Patamona*
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Loretta Emiri **
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Pubblicata a Berlino e Stoccarda tra il 1916 e il 1928, l’opera in cinque volumi Vom Roroima zum Orinoco, dell’etnologo tedesco Theodor Koch-Grünberg, è un’imprescindibile fonte di informazioni su storia e cultura degli indios di Roraima. In uno dei volumi troviamo cenni referenti ai patamona. Definiti un sottogruppo degli akawaio e appartenenti alla famiglia linguistica caribe, erano chiamati ingarikó, cioè “popolo della foresta”, dai macuxi. Studi recenti rivelano che tre gruppi indigeni a tutt’oggi usano il termine ingarikó per designarsi quando incontrano altri popoli; fra di loro, invece, si autodefiniscono kapon, che significa “gente del cielo”. Un gruppo occupa una minuscola area all’estremo nord dello stato di Roraima, in Brasile; gli altri due, meglio conosciuti come akawaio e patamona, vivono in zone appartenenti alla Guyana.
Sapeva del mio coinvolgimento con la questione indigena e volle conoscermi. Era una bella ragazza, dalla carnagione scura e gli occhi a mandorla. Sulle spalle sembrava portasse un mantello, tanto erano lunghi i suoi capelli, e lisci, neri, lucenti. Aveva un’espressione seria, un pacato modo di fare. Simpatizzammo a prima vista. Nella città corrotta e ostile agli indios, ci sentivamo entrambe rifiutate e sole. Di tale condizione ci servimmo per costruire la nostra amicizia. Come alleata dei popoli indigeni, io volevo poter essere radicale nelle mie scelte professionali e, anche per evitare la possibilità dell’espulsione, mi ero naturalizzata brasiliana; non per questo la società regionale aveva cessato di considerarmi una straniera. Lei brasiliana lo era, ma i lineamenti rivelavano le sue inconfondibili origini; avvertiva quindi sulla pelle gli effetti della discriminazione che la popolazione regionale esercita nei confronti degli indios di Roraima, e che li riduce a sentirsi stranieri a casa loro.
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Viveva appena fuori dal centro di Boa Vista, in un rione tuttora popolato quasi esclusivamente da indigeni, che i bianchi spregiativamente chiamano caboclos. L’esuberante vegetazione del luogo sembra voler proteggere gli abitanti, nasconderne la povertà, le costruzioni sbilenche. Su quel verde, i panni stesi spiccano come artistici tocchi di colore. Nelle minuscole aree che circondano le casupole, all’ombra degli alberi da frutta, rotolandosi nella polvere o nel fango a seconda della stagione, crescono animali domestici e bambini. Galline e maiali convivono con scimmie e tartarughe. Non di rado, stormi di pappagalli sorvolano l’area squarciandola con i loro striduli richiami; mentre da pareti domestiche è possibile che fuoriesca il vociare di ubriachi perpetui, o il tutto volume di radio e giradischi.
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Mi piaceva attraversare quel rione andando a trovare la mia amica. Come le altre case, anche la sua era eternamente in costruzione. Man mano che la famiglia cresceva, aumentava il numero delle stanze; che però restavano spoglie e senza intonaco, adorne solo di ganci cui appendere nuove amache. Nell’ingresso troneggiava un divano sforacchiato e liso, su cui riprendevo fiato dopo la lunga camminata. Composta da padre, madre, varie sorelle, un fratello carnale e uno adottivo, una cognata, un numero imprecisato di nipoti, la famiglia tutta mi riceveva con calore. Il più delle volte la casa ospitava anche parenti e amici giunti dall’interno dello stato, bisognosi di trascorrere un periodo in città per risolvere problemi. Povere come erano, quelle persone avevano sempre qualcosa da farmi portar via: un pezzetto di beiju già secco, due maracujás da trasformare in bibita.
La mia amica lavorava, ma era sempre al verde. Si pagava gli studi universitari e aiutava la tribù famigliare endemicamente affetta da problemi economici. Quando viaggiavo le lasciavo la casa a disposizione, così che potesse concentrarsi e studiare con profitto. Me ne era grata e io lo ero nei suoi confronti, dato che il mio cantuccio non restava alla mercé dei soliti ladri. Quando penso a quella ragazza, mi tornano in mente parole e gesti semplici e, al tempo stesso, traboccanti di significato. Se mi faceva visita, arrivava con frutta raccolta nel suo cortile, o con fiori messi insieme lungo il tragitto che separava le nostre abitazioni. Qualche volta andavamo a cena fuori; prediligevamo un ristorante vicino al fiume, perché la sua brezza arrivava fino ai tavoli disposti all’aperto sotto un’ampia tettoia. La serata cominciava scambiandoci confidenze e terminava con noi due che, invariabilmente, ci sentivamo più tranquille, perché le parole e gli atteggiamenti dell’una finivano per rasserenare e incoraggiare l’altra.
Dei momenti vissuti insieme, uno fu particolarmente espressivo. Eravamo sedute sulla sponda del fiume e lo guardavamo scorrere e brillare. Mi raccontò di aver trascorso alcuni giorni nella Guyana. Luoghi, persone, situazioni, tutto le era parso affascinante. Durante il soggiorno aveva maturato una decisione: ogni qual volta l’uomo bianco l’avesse apostrofata con il termine cabocla, lei avrebbe asserito “io sono patamona”. A imprimere il giusto valore a quelle tre striminzite parole furono il tono della voce e gli occhi che brillavano più del fiume.
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Glossario
Beiju: focaccia di farina di manioca.
Caboclo: meticcio di bianco con indio; termine usato spregiativamente per indicare gli indios.
Maracujá: frutto di una pianta della famiglia delle Passifloracee.
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* Il brano “Patamona” è uno dei capitoli del libro Amazzone in tempo reale, Loretta Emiri, Andrea Livi Editore, Fermo, 2013; Premio Speciale per la Saggistica del premio Franz Kafka Italia, 2013.
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** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i volumi di racconti Amazzonia portatile e Amazzone in tempo reale, il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito A passo di tartaruga, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice.
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