–
Con la testa nel cassonetto
–
dal Blog di Antonio Menna
–
C’è stato un momento in cui ho pensato di fotografarli e pubblicarli in sequenza, giorno per giorno, in una cartella unica sul web, in modo da costruire un numeratore, tipo quelli del telethon o del debito pubblico. Una carrellata di corpi mozzi. Poi mi sono detto no. Un pensiero laterale mi ha bloccato. Forse è mala coscienza perchè io, per loro, non ho mai fatto niente.
–
Parlo della gente che ogni giorno vedo con la testa nel cassonetto della monnezza. Ne conto quattro o cinque ogni mattina, perchè lo fanno di giorno, quando i bidoni non sono stracolmi e cercare dentro è più semplice. E poi perchè lì non vogliono maglie usate, pezzi di ferro, radio dismesse da cui ricavare un circuito da vendere, rame, oggetti da rigattiere. Cercano cibo.
–
Ho visto ieri a Roma una signora anziana recuperare quattro mele e mettersele in un carrellino, come quelli della spesa. Cercano gli avanzi, soprattutto dei negozi. Le pasticcerie, le salumerie, le rosticcerie, i fruttivendoli buttano le cose irrecuperabili spesso la mattina, quando aprono, e devono fare spazio alla nuova merce. Ripuliscono frigoriferi e scaffali, a volte senza cura per l’obbligo di buttare la monnezza la sera. Se la possono mai tenere tutto il giorno nel locale? Non hanno spazio. Così la vanno a chiudere abusivamente nei cassonetti. Ortaggi, pane, polli arrosto, teglie di pasta e di pizza. Immancabile, arriva qualcuno che lo sa e si cala.
–
Io, in genere, li vedo chini dal bacino alle gambe, me ne accorgo tardi e ho sempre paura che ci finiscano dentro.
Quanti anziani, e vedo mia nonna, mio nonno, vedo me stesso. Gli vorrei dire attento al femore, cazzo. Alla tua età è fragile, si spezza come niente. Fai attenzione, vorrei urlargli. Ma sarebbe ridicolo.
–
Le statistiche dicono che la povertà è in crescita. Circa cinque milioni di persone, pare. Non lo so, ogni giorno un numero diverso, forse sono di più, o di meno. Ma sono tanti. Io li vedo, e c’è stato un momento in cui volevo costruirci una galleria fotografica.
Vedo il vecchio nel cassonetto, vedo il vecchio che chiede l’elemosina con eleganza e buona educazione, vedo il vecchio che infila il dito nella fessura dei soldi spicci delle macchinette automatiche, o che raccoglie cicche. Li guardo e penso che potremmo finirci tutti.
Questa – diciamoci la verità – è la vera angoscia. Non la sua condizione ma la nostra.
–
La povertà è sempre esistita. Chi chiedeva la carità, chi mangiava alle mense, chi non aveva da vivere. C’è sempre stato anche chi provava ad aiutarli e chi tirava dritto. Cos’è cambiato, allora? Il numero. Ma non solo. La tipologia, soprattutto. Sono morte un paio di idee che ci davano sicurezza: hai un lavoro, te la cavi; hai voglia di lavorare, te la caverai sempre.
Questa certezza non c’è più. Non è la povertà che stringe lo stomaco; è il respiro mozzo sul futuro di ciascuno di noi. Non riusciamo più a tirare nei polmoni tutta l’aria che c’è nella vita.
Quando quei corpi si issano, come cani randagi, con una mela, un pezzo di pane raffermo, un cavolfiore moscio, e ti mostrano il volto, non ci leggi i segni del vagabondaggio. Hanno la faccia sbarbata, la maglia pulita, le unghie curate. Hanno volti lavati col sapone, e hanno dormito nel loro letto.
Sono fuori dalle categorie classiche della povertà, che in fondo ci rassicurano. E’ un tossico, è un alcolista, è un malato mentale. Che belle e utili definizioni. Ci sono servite per contenere la paura, per dirci che ognuno della propria vita fa quello che vuole, e se sei ridotto a scavare nella monnezza è un po’ anche colpa tua.
Ora non è più così.
–
Il volto lavato di sapone della vecchia che si tira su dal cassonetto ti dice che oggi tocca a lei, e domani potrebbe toccare a tua mamma. Questa cosa è insopportabile.
Ogni mattina, quando vedo queste persone, rimango a fissarle attonito e angosciato. Non so cosa fare. Potrei aiutarle. Ma non faccio niente. Mi sembra che niente io possa fare. Le guardo.
–
L’ultima volta che ne ho visto uno ho stretto in tasca sei euro in monete. Li ho contati con le dita, toccandole, senza vederle. Ma non per darglieli. Per sentire se ce li avevo ancora, e poi dirmi cazzo, meno male.
Perchè sotto tutto il buonismo, come la crosta, c’è l’egoismo. Non tocca ancora a me, meno male. Poi ho chiamato mia mamma. Tutto a posto? Tutto a posto. Anche papà sta bene. Ma fino a quando?
E io, fino a quando?
Spero solo che se dovessi finire, un giorno, a corpo mozzo in un cassonetto per cercare cibo, a nessuno salti in mente di fotografarmi.
È questo il mio pensiero laterale, la mia vergogna.
–
E che, magari, invece di restare lì immobile come un coglione a guardarmi, o a pensare meno male che non tocca a me, mi venga a dare una mano, che piegarsi in un cassonetto è dura davvero, soprattutto ad una certa età, quando hai le mani pulite, e il cuore senza rezza.
–
http://antoniomenna.com/2013/11/01/con-la-testa-nel-cassonetto/