… le porte d’avorio della realtà… le porte di corno della fantasticheria delirante… interpretazioni a margine della biografia di Philip K. Dick scritta di Emmanuel Carrère «Io sono vivo, voi siete morti»
–
Durante le vacanze, in un luogo ameno tra boschi e mare, sono venuto a contatto con persone il cui vivere in uno stato mentale caotico ai confini tra realtà e fantasticheria paranoide, era, apparentemente, il loro “pane quotidiano”, il loro status quo, ovvero il loro stato mentale presente e persistente. Brave e ottime persone la cui stranezza era data però solo da un dato “antropologico”: queste persone anziché credere a madonne, santi, reincarnazioni e a tutto l’armamentario soprannaturale della tradizione cristiana, avevano assunto a modello filosofico una mélange metafisica in cui gli influssi degli astri sul destino umano, deliri ossessivi, misticismo orientale, strisce chimiche, pratiche ayurvediche, oshanesimo riadattato alla bisogna, ossessioni paranoiche e complottiste, si amalgamavano. Il tutto senza che nessun dogma o decreto canonico, si ergesse a arginare qualsivoglia fantasia soggettiva “certificata” dalla debordante cultura New Age ovvero da quel vasto movimentosubculturale che comprende numerose correnti psicologiche, sociali e spirituali alternative sorte alla fine del XX secolo nel mondo occidentale.
Tra questi compagni di ventura – che ovviamente mi guardavo bene dall’osteggiare – vigeva il “vivi e lascia vivere” ognuno secondo il proprio idios kosmos, ovvero la particolare visione del mondo soggettiva che nella loro koinè arrangiaticcia diveniva un koinos kosmos convenzionale tacitamente e inconsciamente stipulato… «pur di avere un terreno stabile su cui stabilire le loro relazioni.»
A qualcuno pare strana questa modalità di stabilire rapporti interumani? Io non direi. Anzi direi che questa è prassi sociale comune: ognuno di noi ha un mondo proprio, privato, il proprio “idios kosmos”, che si contrapporrebbe al “koinos kosmos” creando conflitti, se le convenzioni sociali non ci imponessero «una sorta di finzione diplomatica, un minimo comune denominatore tra il mio ideos kosmos e quello del miei vicini». «Ma – scrive Emmanuel Carrère ricordando ciò che pensava Philip K. Disk, – il koinos kosmos – inteso come mondo oggettivo – propriamente parlando, non esiste».
Per una personalità paranoide, come quella dello scrittore americano, il salto da questo assunto, parzialmente condivisibile, al credere fermamente che «non solo non è possibile conoscere in modo diretto la realtà, perché è sempre filtrata dalla soggettività del singolo, ma anche il fatto che essa sia generalmente accettata è frutto di un errore» il passo è breve e porta a estreme conseguenze: «Ciò che le persone sensate, indipendentemente dalla varietà delle percezioni e delle interpretazioni, considerano di comune accordo realtà non è che un’illusione, un simulacro creato da una minoranza per ingannare la maggioranza o da un’entità esterna per ingannare il mondo intero. Quella che chiamiamo realtà non è la realtà».
Il verità la realtà oggettiva esiste anche se in continuo divenire. La ricerca è tentare di definirla verbalmente, di descriverla, di scoprirla, di sondarne i contenuti e non di costruirla o inventarla arbitrariamente perché la realtà esiste al di fuori di noi prescindendo dal nostro giudizio, dalle nostre definizioni… la realtà è indipendente da noi nel momento in cui non interagiamo con essa. Ma nel momento in cui una data realtà si accampa davanti al nostro sguardo noi, inconsciamente, la soggettivizziamo. Possiamo immaginare la realtà come il cubo di Rubik: nel momento in cui ogni lato è monocromatico, la realtà ci appare risolta… ma basta un battito di ciglia per dover riiniziare da capo per cercare di trovare una verità oggettiva, apparentemente inoppugnabile, più vera di quella precedente…
Questo dato di realtà confligge con la poetica paranoica di Philip K. Dick che crea gli scenari dei suoi romanzi; la paranoia che annulla la realtà è lo scenario ideologico dei film e delle serie televisive tratti dai suoi racconti come Truman Show (Tempo fuor di testo); I guardiani del destino (The Adjustment Team); Don’t worry darling (La fabbrica delle mogli); la serie Screamers tratto da Modello Due; la celeberrima serie televisiva Ai confini della Realtà e molto molto altro.
Poco male verrebbe da dire… ma, come narra questa biografia che Emmanuell Carrère nel 1994 dedica al più grande autore di fantascienza americano, Dick passa tutta la vita andando e venendo da uno stato mentale in cui la realtà è ridotta o a un mero ordine matematico iper-razionalistico, oppure a uno stato mentale paranoico in cui la realtà è solo frutto di fantasticherie fantascientifiche e in cui l’alienazione religiosa spadroneggia creando pseudo realtà in cui i confini tra delirio e creatività si sovrappongono pericolosamente.
Ed è all’interno di questi stati mentali che Dick crea mondi paralleli fantascientifici in cui i suoi pensieri non solo divengono letteratura ma, purtroppo, divengono anche vissuto personale che travolge la sua esistenza e stravolge l’esistenza delle persone con cui condivide il vivere quotidiano, in particolar modo le molti mogli che alla fine dovranno giocoforza separarsi da lui.
Dick – come chi oggi delira sulle strisce chimiche, ma anche sui microchip che verrebbero iniettati a nostra insaputa durante le vaccinazioni contro le pandemie – credette che entità governative come l’FBI, o esseri posti al limite tra l’umano e il divino, controllassero la mente dei cittadini attraverso apparecchi elettronici, ne stabilissero i destini, mandassero guardiani col compito di controllare chi cercasse di assumersi “arbitrariamente” la responsabilità etica della propria esistenza rifiutando qualsiavoglia destino predisposto da altri… in poche parole credeva che ciò che ora vedete nei film tratti dai suoi racconti fosse effettivamente la realtà… già la realtà a cui Philip K. Dick pensava ossessivamente.
Ma potrebbe anche essere che egli avesse “sentito”, avvertito, intuito, l’esistenza di un mondo parallelo identitario dove sfuggire “all’aria dei tempi”, ma non aveva saputo vederlo, rivoltarsi contro senza entrare in paranoia, dargli una forma, raccontarlo… o meglio aveva lasciato ai lettori il compito di interpretarlo, di vederlo, di reagire, di dargli una forma che corrispondesse ad un ideos kosmos umano, per esempio a quello di Italo Calvino: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
–
So che le reazioni all’“inferno” possono essere molteplici: la prima è, come dice Calvino, «accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più» ovvero negandolo, annullandolo con il pensiero inconscio; il secondo è quello di crearsi un universo parallelo, una strada laterale, una seconda vita, una “tana” kafkiana in cui entrare ogni qualvolta la vita ti presenta il conto o che, a causa di rapporti tossici, qualcuno impedisca il divenire della tua realtà immateriale umana… e la letteratura, soprattutto quella fantastica, per molti diviene un giardino segreto; la terza reazione, la più rischiosa è: capire profondamente che la realtà è quella che si accampa davanti ai propri occhi ogni mattina quando la veglia spegne i sogni della notte… la realtà “oggettiva” in qualche modo esiste ed è una sola, è alla stesso tempo universale e soggettiva… è fatta di miliardi di realtà umane per le quali se una sedia è una sedia per tutti, non necessariamente la realtà umana di un adulto è identica ad un’altra. La realtà vera è una e una sola con la quale convivere cercando di dare un senso profondo alla propria esistenza, cercando di trasformare ciò che nella propria e nell’altrui realtà umana è carente di umanità e rifiutando ciò che nella realtà esterna non ha contenuti umani.
Non è un caso se nei film tratti dalle sue narrazioni in qualche modo si salvano solo coloro che mantengono saldo il timone della propria identità umana sfidando “il sistema totalitario” in cui l’anaffettività è il requisito primario per vivere e magari far carriera “senza problemi”.
–
Blade Runner tratto da Ma gli androidi sognano pecore elettriche, parla appunto della mancanza di empatia in molti esseri umani, parla dell’anaffettività. Anaffettività intesa come mancanza di umanità che, se è naturale per un robot e per un androide, non lo è per gli esseri umani. Dick si chiedeva: ok, una macchina non potrà mai pensare come un uomo ma «che significa pensare come un uomo? O meglio, se preferiamo, quale peculiare aspetto del nostro modo di pensare e di comportarci può essere definito specificatamente umano? (…) ci sarà sempre qualcosa di irriducibile nell’algoritmo, qualcosa che a seconda della scuola di pensiero viene chiamato fantasma della macchina, autocoscienza o più semplicemente anima.»… nel mio saggio Demone Divino io definisco questa specificità della nostra specie realtà psichica o realtà immateriale umana.
Nel romanzo in questione, che diverrà poi un film cult firmato Ridley Scott, un funzionario specializzato nell’identificazione degli androidi, ovvero un blade runner, (da cui il titolo del film) viene incaricato di eliminare alcuni sofisticatissimi androidi che “pretendevano” di vivere liberamente. Questi androidi ribelli avevano raggiunto una tale perfezione che era difficile differenziarli dagli esseri umani. E allora «per ridurre il rischio di incenerire con il laser un essere umano, li sottopongono a dei test che però rischiano di essere obsoleti, dal momento che i fabbricanti di androidi aggiornano costantemente il loro programmi» con l’intento di rendere gli androidi identici agli esseri umani. «Ma – scrive Carrère – ciò che interessava a Dick era il criterio di discriminazione». Il criterio di discriminazione era, ovviamente, il grado di empatia.
Ma «Se il simulacro è il contrario dell’uomo, quale sarebbe il contrario dell’empatia? La crudeltà, l’orgoglio, il disprezzo? Sono solo gli effetti. La fonte di tutto il male, pensava Dick, è il ripiegamento, la chiusura dell’individuo in se stesso, che in ambito psichiatrico è il sintomo principale della schizofrenia. Ecco il primo punto debole: la somiglianza sconcertante tra la personalità “androide” e la personalità “schizoide”. (…) Uno schizoide pensa più di quanto non senta. Del modo e del suo personale modo di ragionare ha una percezione puramente teorica, astratta – è incapace – di dare vita a un emozione o a un pensiero reali. (…) Insomma uno schizoide pensa come una macchina. (…) Il problema, che rende poco affidabili i test e angosciante il compito dei blade runners, è che gli schizoidi, anche se pensano come delle macchine, sono pur sempre esseri umani».
In questo romanzo di Philip K. Dick, il protagonista, nonostante la tecnologia gli fornisca un test di empatia per distinguere gli esseri umani dagli androidi, non riesce quasi più a distinguere gli uni dagli altri a causa dell’elevata anaffettività di molti umani che hanno raggiunto un livello impensabile di disumanizzazione e quindi di schizoidia. Schizoidia che mettendo androidi e umani nel medesimo livello di disumanità vanifica i test. Disumanità schizoide causata, secondo Dick, per gli androidi da «un difetto di fabbricazione deliberatamente indotto» e per gli umani dal «difetto della creazione» divino che costringerebbe, secondo la vulgata millenaria del peccato d’origine, a «far violenza alla propria personalità».
Superata la fase che potremmo definire borderline, in cui il livello di anaffettività viene malamente celato da una bipolarità latente – o consapevole, come nel caso di Jekyll/Hyde – la società distopica ha dato la libertà di essere “autenticamente inumani” liberando il genere umano da inutili orpelli etici. Tutto ciò viene denunciato in questo romanzo che riesce a rendere visibile l’annullamento da parte degli schizoidi della realtà umana e i suoi effetti collaterali nelle società contemporanee che drammaticamente già definiscono “utopie auspicabili” le distopie presenti, prossime e future.
Anche in questo caso Philip Dick aveva saputo vedere l’altra faccia della realtà… e basta aver il coraggio aprire le porte d’avorio della realtà per intravederla… annullarla o adeguarsi ad essa… o scontrarsi con essa… magari ascoltando gli echi del pensiero di Seneca: «Non possiamo dirigere il vento, ma possiamo orientare le vele».
Gian Calo Zanon
30 luglio 2023
Luigi Scialanca
30 Luglio 2023 @ 17:24
Molto interessante.