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Ci vorrebbe un altro Giovanni Semerano per trarmi d’impiccio sulla genesi della nascita della lingua italiana. In realtà, dopo aver scorso gli appunti e annusato alcuni volumi, mi chiedo se è possibile venir a capo di questa “questione”.
I ricordi liceali mi dicono che il De vulgari eloquentia dell’Alighieri è un testo imprescindibile per capire il farsi della nostra lingua. E quindi lo vado a rileggere. Ma subito mi irrigidisco di fronte alla ricerca del fiorentino che risulta invasa dai dogmi religiosi e dalla sua misoginia. Per Dante le leggende bibliche sono una “verità storica”. “Realtà storica” che però addomestica a suo piacimento:
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A) Secondo il “divin poeta” la prima parola attorno alla quale si sarebbe formato il linguaggio, è Él, cioè Dio.
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B) Il primo linguaggio sarebbe stato quindi quello ebraico (1) rimasto integro dal paradiso terrestre sino “al terribile atto di orgoglio”, vale a dire fino a che gli esseri umani decisero di costruire la torre di Babele, causando l’insorgere di una gran moltitudine di dialetti, compreso quello padano.
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C) Anche se, «si trovi in scrittura – scrive l’autore della Commedia, – la femina aver prima parlato, è ragionevole tuttavia pensare che primo a parlar fosse l’uomo» quindi, scrive Dante, chissenefrega se la Bibbia dice che fu prima una “mulier” che, rispondendo al maligno, verbalizzò il proprio pensiero, io dico, dice sempre Dante, che in verità prima fu l’uomo a parlare perché «un così nobile atto» non poteva che essere iniziato da colui che per primo fu plasmato dal divino demiurgo. Che dire, da uno che si fa le pippe poetiche pensando ad una bambina di 9 anni, Beatrice, c’è da aspettarsi questo e altro.
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Prese le distanze dal Dante religioso e misogino, la lettura della sua trattazione del volgare è comunque di grande interesse. Ad esempio quando egli parla della differenza tra il latino e il volgare: il primo scrive l’Alighieri, è innaturale e necessita di studio «per conoscerne le regole e la dottrina», il secondo si apprende naturalmente, «quando iniziamo da prima a distinguere i suoni, o, per dirla breve, parlar volgare intendiamo essere quello che senza regole dalla nutrice per imitazione si apprende» (nutricem imitantes accipimus) .
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Dante, inoltre da una precisa indicazione sulle tre lingue che in vario modo hanno formato il volgare italiano, francese e spagnolo: lingua d’Oc, lingua d’Oil e lingua del Sì.
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Il latino, per Dante, è una lingua letteraria legata alla necessità di avere uno strumento di comunicazione stabile, un linguaggio non soggetto a mutazioni che lo possano alterare. Il latino quindi “cura” quella disgrazia avvenuta in seguito alla “confusione babelica” generatasi per il peccato di ybris, lo smisurato orgoglio, che ha di fatto smarrire quel linguaggio primigenio con cui gli esseri umani potevano comunicare tra loro senza fraintendimenti.
In realtà il mito biblico della Torre di Babele è lì a ricordare la perdita del linguaggio universale non scisso dal corpo, ovvero il linguaggio del bambino che, nonostante non abbia ancora acquisito la possibilità di esprimere il proprio pensiero attraverso le parole, “pretende” di essere compreso dagli adulti. Il mito che narra della disgregazione di un sola lingua in migliaia di idiomi incomprensibili forse evoca un’età primigenia perduta nella quale il linguaggio del corpo era ed è universale.
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Secondo la vulgata culturale, le cosiddette lingue romanze, o lingue neolatine, derivano tout court dal latino. Si è soliti leggere che italiano, il castigliano, il francese, il portoghese e altre lingue, come il catalano, altro non siano che l’evoluzione del latino volgare parlato in quei territori nei territori durante l’impero romano. Questa è una verità mooooolto parziale. La verità vera è molto, molto più complessa.
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Ascoltiamo un grande studioso tedesco di filologia romanza: Erich Auerbach: «Il latino volgare – scriveva il filologo – lo si parlava in Italia, in Gallia, in Spagna, nell’Africa del Nord e in molti altri paesi ancora; e in ognuno di questi paesi si era sovrapposto ad un’altra lingua, la lingua iberica o celtica ad esempio, che gli abitanti avevano parlato prima della conquista romana». Queste lingue (lingue di substrato) che non erano scritte e che erano preesistenti al latino orale, che era simile ma non uguale a quello scritto, informarono la lingua dei conquistatori. Dopo la definitiva caduta dell’impero romano, V secolo d.C., per varie cause, come l’isolamento culturale dovuto alle scarse possibilità di comunicazione, le lingue orali presero numerose strade facendo riemergere anche quel po’ di substrato linguistico che si era salvato dalla soverchiante lingua degli ex conquistatori. Come sappiamo le lingue parlate non possono cristallizzarsi e, quindi, per secoli, cioè fino a che il volgare non divenne lingua ufficiale e nazionale con una propria grammatica e con le proprie regole sintattiche, di generazione in generazione mutarono aspetto … e se vogliamo continuano a mutare. Noi non ci esprimiamo certamente come le persone del primo ottocento, né scriviamo formalmente allo stesso modo dei nostri bisnonni.
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Questo discorso riguarda anche la lingua italiana che, forse più di ogni altra ha subito contaminazioni linguistiche. Il Sud Italia, che sarà la culla della lingua italiana, dopo la caduta dell’impero romano, fu abitata dai bizantini che parlavano greco, poi dagli arabi, poi dai normanni che per primi portarono le chanson de geste, scritte in una lingua romanza già ben strutturata. Infine giunse in Sicilia Federico II lo stupor mundi che si rivolse verso la lingua provenzale che, con la poesia cortese in lingua d’Oc, aveva saputo esprimere una cultura-guida più compiuta e raffinata delle altre lingue romanze. Cultura che senza l’intervento l’imperatore svevo forse non avrebbe avuto seguito: «La nuova lirica cortese in volgare italiano sorge intorno agli anni Trenta del XIII secolo nel vivacissimo ambiente della corte di Federico II: gli autori sono funzionari del governo imperiale o personaggi comunque legati alla struttura giuridica e amministrativa. Essi decidono di trapiantare nel volgare di Sicilia i modelli della lirica cortese provenzale; e secondo alcuni questo “trapianto” è voluto dallo stesso imperatore, che è autore anche di un componimento giunto fino a noi. Dalle corti di Provenza la poesia amorosa passa così a una corte di più vaste dimensioni (…) La morte di Federico II e il crollo della potenza della casa di Svevia fecero venir meno la corte meridionale e l’ambiente adeguato a quella raffinata poesia. Negli anni Cinquanta e Sessanta si ebbe così un vero “trapianto” della nuova lirica volgare nell’Italia comunale, e in particolare in Toscana , dove i violenti conflitti tra Guelfi e Ghibellini comportavano numerosi contatti con la corte sveva.» (2)
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Questo è quanto ci racconta Giulio Ferroni che individua nella lingua d’Oc la matrice di ciò che diverrà la lingua volgare italiana. Ipotesi confermata anche da Patrizia Balestra, (leggi qui) docente di Storia ed estetica della musica presso il Conservatorio U. Giordano di Foggia: «Anche Costanza d’Aragona, prima moglie di Federico II, educata alla lirica musicale presso la corte paterna, portò con sé a Palermo trovatori e canzoni provenzali.»
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In termini attuali potremmo definire la genesi della lingua italiana pluri-eterologa. Seguire le tracce di un proto italiano è praticamente impossibile perché a quelle se ne sovrappongono altre che confondono le prime.
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È entusiasmante inseguire le scie linguistiche e il loro afrore lasciato nella storia e illuderci di aver trovato linee verbali in grado di congiungerci a donne e uomini che hanno creato neologismi per dare più senso a ciò che ancora non ne aveva. È bello e lo faccio perché questi suoni che si lasciano contaminare da nuove realtà che emergono … mi inebriano.
di Gian Carlo Zanon
8 ottobre 2014
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NOTE
(1) «Fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquontis labia fabricarunt» Dante, De vulgari eloquentia.
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(2) Giulio Ferroni – Profilo storico della letteratura italiana – Einaudi Scuola editore – pag. 75
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