• Loretta Emiri – … cadevano le bombe, ma non erano ancora intelligenti” (racconto)

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    Narni Scalo,passarella bombardata


    MESTIZIA *


    Loretta Emiri **


    Una foto scattata in uno studio fotografico ritrae Mestizia in piedi, appoggiata ad un ombrello, mentre fissa l’obiettivo con sguardo altero. All’epoca aveva ancora due soli figli e un bel corpo sodo e proporzionato. È l’immagine di una donna non bella ma piacente, decisa, nel pieno del suo vigore. In seguito partorì altri cinque maschi, abortì più volte e perse la linea. Perse anche un figlio a diciassette giorni dalla nascita, e un altro che aveva tredici mesi. Nonostante fossero stati così poco con lei, ne coltivò il ricordo visitando periodicamente le sepolture, e pagando il prete affinché celebrasse messe di suffragio per le anime loro.

    Essendo totalmente pacifico, Pacifico lasciò che fosse sua moglie ad esercitare il potere famigliare. Se i figli erano a giocare nella vicina piazzetta o nei vicoli adiacenti, a Mestizia bastava fischiare, dall’uscio di casa, per vederli immediatamente rientrare: essi sapevano bene che, se non fossero stati più che tempestivi, avrebbero ricevuto un persuasivo numero di cinghiate. Lo stipendio di Pacifico non era sufficiente per sfamare tante bocche. Quando sua figlia crebbe abbastanza da potersi prendere cura dei fratelli minori, Mestizia cominciò a percorrere tutti i giorni a piedi i cinque chilometri che la separavano dalla casa del padre. Lì si impegnava in lavori domestici o agricoli e faceva ritorno a casa nel pomeriggio sempre portandosi dietro frutta, verdura, uova, o carne di animali da cortile. Una volta a settimana si alzava alle tre del mattino per andare a fare il pane. Quando una delle cognate tentò il suicidio buttandosi a fiume, l’altra sparse calunnie nel tentativo di far ricadere la colpa su Mestizia. Nessuno le dette ascolto; anche perché, nel frattempo, era scoppiata la bomba: la morta mancata era stata vista fare l’amore con qualcuno che non era il marito. Nessuno mai seppe quanto Mestizia si dette da fare per aiutare il fratello a dimettere il ruolo di cornuto rabbioso e in fretta rientrare in quello di coniuge e padre.

    Abbastanza vicino a casa di Mestizia c’era un lavatoio pubblico: le frequentatrici non si limitavano a lavare panni sporchi, molte volte imbrattavano altrui reputazioni; nessuna di loro riuscì mai a coinvolgerla nei propri pettegolezzi, a farle proferire un giudizio, a tirarle di bocca una maldicenza. La ragione della stima e rispetto nutriti nei confronti di Mestizia da tutto il vicinato e da quanti la conobbero, forse, va ricercata proprio nella sua riservatezza. Dura e laboriosa era la vita per lei e Pacifico; nonostante tutto, riuscirono a far fare l’Avviamento ai figli maschi. Per la femmina Mestizia decretò che era sufficiente la Quinta Elementare; ed essa non perdonò mai alla madre di aver preso una così maschilista decisione, di non aver tenuto in considerazione il suo grande desiderio di continuare gli studi. Fu solo a distanza di molti anni dall’acquisto della casa che Pacifico si ritrovò i soldi per comprare il materiale con cui sistemare un malandato vano fino a quel momento adibito a ripostiglio. Poggiava su di un arco sovrastante un vicolo con scalette. Ne ricavò due ambienti: attraversata una minuscola camera matrimoniale, si raggiungeva un microscopico stanzino. Non dovendo dividerla con i figli, a Mestizia la camera sembrò immensa. Lo sgabuzzino era territorio esclusivo di Pacifico. Quando voleva starsene un po’ tranquillo vi si recava portandosi dietro il giornale, che leggeva tutti i giorni, religiosamente. Alla sua morte, nel localino sono state rinvenute scatole con fotografie; lettere e cartoline dal fronte; un considerevole numero di giornali meticolosamente impacchettati; qualche libro, fra cui uno di poesie che sembrava essere stato molto maneggiato. Alzando gli occhi dalle sue letture, lo sguardo di Pacifico poteva spaziare su pochi tetti, molti orti, paesi sparsi, una montagna solenne. Erano morti ormai da tempo, quando una nipote ebbe a dire che se Mestizia vedeva Pacifico prendere il giornale, subito gli chiedeva di fare qualcosa, di eseguire una qualche attività, quasi a volerlo punire per il suo gusto di leggere; non potendolo fare personalmente, i due hanno chiesto all’autrice di questa novella di smentire l’insolenza.

    Proliferazione incontrollata, irreversibile e progressiva di cellule anormali e irregolari è il cancro. Quando il fascismo cominciò a invadere il tessuto sociale italiano, fu Pacifico stesso a determinare che i figli non sarebbero stati iscritti all’ONB – Opera Nazionale Balilla, organismo che gestiva il tempo libero dei giovani al fine di indottrinarli. Con la sua decisione provò che essere miti non equivale ad essere vigliacchi; ma la figliola ne soffrì alquanto: si sentiva discriminata in relazione alla maggior parte delle amiche, non potendo sfoggiare la divisa da “piccola italiana” da lei considerata così bella! Gli tesero un agguato; aspettarono Pacifico non lontano dallo stabilimento in cui lavorava, in un punto dove sarebbe passato per far ritorno a casa, dopo aver attraversato il ponte sul fiume, prima di inerpicarsi su per la salita. Lui era solo e i vigliacchi in molti, naturalmente. Cominciarono a schiaffeggiarlo. Qualcuno gli fu sotto con il manganello alzato. Colto da un improvviso, incontrollabile scrupolo di coscienza di fronte a quell’ometto indifeso, risaputamene pacioso e onesto, un altro fascista gridò che bastava così. Pacifico se la cavò con i soli schiaffi, ma ne sentì il bruciore per il resto della vita.

    Assolto il servizio militare, il figlio maggiore di Mestizia trovò lavoro e mise a disposizione dei suoi le prime “quindicine” con cui veniva retribuito. Pacifico potette così realizzare una grandiosa opera di architettura. Costruì un cubicolo sopra la seconda rampa della scalinata di legno che dalla cucina portava alle camere. Era talmente ridotto che a malapena ci si poteva girare, non aveva porta né finestra, venne dotato di un secchio di alluminio per trasportarvi acqua dalla cucina. Per accedervi bisognava raggiungere prima una piattaforma di legno attraverso scomodi gradini, poi, dalla piattaforma si spiccava il salto finale. Costantemente maleodorante, il cesso appeso sulle scale sostituì il pozzo morto della cantina. Quando gli Yanomami dell’area del Catrimâni si resero conto che i missionari avrebbero cagato e pisciato dentro un cubicolo appositamente ricavato all’interno della casa che stavano costruendo, non potettero fare a meno di considerarli barbari; cercarono di far capire loro perché i bisogni vanno fatti il più lontano possibile dall’abitazione, ma i tentativi di incivilire gli stranieri non ebbero esito. L’euforia per la realizzazione del cesso durò poco; addosso alla famiglia di Mestizia cominciarono a cadere notizie e avvenimenti di merda: Mussolini annunciò che l’Italia era entrata in guerra; il primogenito venne chiamato alle armi e mandato a combattere sul Fronte Africano; la stessa cosa avvenne al fidanzato della figlia.

    Mestizia

    Qualche mese dopo la partenza dei soldatini, coincidendo con un periodo torbido perché di essi non si avevano notizie, successe l’irreparabile. Stavano rientrando da una passeggiata. L’amica, che aveva fatto accomodare sulla canna della bicicletta, gli sentì dire: “Adesso basta”. Colto da improvviso malore, il figlio non ancora diciottenne di Mestizia stramazzò al suolo e non si rialzò più. Da quel momento la sorella del giovane dovette convivere con un angosciante senso di colpa, perché sua era stata l’idea della passeggiata; mentre la madre divenne più mesta e taciturna che mai. Tutte le notti Mestizia riproponeva a sé stessa il ricordo di quella volta che il figlio, assecondando una richiesta del nonno, aveva cercato di condurre in stalla un asino rimasto a lungo legato sotto casa; l’animale non voleva saperne di muoversi, poi, improvvisamente, aveva scalciato e colpito il ragazzino; subito accorso, il medico sembrò non dare importanza all’accaduto asserendo che non c’era da preoccuparsi. Mai nessuno tolse di mente a Mestizia che il grande spavento provato dal figlio aveva compromesso il suo cuore, predisponendolo alla disgrazia che poi sopraggiunse. Per scelta, l’autrice di questa novella non ha avuto figli, ma ciò non le impedisce di pensare che vedersene morire uno sia tra le cose più strazianti che possano accadere a un essere umano.


    In Mestizia il dolore proliferò incontrollato e irreversibile come un cancro. Per lunghissimi anni si vestì solo di nero. Alla catenina d’oro aggiunse un medaglione: lo apriva spesso per fissare l’immagine del volto del figlio, proprio di quel figlio che con lei era stato il più affettuoso. Per comprargli una tomba, la famiglia aggiunse sacrifici a quelli che già faceva. Quando lo scopo venne raggiunto, Mestizia volle che vi fossero sistemate anche le spoglie dei due figli morti neonati; così anche gli scheletrini potettero sperimentare il progresso: tolti da sotto terra, e deposti nella tomba in muratura sigillata con pietra, su di loro mai più crebbe erba odorosa.

    Era andata a fare assistenza a una conoscente ricoverata nell’ospedale del capoluogo di provincia. Suoni cupi attraversarono il cielo; con i boati la terra cominciò a tremare, lanciando nuvole e lampi verso l’alto. La città precipitò all’inferno. All’epoca le bombe non erano ancora intelligenti, per cui caddero anche sull’ospedale. Mestizia vide pareti e corpi squarciati, pezzi di intonaco e brandelli di carne; da tubature saltate fuoriusciva acqua, e il sangue da vene spezzate. Si salvò solo perché ebbe la prontezza di ripararsi sotto l’architrave di una porta. Per tutta la vita, mai più riuscì a espellere da dentro di sé quelle immagini atroci. In tempo di pace, quando della guerra ormai restava un ricordo sbiadito, lei impallidiva e tremava ancora a ogni rombo d’aereo, istintivamente portando le mani alle orecchie nel tentativo di non riudire voci strazianti di moribondi e feriti. Colse tutti di sorpresa: fu il primo dei più di cento bombardamenti che martoriarono la città dove, purtroppo, erano localizzate le Acciaierie e la Fabbrica d’Armi. Valutando che sarebbero stati un po’ più sicuri, Mestizia e i suoi si trasferirono in campagna. Potettero sistemarsi in un molino da olio: dormivano tutti in un unico ambiente, di giorno cercavano di fare una vita normale, correvano nel rifugio ogni volta che echeggiava l’allarme.

    Servendosi di un’agenda di qualche anno prima cui modificò i giorni della settimana, Pacifico tenne un diario che va da gennaio a giugno del 1944. Venne ritrovato anch’esso nel localino che era stato il suo regno. Tramanda ai posteri le situazioni che lui e famiglia vissero mentre erano “sfollati”. Disarmanti nella loro schiettezza, le sue parole ci svelano l’orrore della guerra; e meno male che abbia sentito il bisogno di scriverle, perché hanno aiutato chi ha potuto leggerle ad avere una percezione più esatta della guerra stessa e dell’imbecillità umana che sempre ne è alla base.

    Le annotazioni rivelano i limiti linguistici e culturali dell’autore, che non gli hanno affatto impedito di rendere l’idea del terrore con cui si doveva convivere in quel periodo. Ricorrente è il tema della paura. E come poteva non esserlo visto che, incessantemente, il territorio era sorvolato da aerei da caccia e bombardieri, violato da bengala e mitragliate, maciullato da bombe, calpestato da automezzi e colonne militari? “Mi trovavo a vangare l’orto, cinque minuti dopo apparivano molti caccia nemici, appena sopra a noi sganciavano due bombe sullo stabilimento e una decina sulle case, io mi sono coricato dentro il fosso, il terreno sussultava ad ogni bomba che cadeva, ho avuto molta paura”. “Questa sera ancora non era buio che il solito aeroplano notturno eccolo a ronzare sopra di noi, andato via questo poco dopo un altro e forse più di uno hanno continuato a ronzare fino a dopo le una, questo tipo di aeroplani per noi è un vero terrore, non si dorme mai, sgancia bombe a spezzoni e a casaccio”. “Questa mattina alle sei e trenta io per andarmi a nascondere cadevo e mi sono fatto male al ginocchio e al dito mignolo sinistro, gli aeroplani sono passati molto bassi, senza allarme, all’improvviso, ci hanno messo tanta paura”. “La notte passata abbiamo avuto molta paura perché hanno bussato alla porta e quella di sopra l’hanno aperta”. “Questa mattina grande bombardamento, cacciabombardieri mitragliavano e bombardavano qui intorno, ci trovavamo nella vigna quando improvvisamente da est sbucano parecchi cacciabombardieri, dappertutto mitragliavano e sganciavano bombe a casaccio, subito dopo altre formazioni mitragliavano e bombardavano i dintorni di San Binati bruciando più di trenta camion, gli incendi si vedevano da qui, oggi abbiamo avuto tutti molta paura”. Ci furono giorni in cui l’allarme non era udibile a causa del forte vento; mentre una notte, del tutto esausti, Pacifico e i suoi dormirono così profondamente da non sentirlo; nel mese di maggio arrivò ad essere dato per ben trecentoquattordici volte.

     

    Terni,Largo Villa Glori

    Alle note che descrivono devastazioni e terrore fanno da contrappunto quelle concernenti attività e preoccupazioni quotidiane. Nello stesso giorno in cui “due formazioni di bombardieri e parecchi aerei da caccia si combattono in cielo scambiandosi scariche di mitraglia”, Pacifico va “a macchia a fare un fascione di legna secca”. Armato di zappa aiuta un vicino a “mettere centocinquanta buche di patate”; mentre in una frazione vicina, “due bombe sono cadute in mezzo ai campi facendo delle buche profonde circa sette metri”. Quando l’acqua non arriva ormai da giorni, nel molino dove alloggiano viene a mancare pure la luce; e Pacifico ha un’ulteriore preoccupazione vedendo “tanta roba e bella ma se non piove si secca tutto, la maggior parte delle fave sono secche”. Avendo “macinato kg. 123,360 di grano”, considera che la farina dovrà bastargli “per pane e pasta per aprile maggio e giugno per cinque persone”; invece un conoscente muore in seguito a quella che definisce colica, “lasciando nella miseria la moglie e i quattro figli”; al contempo, mentre i burini sopravvivono di stenti, la signorotta del luogo può permettersi di chiedere a Pacifico di imbiancare una stanza del casolare dove si trasferirà, perché in villa si sono istallati i tedeschi.

    “Hanno bombardato e mitragliato facendo morti e feriti tutti civili”. “Hanno sganciato tre bombe centrando una scuola e causando la morte a parecchi ragazzi”. Pacifico scrisse anche: “Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più”. Tutti i membri della sua famiglia nucleare uscirono vivi dal conflitto; anche il figlio militare che, come il fidanzato della figlia, tornò dopo una lunga prigionia. Invece, la sorella di Pacifico perse il marito travolto da un camion tedesco; qualche mese dopo, una bomba le scoperchiò il tetto di casa e danneggiò piante di olivo e pergolato; subito accorso per aiutarla, il tenero Pacifico registra anche che “il piantoncello lì all’angolo non si è ritrovato”. Per la sorella di Mestizia il saldo della guerra è ancor più devastante. Il marito conduceva un carrettino a mano vuoto, in compagnia di tre figlie e di una conoscente. Mitragliati, morirono sul colpo la conoscente, lui e la figlia minore. La mezzana riportò ferite lievi, alla figlia maggiore amputarono la gamba sopra al ginocchio. Essendo il ponte danneggiato e dovendo fare un lungo percorso alternativo, mentre i caccia non smettevano di girare, candidamente Pacifico scrive di non aver avuto il coraggio di andare a trovare le nipoti ferite; pietosamente, invece, Mestizia va in ospedale a fare assistenza a quella cui hanno amputato la giovinezza. L’ironia della sorte ha voluto che il nome proprio della ragazza fosse un derivato della propaganda fascista e della retorica del patriottismo, un nome evocante deliri di conquiste e vittorie: la giovane si chiamava Italia, e come l’Italia si ritrovò devastata nel corpo e nell’anima. Fu come se avessero mitragliato il cervello stesso della sorella di Mestizia: divenne una persona stramba che per strada parlava da sola a voce alta, proclamando frasi sconnesse, dando l’impressione di star litigando con qualcuno. Non divenne furiosa, sebbene imbarazzante era la sua presenza. Ridotta a pelle ed ossa, il naso aquilino mise più in evidenza le voragini in cui si erano trasformati i suoi occhi. Mestizia se ne prese cura, sapeva calmarla, come potette l’aiutò sempre; ma gli anni che sua sorella dovette ancora vivere furono pieni di follia e stenti.

    La palpitante apprensione per le sorti della sua donna quando non l’aveva a fianco, è il sentimento più emozionante trasmessoci dal diario; seguendo lo svolgersi di una battaglia particolarmente cruenta, Pacifico trema di paura per Mestizia che si è recata al cimitero; di lì a due settimane alcune bombe esploderanno proprio a ridosso del camposanto, danneggiando il tetto dell’abitazione del becchino e facendo cadere lapidi, mentre tre schegge saranno rinvenute accanto alla tomba dei loro figlioli. Qualche tempo dopo essersi istallati nel molino da olio, la stanza sovrastante la loro venne occupata da nove tedeschi. Pacifico e Mestizia non riuscirono a vederli come militari alleati prima e nemici dopo. Per loro furono solo poveri diavoli di stranieri con cui si comportarono come avrebbero voluto si comportassero quanti entravano in contatto con il figlio e il fidanzato della figlia, poveri diavoli di stranieri in Africa. Per uno dei tedeschi in particolare, l’empatia solidificò immediatamente assumendo la forma di un’artistica amicizia. Quando venne ferito, tutta la famiglia fu in apprensione, poi si prese cura di lui. Minuscole e inestimabili furono le attenzioni che si scambiarono. Quando i tedeschi si ritirarono, Verner consegnò a Mestizia, che chiamava mamma, una coperta di cotone lavorata all’uncinetto; nel suo parodistico italiano le chiese di riandare a lui con il pensiero ogni volta che gli occhi le si fossero posati sul bianco copriletto. A dispetto della gravità della situazione, l’autrice del presente brano ha sorriso leggendo tra le righe di alcune innocue osservazioni di Pacifico; ad esempio: “ha parlato il papa ma nessuno lo ascolta”; mentre la ripetizione della stessa frase le ha dato l’idea della sorpresa che ha colto quanti vedevano i “negri” per la prima volta. E se ci sono “tanti negri in giro” significa che la guerra è finita, così come la prima parte di questa novella.


    * Brano tratto dal romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, Loretta Emiri, CPI/RR, Fermo, 2011.

    ** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i volumi di racconti Amazzonia portatile e Amazzone in tempo reale (Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013), il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito A passo di tartaruga, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice.

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