VOLEVO DIVENTARE QUELLA CHE SONO *
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Loretta Emiri **
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Quando rientrai la prima volta in Italia, dopo quattro anni e mezzo trascorsi nella foresta yanomami, la sorella assai maggiore di un’amica mi ricordò che, soldo di cacio, dicevo che da grande volevo diventare missionaria. Partii per l’Amazzonia come missionaria laica, aggregata a un istituto religioso. Non avendo accesso ad altri canali, avevo cercato l’istituto missionario per mettermi in condizioni di concretizzare l’antico e ben definito sogno di operare in un paese del cosiddetto terzo mondo. Grazie alle cattoliche spalle al riparo delle quali mi ero messa, ancor prima di arrivare in Brasile ottenni il visto permanente di soggiorno, di così difficile rilascio in quell’epoca di dittatura militare. All’infantile desiderio di aiutare gli altri, nel corso di anni bui e dolorose batoste, si era aggiunta l’esigenza di essere aiutata. Questa affatto etnocentrica condizione interiore fece sì che mi avvicinassi agli Yanomami in atteggiamento di ascolto. Captando quanto drammatica fosse la loro situazione, a causa dell’invasione del territorio da parte dei fronti di espansione della società occidentale, e cogliendo nella loro cultura valori e messaggi validi anche per la mia vita, non mi ci volle molto tempo per rinnegare il termine “missionaria” e passare ad autobattezzarmi volontaria prima, indigenista poi.
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Quando gli anni erano ancora verdi, ricordo che volevo diventare hostess. Nei miei sogni, l’esotica professione mi avrebbe elargito l’emozione del volo e una vita probabilmente più agiata di quella che conducevo come figlia di un elettricista comunale e di una sarta per uomo. La sarta per uomo, a volte, non andava nemmeno a dormire per mettere insieme soldi che allargassero quelli stretti guadagnati dal marito. Ho perso il conto dei voli realizzati in Brasile, e fra Brasile e Italia. Nelle confortevoli vesti di passeggera, assistita da quasi sempre premurose hostess, la realtà mi ha portata molto più in alto del sogno.
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Quando frequentavo la scuola media, una delle materie che più mi affascinava era il Latino. Mi avvicinavo all’antica lingua morta con curiosità e piacere, e ciò faceva sì che riportassi bei voti e che desiderassi approfondirne un giorno lo studio. Mi avvicinai all’ancestrale lingua viva yanomami con curiosità e piacere, e ciò fece sì che, pur non avendo una formazione specifica, producessi un abbecedario, un libro di letture, una grammatica, un dizionario.
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Quando frequentavo la scuola per segretarie d’azienda, una delle materie che più amavo era il Diritto, tanto che desiderai approfondirne un giorno lo studio. Il mio impegno di indigenista è stato caratterizzato dall’affermazione e difesa dei diritti degli indios. Specializzatami nella legislazione dell’educazione scolastica indigena, ho avuto l’emozione di collaborare con famose personalità (fra cui Florestan Fernandes e Darcy Ribeiro, all’epoca rispettivamente deputato e senatore) nella stesura di proposte divenute leggi; e ho avuto il privilegio di mettere le mie conoscenze a disposizione dei maestri indigeni brasiliani, durante corsi e incontri, affinché, più organizzati, potessero esigere l’applicazione delle leggi esistenti e l’approvazione di nuove.
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Durante tutta la vita di studentessa, l’Italiano fu la materia a me più congeniale. Sgorgava fuori in modo tanto naturale e istintivo da farmi desiderare di diventare un giorno una scrittrice. In portoghese ho pubblicato articoli, denunce, sussidi didattici, saggi, ricerche etnografiche e linguistiche. Mi è entrato dentro in modo tanto naturale e istintivo che ho potuto scriverci anche poesie. Il professore dell’Università Federale di Roraima, che mi intervistava, insinuò che la lingua dei sentimenti è quella materna. Non mi hai convinto, professore, perché i sentimenti che ho scritto in portoghese non sono meno profondi e veri di quelli scritti in italiano. La teoria che qui ipotizzo è che, da parte del bilingue, la scelta di una piuttosto che dell’altra lingua è determinata dall’esigenza della comunicazione. Chi è il nostro interlocutore, a chi vogliamo dirigerci, con chi vogliamo condividere le nostre emozioni? Lingua della comunicazione, quindi, e non lingua dei sentimenti, perché l’emozione possiamo scriverla in tutte le lingue che conosciamo.
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Non ricordo a che epoca risale il mio desiderio di diventare architetta, ma ricordo che demolii la velleità di frequentare l’università al primo sentore che ebbi delle ristrettezze economiche dei miei. Anche questo diamante grezzo di desiderio è stato, però, lapidato dalla realtà. L’architettura grafica è l’arte di progettare uno scritto conferendogli funzionalità, essenzialità, equilibrio, ritmo. C’è bisogno di uno schema, di una struttura per articolare la composizione o la trama di un’opera. Per soddisfare vitali esigenze estetiche, ho creato un mio stile architettonico. La forma per me è tanto importante quanto il contenuto: ho battuto a macchina l’originale, che doveva essere fotografato, del dizionario yanomami-portoghese; ho ideato copertine e curato vesti grafiche; ho fatto revisioni tipografiche e accompagnato di persona la stampa dei miei libri. Stile e forma come qualità. Qualità come identità. Sedendo pazientemente al tecnigrafo, con puntiglio progetto l’identità delle mie opere.
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* Il brano “Volevo diventare quella che sono” è uno dei capitoli del libro Amazzonia portatile, Manni Editori, Lecce, 2003.
** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i volumi di racconti Amazzonia portatile e Amazzone in tempo reale (premio speciale della giuria per la Saggistica, del Premio Franz Kafka Italia 2013), il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice degli inediti A passo di tartaruga e Romanzo indigenista, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice.
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