• Il paese dei ciechi – Racconto di Herbert George Wells – Testo

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    (The Country of the Blind, 1899)

     

    Nella parte più deserta e selvaggia delle Ande ecuadoriane, ad oltre quattrocentocinquanta chilometri da Chimborazo, a centocinquanta dalle nevi del Cotopaxi, sta quella misteriosa valle montana che è il paese dei ciechi, completamente segregata dal mondo abitato. Molti e molti anni fa, la vallata era in comunicazione con il resto del mondo, almeno quel tanto che avrebbe potuto consentire agli uomini di raggiungerne, per gole spaventose e oltre valichi ghiacciati, i prati temperati; ed infatti alcuni vi giunsero, una famiglia, o giù di lì, di meticci peruviani che fuggivano l’oppressione e l’ingordigia di un malvagio governante spagnolo. Poi ci fu la sbalorditiva eruzione del Mindobamba, quando Quito rimase immersa nelle tenebre per diciassette giorni, e a Yaguachi le acque bollirono, facendo venire a galla i pesci morti fino a Guayaquil. Ovunque, sul versante del Pacifico, ci furono frane sui pendii, repentini disgeli, improvvise inondazioni, ed un intero fianco della vecchia cima dell’Arauca slittò e venne giù con rumore di tuono, chiudendo per sempre l’accesso del paese dei ciechi all’intraprendente piede dell’uomo. Nel momento del tremendo cataclisma, uno di quei coloni s’era per caso trovato di qua dalle gole; per forza di cose, dovette rinunciare a moglie, figli, amici, beni, lasciati lassù, e ricominciare una nuova vita nel mondo sottostante. La ricominciò; ma la malattia, cioè la cecità, lo colse e poi egli morì ai lavori minerari, ove scontava una pena. Però la storia che aveva raccontato fece nascere una leggenda che ancor oggi sopravvive lungo la cordigliera delle Ande.

     

    Egli spiegava perché si fosse avventurato a rifar la strada in senso inverso, allontanandosi da quella rocca fra i monti, nella quale era giunto la prima volta bambino, legato sul dorso di un lama dietro un’immensa balla di masserizie. C’era nella valle, egli diceva, tutto ciò che un uomo può desiderare di meglio: acqua dolce, pascoli, un clima uniforme, pendii di terra scura e fertile, con macchioni di un arbusto che produceva un ottimo frutto; su un lato, incombevano grandi foreste di pini che tenevano lontane le valanghe. Molto in su, da tre lati, enormi strapiombi di roccia grigia erano incappucciati da alti nevai; ma il corso d’acqua che usciva dal ghiacciaio andava dall’altra parte, e solo di rado cadevano a valle enormi valanghe. Non pioveva né nevicava, nella vallata; ma le copiose sorgenti fornivano ricchi pascoli erbosi, che l’irrigazione poteva estendere a tutta l’area della valle. Gli immigrati vi si trovarono assai bene. Le loro bestie vi si trovarono bene, e si moltiplicarono. Una sola cosa offuscava la loro contentezza; ma bastava ad offuscarla gravemente. Un male strano li aveva assaliti, colpendo di cecità tutti i figli che avevano avuto lassù, ed anzi colpendo anche alcuni dei maggiori. Egli aveva ridisceso le gole, a prezzo di fatica, difficoltà e pericoli, appunto per cercare un antidoto o un talismano contro quella cecità. A quei tempi, in casi del genere, gli uomini non pensavano a bacilli e infezioni, bensì a peccati, e a lui era sembrato che il motivo di quella piaga dovesse risiedere nella negligenza di quegli immigrati senza prete, che non avevano costruito una cappelletta appena penetrati nella valle. Voleva che vi si costruisse una cappelletta, piccola, rudimentale, ma in piena regola; voleva reliquie ed altri strumenti di fede consimili e potenti, oggetti benedetti, medaglie misteriose, preghiere. Aveva nel borsellino una sbarra di argento grezzo, sulla quale non volle dare spiegazioni; insistette a dire che non vi era argento nella valle, con una insistenza un po’ da bugiardo maldestro.

     

     

    Loro avevano riunito, diceva, tutto il denaro e tutti i monili, non avendone proprio bisogno lassù, per comperarsi l’ausilio del cielo contro il loro male. Mi par di vederlo, questo giovane montanaro debole di vista, bruciato dal sole, scarno, ansioso, che stringe febbrilmente tra le mani la testa del cappello, mentre, del tutto digiuno com’era degli usi del basso mondo, racconta tutto ciò a un prete attento, dall’occhio penetrante, prima del grande cataclisma; me lo raffiguro mentre subito se ne torna, con pii ed infallibili rimedi contro il malanno, e immagino la sua infinita angoscia nel trovarsi di fronte l’immensità della frana là dove una volta sboccava la gola d’accesso. Ma la storia delle sue ulteriori sventure mi è ignota, salvo per quanto riguarda la sua brutta morte dopo parecchi anni. Povero sbandato di quelle lontananze! Il torrente che un tempo aveva formato la gola sgorga adesso da un antro di roccia, e la leggenda messa in circolazione dal suo racconto misero e stentato è diventata quella dell’esistenza di una razza di ciechi, da qualche parte “lassù”, che ancor oggi si ode raccontare.

     

     

    E tra la sparuta popolazione di quella valle ormai isolata e dimenticata, la malattia seguì il suo corso. I vecchi, diventati mezzo ciechi, andarono a tastoni, i giovani ci videro appena, e i figli che misero al mondo non ci videro affatto. Ma la vita era molto facile in quella conca orlata di nevi, ignota al mondo intero, priva di spine e rovi, senza insetti nocivi né animali all’infuori dei miti lama delle mandrie ch’essi avevano tirato, spinto, seguito su per il letto angusto dei corsi d’acqua, in fondo alle gole attraverso le quali erano saliti. A quelli che ci vedevano, la vista si era abbassata per gradi, tanto che quasi non si accorsero della perdita. Avevano guidato i ragazzi privi della vista, qua, là, ovunque, tanto che questi conobbero tutta la valle a meraviglia; e quando l’ultimo residuo di vista si spense, tra loro, la razza sopravvisse. Avevano persino fatto in tempo ad adattarsi per adoperare il fuoco alla cieca, accendendolo cautamente in forni di pietra. All’inizio erano una stirpe di gente semplice, analfabeta, appena sfiorata dalla civiltà spagnola, ma nella quale sussisteva ancora un poco la tradizione artistica e la filosofia perduta dell’antico Perù. Una generazione seguì l’altra. Essi dimenticarono parecchie cose, altre ne escogitarono. La tradizione dell’esistenza d’un più vasto mondo, dal quale erano venuti, si fece vaga, prese color di mito. Tranne che nella vista, erano, in tutto il resto, forti ed abili, e non tardò che, al caso delle nascite e dell’ereditarietà, comparve tra loro un individuo d’intelletto originale, dotato di parola persuasiva, poi un altro ancora. Anche dopo la morte di quei due ne restò il segno, e intanto la piccola comunità cresceva di numero e d’intelligenza, sistemava i problemi sociali ed economici man mano che si presentavano. A un certo punto nacque un bambino che aveva un salto di quindici generazioni tra sé e quell’avo ch’era uscito dalla valle con una sbarra d’argento per andare a procacciarsi l’aiuto di Dio, non facendo più ritorno. E allora accadde che, dal mondo esterno, un uomo capitò in seno alla comunità. Questa è la sua storia.

     

    Era un montanaro del territorio nei pressi di Quito, un uomo che era sceso fino al mare e aveva visto il mondo, che leggeva libri a suo modo: un uomo intraprendente, e di mente acuta. Una spedizione alpinistica inglese, venuta a scalar montagne nell’Ecuador, l’aveva assunto in sostituzione di una delle tre guide svizzere, che si era ammalata. Si arrampicò qua, si arrampicò là, e infine venne il tentativo di scalare il Parascotopetl, ch’è il Cervino delle Ande, nella qual occasione il mondo di fuori lo diede per disperso. Le relazioni scritte, sulla sciagura, furono una dozzina o più. La migliore è quella di Pointer. Racconta come la spedizione, superando numerose difficoltà, riuscì ad arrampicarsi quasi verticalmente proprio fino al piede dell’ultimo e maggiore strapiombo, e qui, su una piccola sporgenza di roccia, si preparò un bivacco per la notte. Racconta anche, non senza un tocco di vera potenza drammatica, come a un tratto si accorsero che Nuñez non era più con loro. Gridarono, e non ebbero risposta. Continuarono a gridare, a fischiare. Non dormirono per tutto il resto di quella notte.
    Al levar del giorno, videro le tracce della caduta. Non doveva avere avuto modo di pronunciar parola. Era scivolato ad est, sul versante sconosciuto del monte; molto più in basso era piombato su un ripido nevaio, sul quale aveva lasciato un solco, scendendo in mezzo a una slavina. La traccia giungeva diritta al ciglio di un pauroso precipizio; di là da quel punto, tutto restava nascosto alla vista. Essi scorsero in basso, laggiù, lontanissimi, nella foschia della distanza, alberi che crescevano in un’angusta valle chiusa da ogni lato: il perduto paese dei ciechi. Ma essi non sapevano ch’era il perduto paese dei ciechi, né fecero differenza con qualsiasi altra stretta striscia di pianoro. Persero coraggio, dopo questa sciagura, e nel pomeriggio rinunciarono all’impresa. Pointer fu richiamato per la guerra prima di ritentare l’ascensione. Ancor oggi, la vetta del Parascotopetl è inviolata, e il bivacco di Pointer, che nessuno raggiunge, si sgretola tra le nevi.
    Ma l’uomo che era precipitato, sopravvisse.

     

     

    Dal fondo del nevaio, dopo un volo di oltre trecento metri, andò a cadere, tra una nuvola di neve, sul pendio di un altro nevaio ancor più ripido. Ruzzolò giù, tramortito, inconscio, ma senza un solo osso rotto, giungendo infine su falde meno brusche; e finalmente rotolò di lato e giacque immobile, affondato nel mucchio della bianca massa che lo aveva accompagnato, attutendo la caduta e salvandolo. Rinvenne con la vaga impressione d’esser malato a letto; poi afferrò la situazione, con il suo cervello di montanaro, e fece in modo di liberarsi, finché, dopo un attimo di riposo, non uscì a rivedere le stelle. Per un po’, restò disteso, appiattito sulla pancia, chiedendosi dove fosse e che cosa gli fosse capitato. Si tastò prudentemente le membra, si accorse di aver perso parecchi bottoni e che la pesante giacca gli si era rivoltata sopra la testa. Gli era sparito di tasca il coltello, aveva perduto il cappello, che pur si era legato sotto il mento. Ricordò che poco prima stava cercando pietre smosse, per alzare il suo tratto del muretto di riparo. Il suo piccone era scomparso.
    Ne concluse che doveva essere caduto, e guardando in su vide, ancor più grande nel lume spettrale della luna nascente, il volo tremendo che aveva fatto. Rimase steso per un bel po’ a fissare, attonito, l’ampio dirupo torreggiante e pallido, che ad ogni istante pareva crescere, uscendo dalla marea calante del buio. Quella bellezza misteriosa, come un fantasma, assorbì per un po’ la sua attenzione, poi lo colse un convulso di risa singhiozzanti…

     

     

    Solo dopo un notevole intervallo, si rese conto ch’era vicino al limite inferiore delle nevi. Sotto a questo, vide, su un pendio praticabile e rischiarato dalla luna, terreno erboso cosparso di massi. Si alzò faticosamente in piedi, con le giunture e le membra indolenzite, scese con difficoltà dalla neve ammucchiata intorno a lui, continuò a scendere fino a quando non fu sul terreno erboso, e allora si stese, o meglio si lasciò cadere, accanto a un macigno, fece una bevuta dalla borraccia che aveva nella tasca interna, e s’addormentò di colpo…
    Lo destò il canto degli uccelli, nei lontani alberi, in basso.
    Egli si levò a sedere e constatò che si trovava su un piccolo ripiano ai piedi di un immenso strapiombo interrotto dal canalone lungo il quale eran venuti giù, lui e la sua neve. Dall’altra parte, dirimpetto a lui, un’altra muraglia di roccia si ergeva contro il cielo. Tra questi due dirupi correva la gola, orientata da est ad ovest, invasa dal primo sole del mattino, da cui era illuminata, in fondo, ad ovest, la massa di montagna franata che ne chiudeva la discesa. Sotto di lui pareva esserci un precipizio altrettanto dirupato, ma dietro la neve del canalone egli trovò una spaccatura, una specie di camino, gocciolante d’acqua, giù per il quale un temerario poteva tentare di calarsi. Trovò ch’era più facile di quanto non sembrasse, e giunse infine a un altro ripiano deserto; poi, scalando rocce senza particolari difficoltà, a un ripido pendio coperto d’alberi. Provvide ad orientarsi, e si rivolse a monte della gola, vedendo che questa si apriva, da quella parte, su prati verdi tra i quali egli poté ora scorgere molto distintamente un gruppo di casupole di pietra, piuttosto strane come forma. Fu costretto, in certi punti, ad avanzare come se si arrampicasse sulla superficie di un muro, e dopo qualche tempo il sole, salendo e spostandosi, smise di mandare i suoi raggi nella gola, il canto degli uccelli s’interruppe, e intorno a lui l’aria si fece fredda e scura. Ma la valle lontana, con le sue case, risultò ancor più luminosa. Egli non tardò a giungere ad una scarpata, e tra le rocce notò (poiché aveva il dono dell’osservazione) una specie a lui ignota di felce, che pareva protendere artigli d’un verde intenso fuor dei crepacci. Ne spiccò qualche fronda, ne masticò il gambo, e n’ebbe qualche ristoro. Raggiunse sul mezzogiorno l’imboccatura della gola, uscendo sull’altipiano, in pieno sole. Era stanco e indolenzito. Sedette all’ombra di una roccia, riempì d’acqua la borraccia a una sorgente e bevette, sostando a riposarsi un poco prima di proseguire verso le case.

     

     

    Queste avevano qualcosa di molto strano, ai suoi occhi, ed anzi, guardando meglio, gli sembrò che tutta la valle avesse un aspetto bizzarro, insolito. La coprivano, in massima parte, lussureggianti prati verdi, costellati in abbondanza di bei fiori, accuratamente irrigati, che mostravano chiaramente di venire falciati appezzamento per appezzamento. Molto in alto un muro circondava la valle come un anello, che accompagnava tutto intorno una specie di acquedotto, da cui venivano i rivoletti d’acqua che alimentavano la vegetazione dei prati; e più in alto ancora, sui pendii, greggi di lama brucavano l’erba rada. Qua e là si vedevano, addossate al muro di cinta, certe tettoie che dovevano servire da riparo, forse da stalla, ai lama. Le acque d’irrigazione affluivano tutte a un canale principale, che scendeva per il mezzo della valle, arginato su entrambi i lati, da un muricciolo alto fino al petto. Tutto ciò conferiva, a quel luogo isolato, un’aria singolarmente cittadina, aria che risultava accentuata dal fatto che vari sentieri, pavimentati di pietre nere e bianche, tutti fiancheggiati da un curioso cordone, come di marciapiede, si diramavano ordinatamente nelle diverse direzioni. Nel villaggio al centro, le case erano molto dissimili da quelle agglomerazioni casuali, alla rinfusa, proprie ai villaggi di montagna ch’egli conosceva; erano allineate senza interruzioni, dalle due parti, lungo una strada centrale di una pulizia stupefacente; nelle facciate, lisce e a più colori, qua e là s’apriva una porta, ma non una sola finestra. Erano variegate con straordinaria irregolarità, intonacate con una materia qua grigia, lì giallastra, altrove color dell’ardesia oppure marrone scuro. Proprio la vista di quell’intonaco pazzesco fece venire in mente per la prima volta, all’esploratore, la parola “cieco”. Pensò: “Il brav’uomo che ha fatto una cosa simile doveva essere cieco come una talpa”.

    Si calò da un punto scosceso, e giunse così al muro e al canale che circondavano la valle; vi giunse là dove il secondo riversava il soprappiù nelle profondità della gola, formando una cascata con un filo d’acqua, sottile e ondeggiante. Egli ora vedeva lontano, nei prati, alcuni uomini e donne che si riposavano su mucchi di fieno, come se facessero la siesta; nei pressi del paese, alcuni bambini sdraiati; e infine, più vicini a lui, tre uomini che, con gioghi d’acquaiolo, portavano secchi percorrendo un sentiero che andava dal muro di cinta verso le case. Questi ultimi indossavano abiti di stoffa fatta con il pelo di lama, scarpe e cinture di cuoio, berretti di stoffa con lembi che coprivano le orecchie e la nuca. Procedevano l’uno dietro l’altro, in fila indiana, camminando adagio e sbadigliando nel camminare, come chi abbia passato la notte in piedi. Il loro comportamento aveva un’aria rassicurante di prosperità, di rispettabilità e perciò Nuñez, dopo un attimo di esitazione, si fece avanti, mettendosi in vista come meglio poteva sulla sua roccia, ed emise un potente grido di richiamo, che echeggiò per tutta la valle.
    I tre uomini si fermarono, e mossero il capo, come guardandosi attorno. Girarono il viso di qua e di là, e Nuñez gesticolò a tutto andare. Ma, con tutto il suo agitar di braccia, non parvero vederlo, e dopo un poco, rivolti verso le lontane montagne sulla destra, gridarono come per rispondere. Nuñez cacciò fuori un altro urlaccio, e allora, nuovamente, nel fare i suoi inutili gesti, la parola “cieco” s’impose alla sua mente. “Quegli sciocchi devono essere ciechi”, si disse.

     

    Alla fine Nuñez, essendosi sgolato e arrabbiato più che a sufficienza, attraversò l’acqua su un ponticello, passò da una porta nel muro, si avvicinò a quegli uomini. Ebbe allora la certezza ch’erano ciechi. Fu certo che quello era il paese dei ciechi di cui parlavano le leggende. Questa convinzione lo riempì di un senso di grande, di invidiabile avventura. I tre si tenevano vicini l’uno all’altro, e rivolgevano verso di lui non gli occhi, ma l’orecchio, giudicandolo attraverso il rumore non familiare dei suoi passi. Stavano stretti, come un poco impauriti, ed egli vide che avevano le palpebre chiuse e affossate, come se le pupille si fossero rattrappite fino a scomparire. Avevano in viso un’espressione quasi di sbigottimento.
    – Un uomo – diceva l’uno, parlando uno spagnolo quasi irriconoscibile;
    – è un uomo, un uomo o uno spirito, quello che scende dalle rocce.
    Ma Nuñez avanzava col passo fiducioso del giovane che va incontro alla vita. Si era rammentato di tutte quelle antiche storie sulla valle perduta e sul paese dei ciechi, e come un ritornello gli girava e rigirava per la mente un vecchio proverbio: “Tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re, tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re”.
    Li salutò con molta cortesia. E usava gli occhi, mentre parlava.
    Uno chiese: – Fratello Pedro, di dove arriva?
    – E’ uscito e sceso dalle rocce.
    – Vengo da oltre i monti – disse Nuñez. – Sono uscito dal paese che sta di là, un paese dove gli uomini vedono. Dai pressi di Bogotà, dove abitano centinaia di migliaia di persone e la città si estende fuor di vista.
    – Vista? – mormorò Pedro. – Vista?
    – E’ uscito dalle rocce – disse il secondo cieco.
    Nuñez vide che la stoffa dei loro cappotti era cucita in modo curioso, con punti di un tipo diverso dall’uno all’altro.
    Lo fecero sobbalzare compiendo simultaneamente un movimento verso di lui, a mano protesa. Egli arretrò, dinanzi all’avanzata di quelle dita aperte.
    – Vieni qua – disse il terzo cieco, accompagnando il suo movimento e agguantandolo bellamente. Tennero Nuñez e lo tastarono, senza dir altro.
    – Piano! – esclamò egli, avendo un dito in un occhio. E capì che costoro ritenevano in lui una stranezza, quell’organo dalle palpebre che sbattevano. Insistettero ancora a tastarlo.
    – Una strana creatura, Correa – disse colui che chiamavano Pedro. – Senti un po’ che pelo ruvido ha. Come quello del lama.
    – E’ rude come le rocce che l’hanno partorito – disse Correa, esplorando il mento non rasato di Nuñez, con mano morbida e leggermente umida. – Forse si raffinerà. – Nuñez, sotto quel contatto indagatore, si dibatteva un poco, ma essi lo tenevano saldamente.
    – Piano! – ripeté.
    – Parla – disse il terzo. – E’ certamente un uomo.
    – Uh! – fece Pedro, sentendo com’era grossolano il suo cappotto.
    – E così, sei venuto al mondo? – chiese Pedro.
    – “Dal” mondo! Di là da montagne e ghiacciai; proprio di là, oltre quel punto, a metà strada dal sole. Vengo dal mondo grande e vasto, che scende giù, per dodici giorni di cammino, fino al mare.
    Non sembravano quasi dargli retta. – I nostri antenati dicevano che gli uomini possono essere creati dalle forze della natura – disse Correa. – Dal calore delle cose, e dall’umidità, e dall’imputridimento… dall’imputridimento.
    – Portiamolo agli anziani – disse Pedro.
    – Ma prima manda un grido, – disse Correa, – che i bambini non abbiano a spaventarsi. Questo è un caso portentoso.
    Infatti gridarono, e Pedro si avviò per primo, prendendo Nuñez per mano con l’intenzione di guidarlo verso le case.
    Egli tirò via la mano. – Io ci vedo – disse.
    – Vedi? – disse Correa.
    – Vedo, sì – disse Nuñez voltandosi verso di lui e inciampando, così, nel secchio di Pedro.
    – Ha i sensi ancora imperfetti – disse il terzo cieco. – Inciampa, dice parole senza significato. Conducilo per mano.
    – Come volete – disse Nuñez, e si lasciò condurre, ridendo.

     

     

    La vista, quelli, parevano non sapere neanche che cosa fosse. Ebbene, glielo avrebbe insegnato lui, a tempo e luogo.
    Udì gente gridare, e vide che parecchie figure si stavano assembrando sulla via che passava in mezzo al villaggio.
    Egli si rese conto che gli ci voleva più coraggio e pazienza del previsto, per quella prima presa di contatto con la popolazione del paese dei ciechi. Da vicino, il villaggio pareva più vasto, e quegli intonaci parevano più bizzarri; inoltre una folla di bambini, di uomini, di donne (notò con piacere che donne e ragazze, o almeno alcune tra loro, avevano volti assai avvenenti, a dispetto degli occhi chiusi e affossati), li circondò, attaccandosi a lui, toccandolo con mani morbide e sensibili, fiutandolo, ascoltando ogni parola che pronunciava. C’erano tuttavia fanciulle e bambini che si tenevano alla larga, come impauriti, e infatti la sua voce suonava aspra e volgare a paragone delle loro intonazioni più sommesse. Fu preso d’assalto. Le sue tre guide gli si tenevano appiccicate addosso, con una certa aria di proprietà, continuando a ripetere: – Un selvaggio, uscito dalle rocce.
    – Da Bogotà – diceva lui. – Bogotà, di là dalla cima dei monti.
    – Un selvaggio, che adopera parole selvagge – disse Pedro. – L’avete sentito? “Bogotà”. Non ha ancora l’intelletto sviluppato. Possiede solo i rudimenti del linguaggio.
    Un bambinello gli diede un pizzicotto sulla mano. – Bogotà! – fece, dandogli la baia.
    – Proprio così! Una città, mentre il vostro è un villaggio. Vengo dal grande mondo. Dove gli uomini hanno occhi per vedere.
    – Si chiama Bogotà – dicevano quelli.
    – Ha inciampato – disse Correa. – Ha inciampato due volte, nel venire qua. – Portatelo dagli anziani.
    E ad un tratto, con uno spintone, gli fecero infilare una porta. Nella stanza c’era buio pesto, tranne, in fondo, un tenue bagliore di fuoco acceso; la folla accalcandosi alle sue spalle lasciava filtrare da fuori appena un barlume del giorno. Sullo slancio, prima di riuscire a fermarsi, egli cadde lungo disteso oltre i piedi di un uomo seduto; nel cadere, allungando di scatto un braccio, ne colpì in viso un altro, sentì il contatto di molli lineamenti, udì un grido di collera, e per un momento si dibatté nella morsa di parecchie mani. Lotta impari. Ma, in un lampo d’intuizione, si rese conto di come stavano le cose e rimase immobile.
    – Sono caduto – spiegò. – In questo buio pesto non vedevo niente. Cadde un silenzio, come se le persone che lo attorniavano cercassero di capire le sue parole. Poi la voce di Correa disse: – E’ formato da poco. Quando cammina, inciampa. Quando parla, mescola parole che non vogliono dire nulla.

     

    Anche altri espressero sul suo conto i loro pareri, ch’egli udì o capì imperfettamente.
    – Posso mettermi a sedere? – chiese in un intervallo di silenzio. – Non mi agiterò più contro di voi.
    Dopo essersi consultati, gli permisero di alzarsi. La voce di un vecchio cominciò a interrogarlo, e Nuñez fu costretto a cercar di spiegare il vasto mondo dal quale era piombato giù, il cielo, i monti, la vista e simili prodigi, a quegli anziani che sedevano immersi nelle tenebre, nel paese dei ciechi. Ma non capivano, non credevano a quello che diceva; e questo non se l’era davvero aspettato. Non riuscivano a capire molte sue parole. Erano ciechi da quattordici generazioni, completamente segregati dal mondo dotato di vista, e il nome di ogni cosa attinente al senso ottico si era cancellato o trasformato, la storia del mondo esterno si era cancellata, trasformata in una fiaba, ed essi avevano perso ogni interesse per tutto ciò che stava di là dei pendii rocciosi, incombenti sul loro muro di cinta. Erano sorti, tra loro, ciechi geniali, che avevano messo in discussione gli ultimi brandelli delle credenze e delle tradizioni di un tempo in cui possedevano ancora la vista, negandole come vane bubbole e sostituendole con altre e più assennate spiegazioni. Buona parte della loro immaginazione si era disseccata come i loro occhi, ed essi si erano procurati altre immaginazioni in base alla sensibilità sempre maggiore delle loro orecchie e dei loro polpastrelli. Pian piano, Nunez finì con il rendersene conto. Capì che, contrariamente alle sue speranze, non avrebbe ottenuto stupore e reverenza per la sua origine e le sue facoltà; e dopo che costoro ebbero mostrato di non tenere in nessuna considerazione i suoi miseri sforzi di spiegar loro la vista, considerandoli balbettamenti di un essere appena formato che descriveva come portenti le sue sensazioni slegate, egli si rassegnò, un poco mortificato, ad ascoltare le loro istruzioni. Il più anziano dei ciechi gli spiegò la vita, la filosofia, la religione; gli disse che il mondo (cioè la loro valle) era stato dapprima un buco vuoto tra le rocce, e poi erano venute cose senz’anima e senza il dono del tatto, poi i lama e alcune altre creature di scarso intelletto, poi ancora gli uomini, e infine gli angeli, che si udivano cantare e far rumori che battevano dolcemente l’aria, ma che non si riuscivano mai a toccare. Ciò lasciò Nuñez molto perplesso, finché non pensò agli uccelli.

     

     

    L’anziano disse ancora a Nuñez che il tempo era stato diviso in caldo e freddo, cioè l’equivalente del giorno e della notte, per i ciechi; che durante il caldo era bene dormire e durante il freddo lavorare, cosicché in quel momento, se non fosse arrivato lui, tutta la città dei ciechi sarebbe stata immersa nel sonno. Asserì che Nuñez doveva essere stato creato apposta per imparare e per servire la saggezza ch’essi avevano conquistato, e che nonostante la sua incoerenza mentale e il suo incespicare doveva farsi coraggio e far del suo meglio per imparare: a queste parole, un mormorio d’incoraggiamento corse tra la gente accalcata sulla soglia. L’anziano allora disse che la notte (poiché i ciechi chiamavano notte il giorno) era già molto inoltrata. Conveniva dunque che tutti tornassero a dormire. Chiese a Nuñez se sapeva come si fa a dormire, e Nuñez rispose di sì, ma che prima aveva bisogno di mangiare.
    Gli portarono da mangiare (latte di lama in una ciotola, e pan nero salato), e lo condussero in un luogo appartato a mangiar fuori di portata del loro udito, poi a dormire fino all’ora in cui il freddo, con il calare della sera sui monti, li avrebbe fatti alzare per riprendere la loro giornata. Ma Nunez non dormì né punto né poco. Rimase invece, là dove lo avevano lasciato, a riposarsi le membra in posizione seduta, pensando e ripensando alle circostanze inattese che avevano accolto il suo arrivo.
    Ogni tanto gli veniva da ridere, divertito oppure indignato.
    – Mente malformata! – diceva. – Non ancora provveduto pienamente di sensi! Non sospettano, quelli, di avere oltraggiato il re, mandato a loro dal cielo come signore e padrone. Debbo ridurli alla ragione. Ho da pensarci, da pensare…
    Pensava ancora al tramontar del sole.
    Nuñez aveva una pronta percezione di ciò ch’è bello, e gli parve che il rosso bagliore dei riflessi sui campi di neve e ghiacciai che da ogni parte dominavano la valle fosse ciò che di più bello avesse mai veduto. Da quello splendore inaccessibile, i suoi occhi si spostarono in basso sul villaggio e i campi irrigati, che rapidamente venivano sommersi dall’oscurità, e dal più profondo del cuore ringraziò Dio di avergli concesso il dono della vista.
    Si sentì chiamare da una voce che veniva dal villaggio. – Ohilà! Tu, Bogotà! Vieni da questa parte! Egli si alzò in piedi, sorridendo. Una volta e per tutte, avrebbe dimostrato a quella gente ciò che un uomo può fare grazie alla vista. L’avrebbero cercato, senza riuscire a trovarlo.
    – Non muoverti, Bogotà – disse la voce.
    Egli rise silenziosamente e fece di lato due passi furtivi fuori del sentiero. – Non calpestare l’erba, Bogotà; è proibito.
    Nuñez stesso aveva appena udito il rumore che aveva fatto. Si fermò, stupito.
    L’uomo che aveva parlato, stava arrivando di corsa su per il sentiero pezzato. Egli disse, riportandosi sul sentiero: – Son qui.
    E il cieco: – Perché non vieni, quando ti si chiama? Bisogna forse prenderti per mano come un bambino? Non senti il sentiero quando cammini?
    Nuñez rise. – Io lo vedo – disse.
    – La parola “vedo” non esiste – disse il cieco, dopo un attimo di silenzio. – Piantala, con queste sciocchezze, e segui il rumore dei miei passi.
    Un poco seccato, Nuñez gli tenne dietro.
    – Verrà il mio momento – disse.
    – Imparerai – rispose il cieco. – C’è tanto da imparare al mondo.
    – Nessuno ti ha mai detto che “tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re”?
    – Ciechi? che cosa vuol dire? – domandò con indifferenza il cieco senza quasi girare la testa.
    Quattro giorni trascorsero, e il quinto trovò il re dei ciechi ancora in incognito, tra i suoi sudditi, che lo consideravano semplicemente uno straniero goffo e inetto.

     

     

    Proclamare la sua identità risultava, com’egli ben vedeva, più difficile di quanto non avesse supposto, e intanto, mentre meditava il suo “coup deétat”, badava a fare ciò che gli dicevano ed imparava gli usi e costumi del paese dei ciechi. Soprattutto fastidioso gli parve il fatto di lavorare e andare in giro di notte, e decise che la sua prima riforma sarebbe stata quella.
    La popolazione, peraltro, conduceva una vita semplice e laboriosa, con tutte le caratteristiche della virtù e della felicità, quali l’uomo le intende. Lavoravano, ma non in modo opprimente. Disponevano di cibo e vesti in quantità sufficiente ai loro bisogni. Avevano giorni e periodi dedicati al riposo. Tenevano in grande onore la musica e il canto. Conoscevano l’amore. E avevano pochi bambini.
    Era stupefacente con quanta sicurezza e precisione circolavano nel loro mondo bene ordinato. Capite, tutto era predisposto a misura delle loro necessità: ogni sentiero della rete che serviva tutta l’area della valle si dipartiva dagli altri ad angoli costanti ed era contraddistinto da una tacca speciale nella cordonatura che lo fiancheggiava; tutti gli ostacoli e le irregolarità erano stati eliminati già molto tempo prima dai sentieri e dai prati, e tutti i loro sistemi e criteri erano sorti in modo naturale dalle loro particolari necessità. I loro sensi avevano acquistato un’acutezza meravigliosa: erano in grado di udire e valutare il minimo gesto d’un uomo da dodici passi di distanza; di sentirne persino il battito del cuore. Da un pezzo, per loro, le intonazioni della voce avevano sostituito le espressioni del viso, il tatto aveva sostituito i gesti; e lavoravano di zappa, vanga o forcone con la stessa facilità e sicurezza che se si fosse trattato di giardinaggio. Possedevano un senso dell’odorato finissimo, straordinario, tale da poter distinguere prontamente le diversità individuali, come fanno i cani. E badavano al bestiame (i lama, che vivevano tra le rocce in alto e venivano a cercar cibo e ricovero presso il muro) con disinvoltura e tranquillità. Quanto fosse agevole e sicura la loro capacità di movimento, Nuñez lo scoprì quando cercò d’imporsi.

     

    Continua …

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