MỸKY *
Loretta Emiri **
–
Furono dei missionari gesuiti ad entrare per la prima volta in contatto con gli indios mỹky, che vivevano isolati ed erranti nella foresta. Era il giugno del 1971. Il piccolo gruppo era composto da ventitré persone; di pietra erano le loro scuri. Proprio all’inizio del contatto, fazendeiros invasero l’area portando con sé un’epidemia di influenza che provocò la morte di cinque mỹky. I missionari dettero agli indios un’assistenza dapprima sporadica e nel 1976 cominciarono a risiedere in mezzo a loro.
–
A Cuiabá, capitale del Mato Grosso, conobbi una giovane donna mỹky e il suo bambino. Era l’ottobre del 1988. Il gruppo era ormai composto da quarantasei persone; di esse cinque erano iranxe per intercorsi matrimoni fra le due etnie. Nato con il labbro leporino, malformazione al palato e problemi alle vie respiratorie, il bambino era stato sottoposto a intervento chirurgico. L’operazione sembrava essere riuscita, correggendo abbastanza i tratti del suo viso; ma la notizia che i medici avevano pianificato per lui tutta una serie di altri interventi mi turbò alquanto.
–
Naturalmente, era partita dai missionari l’idea di salvare a qualsiasi costo la vita del bimbo, altrimenti destinato a soccombere in fretta nella foresta. La suora che aveva condotto in città i due mỹky faceva la spola fra l’ospedale e il complesso dove stava svolgendosi la seconda tappa di un corso di indigenismo, mantenendo costantemente informati noi partecipanti sulle condizioni di mamma e bambino. Questo seppur indiretto accompagnamento alimentò la mia riflessione, che rimase solo mia perché non mi sentivo abbastanza forte da mettere in discussione le convinzioni degli altri.
–
Mi veniva spesso in mente il corpicino del bimbo alle prese con una chirurgia e l’altra, una medicazione e l’altra, una terapia e l’altra, una fase di riabilitazione e l’altra. Mi veniva da pensare alla donna che lasciava il villaggio nella foresta per chiudersi con il figlio nell’ospedale in città. Automaticamente, le immagini si associavano all’idea del dolore, del disagio, della tristezza. Cercavo di scacciare il pensiero che l’inseguimento della normalità avrebbe costretto madre e figlio ad imboccare un tribolato percorso.
–
Anche gli indios piangono i loro defunti, ma la morte resta un fatto naturale. Come sarebbero stati interpretati dai mỹky i tentativi di far vivere a tutti i costi un esserino malformato? La fobia della morte avrebbe cominciato ad insinuarsi anche negli indios? Essendo parte integrante della vita, perché accanirsi tanto a scacciare la morte? Quando è particolarmente travagliata, la vita può continuare a chiamarsi tale? Erano interrogativi del genere che mi martellavano in testa. Un giorno la suora arrivò piangendo. Il piccolo mỹky era deceduto. Mi allontanai in fretta perché nessuno scorgesse l’espressione di sollievo venuta ad alleviare i tratti del mio viso.
–
* Il brano “Mỹky” è uno dei capitoli del libro Amazzone in tempo reale.
–
** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i libri di racconti Amazzonia portatile, Amazzone in tempo reale (premio speciale della giuria per la Saggistica, del Premio Franz Kafka Italia 2013) e A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito Romanzo indigenista, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, AMAZZONIA – fratelli indios, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, La bottega del Barbieri, Pressenza, Euterpe.
–