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(Pubblicato dall’Università di Siviglia in Sin carne con il titolo “Parir educación indígena”, e in Sagarana n. 35 con il titolo “Partorire educazione indigena”, è uno dei capitoli del libro inedito Amazzone in tempo reale)
Il viaggio, di cui l’attesa fa parte, è un’esperienza tra le più affascinanti. Mi piace arrivare con molto anticipo sull’orario di partenza. Mentre aspetto, faccio igiene mentale. Elimino pensieri legati al passato prossimo per fare spazio a quelli che con il cambiamento arriveranno. Mi trovavo nella stazione dei pullman di Boa Vista, capitale dello stato brasiliano di Roraima. Ero riuscita a vendere la casetta in riva al fiume, la quale aveva continuato a regalarmi la sensazione di essere fisicamente legata al Brasile pur vivendo in Italia da due anni. Un senso greve d’addio pesava su quella partenza. Per non guardarmi dentro, presi ad osservare ciò che stava accadendo intorno a me; per non farli riempire di lacrime, poggiai gli occhi su persone, bagagli e il loro andirivieni.
In regioni sperdute come Roraima, possiamo veder caricare di tutto sui pullman: lattine d’olio e sacchi di zucchero, combustibile e pezzi di ricambio, utensili tra i più svariati e animali domestici. Ero circondata da persone e merci, essendo ormai vicina l’ora della partenza, quando vidi arrivare un’insegnante taurepang di cui ero amica. Mi avvicinai, ci salutammo e iniziammo a chiacchierare. Avremmo preso lo stesso pullman: lei per scendere un po’ prima del confine; io per raggiungere Santa Elena, cittadina venezuelana di frontiera. Contrariamente al solito, non sfoggiava il suo dolce sorriso. Mi raccontò che il figlio, un giovanotto ormai, da mesi era malato. Lo aveva seguito da un ospedale all’altro per assisterlo e fargli compagnia, sino a lasciarlo nella lontanissima Manaus. Stanca, e preoccupata dato che i medici non erano ancora riusciti a capire cosa il ragazzo avesse, stava tornando al suo villaggio per riprendere il lavoro di maestra.
In Venezuela li chiamano pemon e sono circa millenovecento. Distribuiti in tre villaggi, e tenendo conto di alcune famiglie che vivono isolate, in Brasile i taurepang non arrivano a duecentocinquanta individui. Sono sempre stati mediatori commerciali; ancor oggi, ad esempio, acquistano grattugie per manioca dai mayongong e le rivendono ai macuxi. Situati in piena foresta, i tre villaggi taurepang conoscono l’abbondanza, a differenza di quelli delle etnie che occupano la savana; i prodotti eccedenti sono venduti in Santa Elena e nella cittadina brasiliana sviluppatasi a ridosso della frontiera, o in luoghi più interni dei due paesi quando i trasporti lo permettono. Anche se è considerato taurepang, uno dei villaggi ospita individui macuxi e wapichana; la loro presenza ha modificato le relazioni di potere al punto che, negli ultimi anni, esponenti delle tre società si sono avvicendati nel ruolo di capo-villaggio; a complicare la situazione si aggiunge il fatto che macuxi e wapichana sono cattolici, mentre i padroni di casa, come del resto tutti i taurepang che abitano in Brasile, sono protestanti della Chiesa Avventista del Settimo Giorno.
Divenendo avventisti, i taurepang hanno dovuto modificare alquanto il loro modo di vivere. Ad esempio, non consumano bevande alcoliche, non mangiano la carne di certi animali né pesci senza squame; grande parte del loro universo simbolico è entrato in crisi; persino lo sciamanismo è proibito. Il culto è realizzato quasi giornalmente ed è diretto dal capo-villaggio che, oltre al potere politico, esercita così anche quello religioso. Nonostante tutto, persistono la mitologia relativa alla foresta, certe paure culturali, le regole che padre e madre rispettano nel periodo del parto. Forse grazie alla necessità di comunicare con i parenti che abitano in Venezuela, i taurepang mantengono viva anche la lingua. Ma il fenomeno secondo me più interessate è il loro profondo coinvolgimento nelle lotte intraprese dagli indios di Roraima per difendere terre e diritti. Al contrario di quei macuxi e wapichana che, evangelizzati da sette protestanti, si astengono dal partecipare a manifestazioni e rivendicazioni politiche, leader taurepang sono sempre presenti in riunioni, corsi e incontri; così che contribuiscono attivamente alla crescita e consolidamento dell’organizzazione indigena.
Quando arrivò l’ora di accomodarsi in pullman, si scoprì che erano stati venduti più biglietti del dovuto. Il corridoio venne ostruito da una massa irata di passeggeri che litigavano fra di loro e con il controllore. Mi avrebbe fatto piacere portare avanti il nostro dialogo, ma non riuscii a sedere accanto ad Úrsula Taurepang. Durante il viaggio continuai a pensare a noi due e ai momenti vissuti insieme. Lo sguardo interiore si posò dapprima sulle situazioni personali; l’immagine di lei preoccupata come mamma, e la mia che mestamente lasciava il Brasile, mi provocarono un senso di disagio, un principio di autocommiserazione. Poi emerse il ricordo della dimensione sociale delle esperienze vissute insieme. Úrsula faceva parte di un gruppo di persone che avevano aderito fedelmente ad alcune iniziative imprimendo loro il valore della continuità. Nelle diverse situazioni l’avevo sempre vista sorridente, entusiasta del suo lavoro. Durante il primo corso realizzato in seno a un progetto di formazione dei maestri indigeni di Roraima era stato prodotto un libro in forma collettiva; significativamente, è suo il nome che apre la lista dei coautori. Era stata tra i primi indigeni a praticare l’insegnamento bilingue, con il risultato che le sue sperimentazioni si erano trasformate in stimolo e riferimento per altri maestri e per gli specialisti in materia. La firma dell’insegnante taurepang fa bella mostra di sé in calce a documenti prodotti durante incontri statali e della regione amazzonica; le rivendicazioni e i suggerimenti in essi contenuti erano stati incorporati a leggi, e avevano contribuito a far sì che il governo ripensasse le sue relazioni con i popoli indigeni.
Quando vidi Úrsula prepararsi per scendere, avevo già messo in ordine i ricordi dando loro una disposizione più organica. Passandomi accanto si fermò per salutarmi. L’abbracciai e sentii che il nostro non era un addio. Avevamo lavorato per abbattere ostacoli e aprire un sentiero attraverso cui l’educazione indigena passasse. Nessun problema personale, nessun viaggio ci avrebbe allontanate da quel dato di fatto.
http://www.sagarana.net/rivista/numero35/saggio2.html
Pubblicato da Loretta Emiri a 20:47Nessun commento:
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Etichette: AMAZZONE IN TEMPO REALE
nunzio scotto di covella
25 Maggio 2013 @ 15:30
….l’Amazzonia e le sue popolazioni indigene sono un sogno che non si può replicare… un sogno che si può solo vivere! …come la nostalgia che mi prende ogni volta che mi allontano da Napoli e dal popolo napoletano… questo connubbio, popolo e territorio come amante e amato sono un sogno che non si può replicare…. si può solo vivere!