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di Gian Carlo Zanon
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«Se il nostro tempo ammette l’omicidio e le sue giustificazioni, è a causa di questa indifferenza per la vita che è il marchio del nichilismo.»
Albert Camus – L’homme revolté
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Noi siamo essenzialmente, nel bene e nel male, il risultato dei rapporti interumani avuti sin dai primi giorni di vita … soprattutto nei primi giorni e mesi di vita. Se esiste una diseguaglianza della realtà umana, in termini “qualitativi”, questa è dovuta alle “bonacce” e ai “marosi” del rapporto con “l’altro” da sé che abbiamo incontrato dal primo giorno di vita in poi.
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E sarebbe da chiedersi chi mai abbiano potuto incontrato durante la loro insensata esistenza i “ragazzi di buona famiglia di Dhaka” vale a dire quei dementi che sono andati “alla bella morte” trascinando con sé decine di persone colpevoli di non conoscere il Corano a memoria.
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Su Repubblica del 5 luglio Marco Belpoliti, nel suo articolo Il sorriso dei ragazzi, killer nel nome dell’Is , (leggi qui) narra da par suo la tragedia di Dhaka evocando lo spettro del nichilismo.
Tesi già esplorata in molti dei nostri articoli (leggi qui e qui) che aggiunge poco a ciò che avevamo indagato e descritto, ma che, rivolgendosi ad un pubblico molto più vasto, ha una enorme portata culturale che può cominciare a spostare il pensiero verso ciò che sta a monte del terrorismo islamico ma non solo. Inoltre essere in linea con il pensiero dello scrittore giornalista Marco Belpoliti conforta non poco la nostra visione “antropologica” sul terrorismo in generale e jihādista, in particolare.
Il nichilismo o se preferite “l’essere per la morte”, è la trave portante del terrorismo. Senza questo difetto di pensiero che assegna alla morte le chiavi dell’essere in assoluto – o come direbbe colui che ha introdotto il nazismo nella filosofia: Heidegger “l’autenticità dell’essere” – il movente dei pazzi criminali si svuoterebbe di senso.
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Belpoliti aggiunge anche un’altra importante tessera al mosaico del terrorismo: il delirio della “purezza” e del sacrificio per raggiungerla. «Francesco Marone – scrive Belpoliti – spiega come la purezza sia il primo tassello di questa visione che a noi appare paranoica, fuori dalla realtà. In realtà non lo è: appartiene a un altro ordine mentale, quello della follia.» Io non parlerei di “un altro ordine mentale” e di “follia”, ma di “disordine mentale” e di “malattia della mente”. Meglio essere pignoli sennò non si riesce a mettere a fuoco la psicosi di questi individui.
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Ma prima di continuare ad investigare sulla realtà mentale dei “Bad Boys di Dhaka” riporto ciò che ha scritto Belpoliti: «Sorridono con la mitraglietta in mano, la kefiah bianca e rossa in testa. Belle facce da studenti. Gli avranno pure detto di sorridere per la foto. Tuttavia è innegabile che c’è qualcosa di spontaneo, d’allegro, di scanzonato in quei sorrisi. Parlano della loro giovinezza. Sono i terroristi di Dacca. (…) Un sorriso indelebile, che sarebbe poi diventato famoso con il nome di farah al- ibtissam, ovvero “il sorriso della gioia” di tutti i seguenti attentatori, degli uomini-bomba, fino a questi giovanotti della capitale del Bangladesh. La domanda che ci facciamo è: perché? Per quale ragione dei ragazzi colti, studiosi, benestanti, gioventù dorata di un paese poverissimo, che vive in bilico sul delta del Gange, vanno a morire così, con quella violenza rituale sulle loro vittime innocenti.»
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E anche qui, mi fermo perché nel sorriso artefatto del terrorista che abbiamo messo in copertina non vedo nulla di “spontaneo”. Io vedo un sorriso da ebete. E non comprendo come possa essere “spontaneo” ed “allegro” il sorriso rivolto dal carnefice alla vittima? Sarà casomai, penso, un sorriso anaffettivo, manierato, ebefrenico che evidenzierebbe ancor più la malattia mentale dell’individuo. Infatti!
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Nel suo articolo Belpoliti cita L’Homme révolté di Albert Camus: «(…) Camus ha fornito una spiegazione plausibile per capire le ragioni di quel gesto: solo il suicidio permette di superare l’interdetto a uccidere uomini e donne innocenti. Il morire, scrive, giustifica l’uccidere. Utilizzando un paradosso, in cui Camus è maestro, sostiene che la volontà di morire degli attentatori dimostra da sola la credenza nella giustezza della propria causa. (…) Morire suicidi, afferma Camus, è la conferma della propria purezza.»
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Detto così, e in questo contesto, e anche se si scrive “spiegazione plausibile”, sembra quasi che Camus approvi il suicidio che “conferma la propria purezza”. Se fosse così sarebbe una lettura miope del testo camusiano. Ma forse sono io che capisco male.
Come sappiamo Camus, al contrario di J.P. Sartre, (leggi qui) ha sempre rifiutato il terrorismo che si rivolge contro degli innocenti scelti a caso dalla sorte. Lo testimoniano le sue coraggiose prese di posizione sulla “questione algerina” (1) e il suo forsennato indagare sulle ragioni del nichilismo sia nella “trilogia dell’assurdo” – Caligola, Lo straniero, Il mito di Sisifo – sia in opere teatrali come Il malinteso e I giusti.
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