe successo quando fossi finalmente tornato indietro. Nell’oscurità rivedevo la nostra casa. I tendoni rossi. La porta del garage. La striscia di prato al centro del viale. I cespugli di bacche. I Pettirossi che le mangiavano. Primi piani del becco del Petti rosso che si abboffava di bacche rosse. Così vicino che potevo vedere anche le palline di polvere bagnata dall’umidità del prato nei punti in cui l’uccellino aveva dissotterrato i vermi. Non riuscivo a bloccare queste immagini. (Io che mi incamminavo verso la scuola. Il vecchio Vigile paffuto sull’angolo con la sua paletta rotonda sulla quale era scritto STOP in lettere rosse. Il campo da giochi di terra. Fontanelle di porcellana con manopole argentate che sgocciolavano. La faccia del bambino che avevo colpito allo stomaco senza nessuna ragione. Lievi tracce di maionese intorno alle sue labbra.) Avevo la sensazione che queste immagini mi avrebbero sommerso. Mi domandavo cosa stessero pensando i due fratelli ma non glielo chiesi mai.
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Era notte quando raggiungemmo l’uscita e non era neanche Los Angeles. Sopra le nostre teste apparvero enormi Sicomori con nebbiose luci stradali arancioni. Si sentiva il rumore di una superstrada. E periodici sibili di camion. Ci trascinammo fuori arrampicandoci gli uni sulle spalle degli altri e agganciando le cinture in cima alla rete metallica. Il fratello più grande disse che riconosceva la città in cui eravamo.
Disse che si trattava di Sierra Madre e che aveva uno zio che viveva abbastanza vicino. Pedalammo fino alla casa di suo zio e a questo punto non parlavamo più tra di noi. Non avevamo niente da dirci.
Suo zio viveva in una casa di tre stanze dove c’erano parecchi uomini seduti nella stanza centrale a bere birra e a guardare il Cavaliere Solitario alla TV. Nessuno parve sorpreso di vederci. Si comportarono come se fosse già successo un sacco di volte. Una donna stava preparando un pentolone di spaghetti in cucina e ci diede un piatto di carta ciascuno dicendoci di aspettare che si scaldasse il sugo di carne. Ci sedemmo sul pavimento ai piedi degli uomini nella stanza centrale e guardammo il Cavaliere Solitario mangiando spaghetti. Quella era la prima volta che vedevo la TV perché a casa non l’avevamo. (Mio padre diceva che non ne avevamo bisogno.) I1 Cavaliere Solitario mi piacque un sacco. Soprattutto la musica quando lui galoppava su Silver e faceva un’impennata sventolando il cappello verso una donna con un bambino in braccio.
Infine fummo beccati, più tardi in serata, da una pattuglia della polizia su un ponte di South Pasadena. I poliziotti si comportarono come se fossimo adulti. Avevano quel tipo di atteggiamento serio mentre ci chiedevano: “Dove le avete prese queste biciclette? Come vi chiamate? Lo sapete che ore sono? ” E roba del genere. Chiamarono via radio i nostri genitori e sequestrarono le biciclette. Arrivò mia madre e mi portò a casa in macchina, spiegandomi che il Papà non aveva voluto venire perché era così incazzato che aveva paura di ammazzarmi. Mia madre non fece che ripetermi: “Adesso sei schedato dalla polizia. E lo sarai per tutta la vita” .
Venni frustato tre volte con la cintura di mio Papà dalla parte della fibbia. Tre volte. Tutto qui. Poi lui uscì di casa e non disse mai una sola parola sull’accaduto.
Rimasi sdraiato a letto e ascoltai mia madre che stirava in cucina. Me la immaginai mentre stirava. Il sibilo del vapore. Lo spruzzatore che usava per inumidite le camicie di Papà. Mi immaginai la sua faccia piegata sulla camicia mentre il suo braccio andava avanti e indietro con ritmo regolare.