• Loretta Emiri – Il divenire dell’amore (racconto)

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    Pastorella

    PRIMA NOTTE *

    di Loretta Emiri **


    Andava a parare le pecore. Si svegliava da sola e correva nell’aia. Non le costava alzarsi presto, perché dell’alba sapeva cogliere bellezza e magia. Attinta acqua dal pozzo, girava l’angolo del casolare per mettersi al riparo dagli sguardi della tribù famigliare. Si lavava con scrupolo e lentezza. Quando particolarmente fredda, l’acqua le provocava fremiti che però recepiva come fossero scariche d’energia. Alla luce poetica del primo mattino, ancor più lunghi, lisci e neri i suoi capelli apparivano. Il badare alle pecore non le impediva di guardarsi intorno e dentro. Ricercava quei steli d’erba che tanto le piaceva succhiare. Interagendo con gli odori, conturbanti in certi momenti, spesso si divertiva ad inspirare a fondo, trattenendo l’aria nei polmoni fino ad avvertire uno sbandamento, un principio di svenimento. Evitava al massimo di stare con gli zoticoni dei suoi famigliari: femmine atroci sempre lì a spettegolare; maschi rudi e bestemmiatori. I membri della sparpagliata comunità rurale cui apparteneva non erano certo diversi dai suoi famigliari; per cui, quando non poteva fare a meno di partecipare a momenti di aggregazione sociale, era sempre colta da una sensazione di solitudine che la faceva star male.

    In occasione della Prima Comunione, non senza qualche sacrificio i suoi erano riusciti a farle confezionare un bel vestito di cotone damascato. La gonna lunga era guarnita da dieci piccole costine verticali che, interrotte a mezza lunghezza, producevano una leggera svasatura. Tre piccolissime balze sovrastavano l’orlo, foderato con un tessuto rado e leggero che però gli dava consistenza. Veramente prezioso era il corpetto. Sei minuscole costine lo percorrevano dal collo alla vita; da ogni spalla partivano altre quattro fini cuciture; due strisce di stoffa, ognuna con tre costine e un delizioso merletto, coprivano l’attaccatura delle maniche e scendevano a forma di “v” fino alla cintola. La parte posteriore non era meno lavorata dell’anteriore. Tutto foderato e stretto in vita, il corpetto si allargava poi a formare una svasatura sotto cui spariva la parte alta della gonna. Più stoffa del corpetto stesso avevano richiesto le maniche a sbuffo, l’esuberante arricciatura delle quali confluiva in polsini alti e stretti, a loro volta guarniti da pizzo. Il colletto, anch’esso alto, stretto e con pizzo, sembrava ideato per dare rilievo ai tratti del viso. Le piacque tanto quel vestito che non se ne disfece mai; anzi, lo conservò così amorevolmente che alla sua morte, animato e intatto, saltò fuori da un cassetto.

    Le cose di cui avrebbe volentieri parlato erano considerate strambe e non interessavano a nessuno. Sentendosi diversa, rifiutata, fuori posto, nella civiltà orale contadina imparò a tacere. Il contatto solitario e costante con la natura la introdusse al gusto dell’osservazione. Un giapponese che vive nell’Amazzonia brasiliana ama ripetere che una sua sorella è stata così protetta e viziata dai genitori da divenire come “una pianta senza midollo”, di quelle che non servono a niente e si afflosciano al caldo e al vento. L’intimo della pastorella umbra divenne duro come il più stagionato dei legni, ma ciò non le impediva di sentire tenerezza nei confronti di quanti, a loro volta e in qualche misura, erano emarginati dalla comunità. Ad essi regalava qualche attenzione e un po’ del suo tempo, sapendo che erano sufficienti per mitigare i dolori degli animi loro. Nella società yanomami il nome attribuito a una persona ne riflette la somiglianza con animali o altri elementi della natura, oppure caratteristiche fisiche e tendenze comportamentali e, nel corso della vita, può anche variare; in nessun caso il nome viene pronunciato in presenza dell’interessato.

    La pastorella era stata battezzata con il nome di Letizia, termine che non venne mai modificato, nemmeno quando risultò evidente che sarebbe stato più consono chiamarla Mestizia. Il saper tacere ed osservare in lei si trasformarono nell’arte dell’ascolto, ma anche nella capacità di cogliere a volo aspetti molto intimi dell’essere umano. Analfabeta, le bastava uno sguardo per leggere dentro le persone con cui entrava in contatto. Con lo stesso slancio con cui si prendeva cura degli esclusi, cominciò a prendere in giro i “normali”. Se individuava un vizio, una tendenza, una debolezza, forgiava un soprannome tremendo, di quelli che fanno rizzare i capelli all’interessato.

    Una grande forza interiore fece da contrappunto al disagio sempre avvertito in ambito famigliare e sociale. Il suo carattere divenne tanto forte da permetterle di mantenere una certa libertà di azione, nonostante le più svariate forme di controllo e pressione su lei esercitate da famiglia e società. Divenne una ragazza non bella ma piacente, cocciuta, silenziosa; e molto pericolosa, perché le poche volte che apriva bocca lo faceva per dire esattamente ciò che pensava. La terra che coltivava insieme ai membri della tribù famigliare certo non apparteneva loro. Il proprietario era un medico che amava la sua professione e che, volendola pienamente esercitare, assunse un fattore cui delegò l’amministrazione del podere. Gentile, educato, purtroppo sposato era il fattore. Ogni volta che Mestizia lo scorgeva si sentiva rimescolare tutta. Con qualche pretesto gli si avvicinava per poterlo ascoltare, mai rivolgendogli parola. Anche lui non le parlava direttamente ma, con tutto ciò che diceva, solo lei voleva raggiungere.

     

    Contadini

    Eloquenti erano i loro sguardi le volte che, scintillanti e furtivi, si incrociavano. Impararono a conoscersi così: lui osservandola nell’adempimento sapiente delle molteplici attività che una contadina può svolgere; lei ascoltandolo mentre sembrava rivolgere ad altri aneddoti della propria vita e riflessioni. Senza che fra di loro mai corressero stupide parole, nacque una stima reciproca che, con il tempo, potette essere ribattezzata amore.

    I suoi si erano recati ad una festa in una frazione vicina. Con la solita scusa del mal di testa, Mestizia era riuscita a rimanere a casa. Sapeva dove lo avrebbe trovato. Gli piaceva sostare a lungo nel recinto dei cavalli, parlando loro, accarezzandoli. Procedette guardinga per non farsi scorgere dai vicini. Nell’attimo in cui lui si voltò per vedere cosa avesse prodotto quel leggero fruscio, già se la ritrovava fra le braccia, vibrante. Allo sguardo e al contatto dei corpi affidarono il compito di dirsi tutto. Poi, lei lo prese per mano e gli fece strada verso la stalla. La luce della loro passione si sostituì alla penombra del luogo. Il termine che gli Yanomami usano per dire “copulare” è lo stesso di “mangiare”. Lunghissimo e succulento, il primo bacio stuzzicò il loro appetito. Mescolarono tutto: odore di sesso e bestiame, saliva e liquido seminale, sudore salato e dolce sangue verginale. Smisero di mangiarsi solo quando percepirono che stavano correndo il rischio di essere colti in flagrante.

    Essendosi verificata di giorno, Mestizia non potette definirla “prima notte”; ma tutte le notti riproponeva a sé stessa il ricordo della sua “prima volta”. La graduale e metodica ripetizione di gesti e parole è alla base della trasmissione orale delle conoscenze all’interno di società indigene; procedimento che non può che stimolare facoltà mnemoniche. Esercitando la memoria, facendola procedere gradualmente, ogni notte Mestizia ricostruiva la sua “prima volta”, senza tralasciare nessuno dei particolari che ne avevano fatto parte. Pensava dapprima all’incontro di fuoco accanto al recinto dei cavalli. Poi prendeva per mano il ricordo per condurlo nella stalla. Riusciva persino ad evocare il sapore dei baci. Con il pensiero riandava alle volte che, già sul punto di penetrarla, aveva sentito il pene ritrarsi. Fino a che non le era venuto in mente di incoraggiare l’amante a rompere il velo di indugi e, orientandogli il sesso con la mano, gli aveva fatto capire che la vagina aspettava il sovrano. Quando la memoria riproponeva l’orgasmo, Mestizia sveniva. Ciò che non le riusciva proprio di capire era perché le donne di casa sostenessero che la “prima volta” equivale a dolore.

    Una serie di precauzioni e circostanze fece sì che quella della contadina e del fattore non fosse una short story, ma un romanzo d’amore con capitoli scritti nell’arco di quasi due anni. Poi avvenne ciò che doveva accadere in quell’epoca di mancanza di pillole e preservativi. Una mattina, lavandosi, Mestizia percepì che il seno era turgido e le sembrò che i capezzoli avessero una conformazione diversa; prima ancora di realizzare che il ciclo mestruale era in spaventoso ritardo, la sua intuizione di donna le suggerì che era gravida. La scoperta coincise con il ritorno di Pacifico. L’uomo aveva trascorso alcuni anni a Roma lavorando come muratore in un convento di frati. Tornava per “sistemarsi”, cioè per sposarsi. Quando chiese in moglie Mestizia, la tribù famigliare al completo esultò all’idea di liberarsi di lei, dato che tutti loro ne avevano fin sopra i capelli dei suoi silenzi carichi di significato, delle sue parole scarne che tagliavano.

    A Mestizia non dispiaceva quel compaesano bonaccione, sempre sorridente. Alla prima occasione che ebbe di trovarsi sola con lui, senza giri di parole gli disse che non poteva sposarlo perché era incinta. Per qualche istante i tratti del volto di Pacifico rivelarono la pensativa azione del cervello. Quando aprì bocca per dire “allora siamo già una famiglia!”, i suoi occhi erano tornati a sorridere. Consapevoli che la loro relazione non poteva essere formalizzata, Mestizia e il fattore non l’avevano offuscata creando aspettative, pronunciando false promesse, con ciò ottenendo che il rapporto si mantenesse trasparente. Torbide, però, si erano fatte le allusioni delle megere di casa, per cui Mestizia disse a Pacifico che lo avrebbe sposato. Quando riuscì ad incontrare il fattore, con una frase stringata gli comunicò tre verità: “Amore mio, tuo figlio avrà un buon papà”. Pensando al generoso Pacifico, Mestizia rifiutò di congiungersi sessualmente all’amante; ma non negò a lui e a se stessa ancora un bacio che, essendo l’ultimo, ebbe un sapore agrodolce.

    Si sposarono in tutta fretta, alla presenza dei soli testimoni. A nessuno venne in mente di festeggiarli almeno con un modesto rinfresco. Subito dopo la cerimonia, a bordo di un carretto, seduti fra le povere e poche suppellettili che erano riusciti a mettere insieme, raggiunsero la cittadina ove Pacifico si era comprato una casa con i soldi messi insieme mentre lavorava a Roma. Veramente la casa non poteva ancora essere definita tale. Il pianoterra era ingombro di calcinacci e materiali edili, in camera da letto ci pioveva dentro, per i bisogni si doveva uscire e raggiungere il pozzo nero situato in cantina. Ma quello spazio precario non era perforato da occhiatacce di commiserazione o riprovazione, quindi, per la prima volta nella vita, chiusa fra quattro pareti, Mestizia si sentì dilatare dentro una sensazione che, essendo analfabeta, non potette mai mettere per iscritto; al posto suo ci prova oggi l’autrice di questa novella: era una sensazione di libertà. Il figlio dell’amore nacque nel giugno del 1918, raggiunto, tredici mesi dopo, da una sorellina. Il fatto che si fossero trasferiti, le gravidanze ravvicinate, lo sfacelo che la Prima Guerra Mondiale aveva prodotto, contribuirono a far sì che a nessuno venisse in mente di dubitare della paternità del primo figlio di Mestizia.

    Mentre l’Italia ricostruiva il tessuto sociale asfissiato dai gas della guerra e amputato nelle battaglie di trincea, il laborioso Pacifico si dedicò alla sistemazione di casa sua; prima aggiustandone il tetto, poi collegando, con una scala interna, la cucina al pozzo nero. Aveva appena portato a termine questi più urgenti lavori, quando venne assunto come operaio in uno stabilimento.

    Per molto tempo Mestizia non tornò in paese; lo fece solo dopo che le era giunta notizia del trasferimento in Toscana del fattore. Ogni volta che andava portava dei doni alle femmine di casa. Nei loro sguardi non c’era più compatimento, ma il riflesso di un sentimento altrettanto meschino: l’invidia. Fortunatamente, con il passare degli anni la famiglia si rinnovò. Gli zii di Mestizia andarono a fare i contadini in altri poderi, naturalmente portandosi dietro mogli e grappoli di figli; la madre morì, senza che ciò le causasse dolore; la sorella si era sposata e trasferita; un fratello se ne scappò in Argentina a mai più dette notizie di sé; gli altri due fratelli si sposarono restando in famiglia. Con le cognate Mestizia ebbe un rapporto non proprio conflittuale, ma esse avrebbero preferito averla meno fra i piedi dato l’ascendente da lei esercitato sul padre, il capostipite del nuovo gruppo famigliare, il padre-padrone della numerosa famiglia patriarcale. Generalmente, ogni villaggio yanomami è costituito da una sola grande casa, dove coabitano varie famiglie estese legate da relazioni intermatrimoniali, in un totale che oscilla dai trenta ai cento individui; un’eccessiva crescita numerica del gruppo locale porterebbe all’impoverimento delle risorse del territorio, e faciliterebbe l’insorgere di litigi e conflitti; a un certo punto, quindi, il gruppo si divide creando un nuovo villaggio.

     

    1ªe4ª (300) copia

    * Brano tratto dal romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, Loretta Emiri, CPI/RR, Fermo, 2011.

    ** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i volumi di racconti Amazzonia portatile e Amazzone in tempo reale (Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013), il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito A passo di tartaruga, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice.

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