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Ricordo quando al liceo il professore di storia della filosofia pronunziò il vocabolo “archè” . Parola dal bellissimo suono che evocava, disse il professore, il “principio di tutte le cose”. Ci fu un tempo in qui l’essere umano «amava la natura non umana ed immaginava che la realtà non materiale fosse negli spiriti che albergavano negli alberi e negli animali».(1) Dopo il pensiero animista, presente nei sistemi sociali nomadi dedite alla pastorizia, si sviluppò il politeismo, religione funzionale alle società stanziali che andavano agglutinandosi nelle nascenti polis.
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Tra l’età di Omero (IX-VIII sec.) e l’età di Socrate (seconda metà del V secolo) all’interno della cultura mediterranea si sviluppò un pensiero che pose al centro della ricerca la natura. Fu così che la mente tentò di affrancarsi dalla religione. Per liberarsi dal pensiero religioso e giungere ad un pensiero scientifico dovettero strutturare un nuovo linguaggio: il logos.
I filosofi, denominati Presocratici, utilizzando questo nuovo pensiero verbale, iniziarono un percorso epistemologico cercando di individuare, nominandole, le leggi invisibile che governavano l’ordine naturale della realtà in divenire. Secondo questo modo di pensare, che fonda la filosofia intesa come ricerca della verità interna alle cose, tutti gli esseri viventi si comportano secondo la loro natura. La natura, cioè il contenuto di una realtà animata in continuo divenire, è l’essenza del reale, vale a dire ciò che la fa essere ciò che è e non una cosa diversa.
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Al suo nascere il pensiero “scientifico” si affranca dalle scorciatoie religiose politeistiche cercando nella natura delle cose i principi (archè) della vita e del movimento: «Si afferma così un atteggiamento nuovo, che oggi chiameremmo “scientifico”, interessato a “spiegare” i fenomeni naturali e a “conoscere” il principio che sta dietro di essi. Il principio dominante dei primi filosofi diventa in questo modo quello del principio (in greco archè) di tutte le cose».(2)
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Questi primi pensieri, che si riferivano ai principi invisibili delle realtà materiale, dovettero lottare per due millenni prima di poter avere la possibilità di essere riconosciuti come verità epistemologiche. E ancora non è detta l’ultima parola visto che per i credenti il principio di tutte le cose è il verbo divino che, col suo nominare la realtà, crea il loro movimento e il loro divenire storico. Viviamo ogni giorno a contatto con persone, medici, scienziati, astronomi che in un assurdo sincretismo credono che i principi che muovono l’universo e dio siano la stessa cosa.
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Quando poi si parla di realtà umana e della sua origine le cose si complicano ulteriormente. Nel definire l’origine della realtà umana pensiero scientifico dominante e dottrina cristiana appaiono molto distanti tra loro, ma in verità hanno molti punti in comune. Entrambi vedono nella nascita, e quindi all’origine della realtà umana, una mancanza ontologica, una negatività, un peccato originario. Un pensiero/credenza questo che apre le porte alla disperazione. Disperazione che viene “sanata” religiosamente da religioni salvifiche, che mondano con riti purificatori dal peccato i neonati che, come recita il rito battesimale, devono “rinunciare a Satana”. Disperazione che viene tenuta a bada da credenze religiose che rimandano il senso dell’esistenza a un aldilà dopo la morte o a eventuali trasmigrazioni dell’anima in esseri più felicemente evoluti. Disperazione che viene “attenuata” dall’accettazione razionale di uno stato di natura umana violento da tenere però assopito dalla ragione… ma anche, se fosse necessario, da lasciare libero di esprimere la propria realtà originaria immodificabile: “autenticità dell’essere”. Autenticità dell’essere che si trasforma in “essere per la morte dell’altro” gestita da generali assetati di sangue.
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Nell’articolo, La differenza ontologica, pubblicato da Left del 24 gennaio 2014, lo psichiatra Gianfranco De Simone dipana la matassa esistenziale e marca fortemente i confini tra l’esistenzialismo heideggeriano e la “Teoria della nascita” di Massimo Fagioli: «Secondo il filosofo tedesco – scrive De Simone – gli esseri umani non sono uguali nel loro essere, perché sono diversi i mondi sociali in cui sono “gettati” alla nascita, e questa diseguaglianza compromette la possibilità stessa di realizzare l’Essere».
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De Simone percorre il pensiero filosofico dal seicento ad oggi dimostrando come la filosofia non sia stata capace di individuare nella realtà umana la positività originaria che gli è propria. Positività, scoperta da Massimo Fagioli, che ha in sé – al contrario dell’essere heideggeriano che realizza se stesso con la morte dell’altro – l’essere per l’esistenza dell’altro uguale a sé. Scrive Fagioli: «La capacità di immaginare dopo aver “immaginato” l’inesistenza del mondo non umano realizza, simultaneamente, la memoria-fantasia dell’esperienza vissuta nel contatto della pelle con il liquido amniotico e la speranza-certezza dell’esistenza del corpo. Realizza anche la realtà del “non è” che dice: non è la verità la solitudine, in cui la vita sarebbe la morte, perché il “delirio” dell’inesistenza del mondo non umano si forma insieme alla certezza che la verità è il rapporto interumano». (3)
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Ed è su questa sostanziale differenza ontologica che si gioca il futuro dell’umanità:
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da una parte la disperazione della solitudine esistenziale; il vivere terrorizzati “sapendo” di essere animali feroci al guinzaglio della ragione, oppure aspettare la morte, senza deviare dai disegni divini, per uscire dal non essere della finitezza temporale ed entrare nell’eternità realizzando l’essere per la morte.
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Dall’altra la speranza/certezza di essere per l’altro da sé. Sapere l’origine della realtà umana e qual è il senso dell’esistenza che ci attende « Il senso di verità il neonato lo trova dentro di sé, – scrive De Simone – non nei mondi diversi, nella razza e neppure nel nulla come urlano i tanti filosofi di sinistra che si erano affidati ad Heidegger».
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E non si può decidere razionalmente una delle due vie. Essere profondamente umani o non esserlo completamente non è una scelta “culturale”. «La pulsione di annullamento, nell’essere umano che ha perduto la vitalità, determina un’assenza, una mancanza insuperabile nelle proprie capacità di pensare. Per ricreare la verità della propria nascita e del primo anno di vita, è indispensabile il rapporto interumano con un simile che, avendo la capacità di immaginare, riesce a portare al linguaggio articolato che fa la conoscenza, la carenza nascosta»(4)
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Gian Carlo Zanon
28 gennaio 2015
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(1)Massimo Fagioli: Esistenza del corpo umano, Left n.1. – 17 gennaio 2015
(2) F. Cioffi, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette, Il testo filosofico – 1, L’età antica e medievale pag. 62 – Ed. Scol. Bruno Mondadori.
(3) Massimo Fagioli – Esistenza del corpo umano, Left n.1. – 17 gennaio 2015
(4)Massimo Fagioli – Il silenzio dei “venti secondi”, Left n.2. – 24 gennaio 2015
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