–L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
– Terza parte –
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di Walter Benjamin
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11.
Una ripresa cinematografica e specialmente sonora offre uno spettacolo che in passato non sarebbe stato immaginabile. Essa rappresenta un processo al quale non può più venir coordinato un solo punto di vista da cui l’attrezzatura necessaria alle riprese, il parco lampade, il gruppo degli assistenti, ecc., che non rientrano nella vicenda ripresa vera e propria, possano esulare dal campo visuale di chi sta a guardare. (A meno che la posizione della sua pupilla non coincida con quella dell’obiettivo della cinepresa). Questo fatto – questo piú che qualunque altro – rende superficiale e irrilevante l’analogia tra una scena ripresa nello studio cinematografico e una scena recitata in teatro. Per principio, il teatro conosce un punto dal quale ciò che avviene in scena può non essere visto come senz’altro illusorio. Di fronte alla scena ripresa nel film invece questo luogo non esiste. La sua natura illusionistica è una natura di secondo grado; è il risultato del montaggio. Vale a dire: nello studio cinematografico l’apparecchiatura è penetrata così profondamente dentro la realtà che l’aspetto puro di quest’ultima, l’aspetto libero dal corpo estraneo dell’apparecchiatura è il risultato di uno speciale procedimento, cioè della ripresa mediante la macchina disposta in un certo modo e del montaggio di questa ripresa insieme con altre riprese dello stesso genere. Quell’aspetto della realtà che rimane sottratto all’apparecchi è diventato cosí il suo aspetto più artificioso e la vista sulla realtà immediata è diventata una chimera nel paese della tecnica.
La stessa situazione, che cosí si differenzia da quella del teatro, può essere ancora piú utilmente confrontata con quella che si dà nella pittura. Qui la domanda da porre è la seguente: qual è il rapporto tra l’operatore e il pittore? Per rispondere a questa domanda ci sia consentito ricorrere a una costruzione ausiliaria fondata su un concetto di operatore derivante dalla chirurgia. Il chirurgo incarna il polo di un ordinamento, al polo opposto del quale c’è il mago. L’atteggiamento del mago, che guarisce un ammalato mediante imposizione delle mani, è diverso da quello del chirurgo, il quale intraprende invece un intervento sull’ammalato. Il mago conserva la distanza tra sé e il paziente; in termini piú precisi: la riduce – grazie all’apposizione delle sue mani – soltanto di poco e l’accresce – mediante la sua autorità – di molto. Il chirurgo procede alla rovescia: riduce la sua distanza dal paziente di molto – penetrando nel suo interno -, e l’accresce di poco – mediante la cautela con cui la sua mano si muove tra gli organi. In una parola: a differenza del mago (che ancora si nasconde anche nel medico comune), nel momento decisivo, il chirurgo rinuncia a porsi di fronte all’ammalato da uomo a uomo; piuttosto, penetra nel suo interno operativamente. Il mago e il chirurgo si comportano rispettivamente come il pittore e l’operatore. Nel suo lavoro, il pittore osserva una distanza naturale da ciò che gli è dato, l’operatore invece penetra profondamente nel tessuto dei dati[1].
Le immagini che entrambi ottengono sono enormemente diverse. Quella del pittore è totale, quella dell’operatore è multiformemente frammentata, e le sue parti si compongono secondo una legge nuova. Cosí, la rappresentazione filmica della realtà è per l’uomo odierno incomparabilmente piú significativa, poiché, precisamente sulla base della sua intensa penetrazione mediante l’apparecchiatura, gli offre quell’aspetto, libero dall’apparecchiatura, che egli può legittimamente richiedere dall’opera d’arte.
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12.
La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle masse con l’arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei confronti di un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin. Ove l’atteggiamento progressivo è contrassegnato dal fatto che il gusto del vedere e del rivivere si connette in lui immediatamente con l’atteggiamento del giudice competente.
Questa connessione è un importante indizio sociale. Infatti, quanto piú il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto piú il contegno critico e quello della mera fruizione da parte del pubblico divergono. Il convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo viene criticato con ripugnanza. Al cinema l’atteggiamento critico e quello del piacere del pubblico coincidono. Dove il fatto decisivo è questo: in nessun luogo piú che nel cinema le reazioni dei singoli, la cui somma costituisce la reazione di massa del pubblico, si rivela preliminarmente condizionata dalla loro immediata massificazione. Appena si manifestano, si controllano. Anche qui il confronto con la pittura continua a rivelarsi utile. Il dipinto ha sempre affacciato la pretesa peculiare di venir osservato da uno o da pochi.
L’osservazione simultanea da parte di un vasto pubblico, quale si delinea nel secolo XIX, è un primo sintomo della crisi della pittura, crisi che non è stata affatto suscitata dalla fotografia soltanto, bensí, in modo relativamente autonomo, attraverso la pretesa dell’opera d’arte di trovare un accesso alle masse.
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Il fatto è appunto questo, che la pittura non è in grado di proporre l’oggetto alla ricezione collettiva simultanea, cosa che invece è sempre riuscita all’architettura, che riusciva un tempo all’epopea, che riesce oggi al film. E per quanto, in sé, da questa circostanza non vadano tratte conclusioni riguardanti il ruolo sociale della pittura, nel momento in cui, in seguito a particolari circostanze e in certo modo contro la sua natura, la pittura viene messa a diretto confronto con le masse, precisamente quella circostanza agisce come una grave limitazione.
Nelle chiese e nei chiostri del Medioevo e alle corti principesche fin verso la fine del secolo XVIII, la ricezione collettiva di dipinti non avveniva simultaneamente, bensí mediatamente, secondo una complessa gradualità e secondo una gerarchia. Se questa situazione si è trasformata, in tale mutamento si esprime il particolare conflitto in cui la pittura è stata coinvolta attraverso la riproducibilità tecnica del quadro. Ma benché si cercasse di portarla di fronte alle masse, mediante le gallerie e i salon, non esisteva una via lungo la quale le masse potessero organizzare e controllare se stesse in vista di una simile ricezione[2].
Perciò lo stesso pubblico che di fronte a un film grottesco reagisce in modo progressivo, di fronte al surrealismo deve per forza diventare un pubblico retrivo.
13.
Il cinema non trova le sue caratteristiche soltanto nel modo in cui l’uomo si rappresenta di fronte all’apparecchiatura necessaria alla ripresa, ma anche nel modo in cui esso si rappresenta, con l’aiuto di quest’ultima, il mondo circostante. Un’occhiata alla psicologia della prestazione illustra la capacità dell’apparecchiatura di sottoporre l’interprete a test. Un’occhiata alla psicanalisi la illustra dal lato opposto. Infatti il cinema ha arricchito il nostro mondo degli indici di metodi che possono venir illustrati mediante la teoria freudiana. Cinquant’anni fa, un lapsus nel corso di una conversazione passava piú o meno inosservato. Il fatto che a tratti potesse dischiudere prospettive profonde nella conversazione stessa, che prima sembrava avvenire tutta in primo piano, poteva venir annoverato tra le eccezioni.
Dopo la Psicopatologia della vita quotidiana questa situazione è cambiata. Quest’opera ha isolato e reso analizzabili cose che in precedenza fluivano inavvertite dentro l’ampia corrente del percepito. Il cinema ha avuto come conseguenza un analogo approfondimento dell’appercezione su tutto l’arco del mondo della sensibilità ottica, e ora anche di quella acustica. Il fatto che le prestazioni che il film propone sono analizzabili in modo molto piú esatto e da punti di vista molto piú numerosi di quelle che si rappresentano in un dipinto o sulla scena costituisce soltanto l’altra faccia di questa situazione. Rispetto alla pittura, la maggiore analizzabilità della prestazione rappresentata nel film è determinata dalla resa incomparabilmente piú precisa della situazione. Rispetto al palcoscenico, la maggiore analizzabilità della prestazione rappresentata nel film è condizionata dalla maggiore isolabilità.
Questa circostanza, e precisamente in ciò sta il suo significato principale, comporta una tendenza a promuovere la vicendevole compenetrazione tra l’arte e la scienza. Infatti, di un atteggiamento chiaramente circoscritto nell’ambito di una determinata situazione – come di un muscolo in un corpo – è difficile dire che cosa sia piú affascinante: il suo valore artistico o la sua applicabilità scientifica. Una delle funzioni rivoluzionarie del cinema sarà quella di far riconoscere l’identità dell’utilizzazione artistica e dell’utilizzazione scientifica della fotografia, che prima in genere divergevano[3].
Mentre il cinema, mediante i primi piani di certi elementi dell’inventario, mediante l’accentuazione di certi particolari nascosti di sfondi per noi abituali, mediante l’analisi di ambienti banali, grazie alla guida geniale dell’obiettivo, aumenta da un lato la comprensione degli elementi costrittivi che governano la nostra esistenza, riesce dall’altro anche a garantirci un margine di libertà enorme e imprevisto. Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; cosí noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine. Col primo piano si dilata lo spazio, con la ripresa al rallentatore si dilata il movimento. E come l’ingrandimento non costituisce semplicemente chiarificazione di ciò che si vede comunque, benché indistintamente, poiché esso porta in luce formazioni strutturali della materia completamente nuove, cosí il rallentatore non fa apparire soltanto motivi del movimento già noti: in questi motivi noti ne scopre di completamente ignoti, «che non fanno affatto l’effetto di un rallentamento di movimenti piú rapidi, bensí quello di movimenti propriamente scivolanti, plananti, sovrannaturali»[4].
Si capisce cosí come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente.
Se di solito ci si rende conto, sia pure approssimativamente, dell’andatura della gente, certamente non si sa nulla del suo comportamento nel frammento di secondo in cui affretta il passo. Se siamo piú o meno abituati al gesto di afferrare l’accendisigari o il cucchiaio, non sappiamo pressoché nulla di ciò che effettivamente avviene tra la mano e il metallo, per non dire poi del modo in cui ciò varia in relazione agli stati d’animo in cui noi ci troviamo. Qui interviene la cinepresa coi suoi mezzi ausiliari, col suo scendere e salire, col suo interrompere e isolare, col suo ampliare e contrarre il processo, col suo ingrandire e ridurre.
Dell’inconscio ottico sappiamo qualche cosa soltanto grazie ad essa, come dell’inconscio istintivo grazie alla psicanalisi.
14.
Uno dei compiti principali dell’arte è stato da sempre quello di generare esigenze che non è in grado di soddisfare attualmente[5].
La storia di ogni forma d’arte conosce periodi critici in cui questa determinata forma mira a certi risultati, i quali potranno per forza essere ottenuti soltanto a un livello tecnico diverso, cioè attraverso una nuova forma d’arte. Le stravaganze e le prevaricazioni che da ciò conseguono, specie nelle cosiddette epoche di decadenza, procedono in realtà dal loro centro di forza storicamente piú ricco. Di simili forme barbariche brulicava ancora, recentemente, il Dadaismo. L’impulso che lo muoveva è riconoscibile soltanto oggi: il Dadaismo cercava di ottenere con i mezzi della pittura (oppure della letteratura) quegli effetti che oggi il pubblico cerca nel cinema.
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Ogni formulazione nuova, rivoluzionaria, di determinate esigenze è destinata a colpire al di là del suo bersaglio. Il Dadaismo lo fa nella misura in cui sacrifica i valori di mercato, che ineriscono al film in cosí larga misura, a favore di intenzioni di maggior rilievo – delle quali naturalmente non è consapevole nella forma che qui viene descritta. I dadaisti davano all’utilizzabilità mercantile delle loro opere un peso molto minore che non alla loro inutilizzabilità nel senso di oggetti di un rapimento contemplativo. Essi cercavano di attingere questa inutilizzabilità, non in ultima istanza mediante una radicale degradazione del loro materiale. Le loro poesie sono insalate di parole, contengono locuzioni oscene e tutti i possibili e immaginabili cascami del linguaggio. Non altrimenti i loro dipinti, dentro i quali essi montavano bottoni o biglietti ferroviari.
Ciò che essi ottengono con questi mezzi è uno spietato annientamento dell’aura dei loro prodotti, ai quali, coi mezzi della produzione, imponevano il marchio della riproduzione. Di fronte a un quadro di Arp o a una poesia di August Stramm è impossibile concedersi, come di fronte a un quadro di Derain o a una lirica di Rilke, il tempo per il raccoglimento e per un giudizio. Al rapimento, che con la decadenza della borghesia è diventato una scuola di comportamento asociale, si contrappone la diversione quale varietà di comportamento sociale[6].
Effettivamente, le manifestazioni dadaiste concedevano una diversione veramente violenta rendendo l’opera d’arte centro di uno scandalo. L’opera d’arte era chiamata principalmente a soddisfare un’esigenza: quella di suscitare la pubblica indignazione.
Coi dadaisti, dalla parvenza attraente o dalla formazione sonora capace di convincere, l’opera d’arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore.
Assunse una qualità tattile. In questo modo ha favorito l’esigenza di cinema, il cui elemento diversivo è appunto in primo luogo di ordine tattile, si fonda cioè sul mutamento dei luoghi dell’azione e delle inquadrature, che investono gli spettatori a scatti. Si confronti la tela su cui viene proiettato il film con la tela su cui si trova il dipinto. Quest’ultimo invita l’osservatore alla contemplazione; di fronte ad esso lo spettatore può abbandonarsi al flusso delle sue associazioni. Di fronte all’immagine filmica non può farlo. Non appena la coglie visivamente, essa si è già modificata. Non può venir fissata. Duhamel, che odia il cinema, che non ha capito nulla del suo significato ma ha capito parecchie cose della sua struttura, definisce questo fatto nella nota che segue: «Non sono già piú in grado di pensare quello che voglio pensare. Le immagini mobili si sono sistemate al posto del mio pensiero»[7]. Effettivamente il flusso associativo di colui che osserva queste immagini viene subito interrotto dal loro mutare. Su ciò si basa l’effetto di shock del film, che, come ogni effetto di shock esige di essere accolto con una maggiore presenza di spirito[8]. In virtú della sua struttura tecnica, il film riesce a liberare l’effetto di shock fisico, che il Dadaismo manteneva ancora impaccato, per cosí dire, nell’effetto di shock morale, da questo imballaggio[9].
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15.
La massa è una matrice dalla quale attualmente esce rinato ogni comportamento abituale nei confronti delle opere d’arte. La quantità si è ribaltata in qualità: le masse sempre piú vaste dei partecipanti hanno determinato un modo diverso di partecipazione. L’osservatore non deve lasciarsi ingannare dal fatto che questa partecipazione si manifesta dapprima in forme screditate. Eppure non sono mancati quelli che si sono pervicacemente attenuti a questo aspetto superficiale della cosa. Tra costoro Duhamel è colui che si è espresso nel
modo piú radicale. Egli riconosce al film un peculiare modo di partecipazione da parte delle masse. Egli definisce il film «un passatempo per iloti, una distrazione per creature incolte, miserabili, esaurite dal lavoro, dilaniate dalle loro preoccupazioni…, uno spettacolo che non esige alcuna concentrazione, che non presuppone la facoltà di pensare…, che non accende nessuna luce nel cuore e non suscita alcuna speranza se non quella, ridicola, di diventare un giorno, a Los Angeles, una star»[10].
È evidente che si tratta in fondo della vecchia accusa secondo cui le masse cercano soltanto distrazione, mentre l’arte esige dall’osservatore il raccoglimento. Si tratta di un luogo comune. Resta soltanto da vedere se esso costituisca un terreno utile per lo studio del cinema. È opportuno qui considerare le cose piú da vicino. La distrazione e il raccoglimento vengono contrapposti in un modo tale che consente questa formulazione: colui che si raccoglie davanti all’opera d’arte vi si sprofonda; penetra nell’opera, come racconta la leggenda di un pittore cinese alla vista della sua opera compiuta. Inversamente, la massa distratta fa sprofondare nel proprio grembo l’opera d’arte. Ciò avviene nel modo piú evidente per gli edifici.
L’architettura ha sempre fornito il prototipo di un’opera d’arte la cui ricezione avviene nella distrazione e da parte della collettività. Le leggi della sua ricezione sono le piú istruttive.
Gli edifici accompagnano l’umanità fin dalla sua preistoria. Molte forme d’arte si sono generate e poi sono morte. La tragedia nasce coi greci per estinguersi con loro e per poi rinascere dopo secoli; ma ne rinascono soltanto le regole.
L’epopea, la cui origine risale alla giovinezza dei popoli, si estingue in Europa con l’inizio del Rinascimento. La pittura su tavola è un frutto del Medioevo e nulla può garantirle una durata ininterrotta. Ma il bisogno dell’uomo di una dimora è ininterrotto. L’architettura non ha mai conosciuto pause. La sua storia è piú lunga di quella di qualsiasi altra arte; rendersi conto del suo influsso è importante per qualunque tentativo di comprendere il rapporto tra le masse e l’opera d’arte. Delle costruzioni si fruisce in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione. O, in termini piú precisi: in modo tattico e in modo ottico.
Non è possibile definire il concetto di una simile ricezione se essa viene immaginata sul tipo di quelle raccolte per esempio dai viaggiatori di fronte a costruzioni famose. Non c’è nulla, dal lato tattico che faccia da contropartita di ciò che, dal lato ottico, è costituito dalla contemplazione. La fruizione tattica non avviene tanto sul piano dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine.
Nei confronti dell’architettura, anzi, quest’ultima determina ampiamente perfino la ricezione ottica. Anch’essa, in sé, avviene molto meno attraverso un’attenta osservazione che non attraverso sguardi occasionali.
Questo genere di ricezione, che si è generata nei confronti dell’architettura ha tuttavia, in certe circostanze, un valore canonico. Poiché i compiti che in epoche di trapasso storico vengono posti all’apparato percettivo umano, non possono essere assolti per vie meramente ottiche, cioè contemplative. Se ne viene a capo a poco a poco grazie all’intervento della ricezione tattica, all’abitudine.
Anche colui che è distratto può abituarsi. Piú ancora: il fatto di essere in grado di assolvere certi compiti anche nella distrazione dimostra innanzitutto che per l’individuo in questione è diventata un’abitudine assolverli. Attraverso la distrazione, quale è offerta dall’arte, si può controllare di sottomano in che misura l’appercezione è in grado di assolvere compiti nuovi. Poiché del resto il singolo sarà sempre tentato di sottrarsi a questi compiti, l’arte affronterà quello piú difficile e piú importante quando riuscirà a mobilitare le masse.
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Attualmente essa fa questo attraverso il cinema. La ricezione nella distrazione, che si fa sentire in modo sempre piú insistente in tutti i settori dell’arte e che costituisce il sintomo di profonde modificazioni dell’appercezione, trova nel cinema lo strumento piú autentico su cui esercitarsi. Grazie al suo effetto di shock il cinema favorisce questa forma di ricezione. Il cinema svaluta il valore cultuale non soltanto inducendo il pubblico a un atteggiamento valutativo, ma anche per il fatto che al cinema l’atteggiamento valutativo non implica attenzione. Il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto.
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Postilla.
La progressiva proletarizzazione degli uomini d’oggi, e la formazione sempre crescente di masse sono due aspetti di un unico e medesimo processo. Il fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l’eliminazione. Il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti)[11]. Le masse hanno diritto a un cambiamento dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca di fornire loro una espressione nella conservazione delle stesse. Il fascismo tende conseguentemente a un’estetizzazione della vita politica. Alla violenza esercitata sulle masse, che vengono schiacciate nel culto di un duce, corrisponde la violenza da parte di un’apparecchiatura, di cui esso si serve per la produzione di valori cultuali.
Boccioni, Piatti, Marinetti, Sironi e Sant’Elia, estate 1915
Tutti gli sforzi in vista di un’estetizzazione della politica convergono verso un punto. Questo punto è la guerra. La guerra, e soltanto la guerra, permette di fornire uno scopo ai movimenti di massa di grandi proporzioni, previa conservazione dei tradizionali rapporti di proprietà. Cosí si configura questa situazione dall’angolo visuale della politica. Dall’angolo visuale della tecnica, essa si formula come segue: soltanto la guerra permette di mobilitare tutti i mezzi tecnici attuali, previa conservazione dei rapporti di proprietà. È ovvio che l’apoteosi della guerra da parte del fascismo non si serva di questi argomenti. Nonostante questo, è utile gettarvi un’occhiata. Nel manifesto di Marinetti per la guerra coloniale d’Etiopia si dice che da ventisette anni i futuristi si oppongono a che la guerra venga definita come antiestetica. Pertanto asseriscono: … la guerra è bella, perché – grazie alle maschere antigas, ai terrificanti megafoni, ai lanciafiamme ed ai piccoli carri armati – fonda il dominio dell’uomo sulla macchina soggiogata.
La guerra è bella perché inaugura la sognata metallizzazione del corpo umano. La guerra è bella, perché arricchisce un prato in fiore delle fiammanti orchidee delle mitragliatrici. La guerra è bella perché riunisce in una sinfonia il fuoco di fucili, le cannonate, le pause tra gli spari, i profumi e gli odori della decomposizione. La guerra è bella, perché crea nuove architetture, come i grandi carri armati, le geometriche squadriglie aeree spirali di fumo elevantisi da villaggi bruciati e molto altro ancora… I poeti ed artisti del futurismo… si ricordino di questi principi di un’estetica della guerra, perché da essi venga illuminata… la loro lotta per una nuova poesia e una nuova plastica![12].
Questo manifesto ha il vantaggio di essere chiaro. La sua impostazione merita di essere ripresa dal dialettico.
Per lui l’estetica della guerra attuale si presenta nel modo che segue: se l’utilizzazione naturale delle forze produttive viene frenata dall’ordinamento attuale dei rapporti di proprietà, l’espansione dei mezzi tecnici, dei ritmi di lavoro, delle fonti di energia spinge verso un’utilizzazione innaturale. Questa utilizzazione avviene nella guerra, la quale, con le sue distruzioni, fornisce la dimostrazione che la società non era sufficientemente matura per fare della tecnica un proprio organo, e che la tecnica non era sufficientemente elaborata per dominare le energie elementari della società. La guerra imperialistica è determinata in tutta la sua spaventosa fisionomia dalla discrepanza tra l’esistenza di poderosi mezzi di produzione e la insufficienza della loro utilizzazione nel processo di produzione (in altre parole, dalla disoccupazione e dalla mancanza di mercati di sbocco).
La guerra imperialistica è una ribellione della tecnica, la quale ricupera dal materiale umano le esigenze alle quali la società ha sottratto il loro materiale naturale. Invece che incanalare fiumi, essa devia la fiumana umana nel letto delle trincee, invece che utilizzare gli aeroplani per spargere le sementi, essa li usa per seminare le bombe incendiarie sopra le città; nell’uso bellico dei gas ha trovato un mezzo per distruggere l’aura in modo nuovo.
«Fiat ars – pereat mundus», dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dei dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine. Questo è il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte.
[1] Le audacie dell’operatore sono effettivamente comparabili a quelle del chirurgo. Luc Durtain, in un elenco di prodezze tecniche specificamente gestuali cita quelle «che sono necessarie nella chirurgia nel corso di certi difficili interventi. Scelgo come esempio un caso tolto dall’otorinolaringologia; alludo al cosiddetto procedimento prospettico endonasale; oppure ricorderò l’acrobatico intervento che è costretta a compiere la chirurgia della laringe, guidata dall’immagine della laringe rovesciata nello specchio; potrei parlare anche della chirurgia dell’orecchio, che ricorda il lavoro di precisione degli orologiai. Quale ricca serie di delicatissime acrobazie muscolari non è costretto a eseguire l’individuo che vuol riparare o salvare il corpo umano; si pensi anche soltanto all’operazione della cateratta, in cui il bisturi lavora su tessuti pressoché fluidi, oppure agli importantissimi interventi nella zona intestinale (laparatomia)».
[2] Questo modo di considerare le cose può apparire goffo; ma come dimostra il grande teorico Leonardo da Vinci, al momento opportuno si può far ricorso anche a considerazioni goffe. Leonardo istituisce un confronto fra la pittura e la musica: «Ma la pittura eccelle e signoreggia la musica perché essa non muore immediate dopo la sua creazione, come fa la sventurata musica […] … la musica, che si va consumando mentre ch’ella nasce, è men degna della pittura, che con vetri si fa eterna» (Trattato della pittura, parte prima, § 25, 27).
[3] Se cerchiamo un’analogia a questa situazione, ne troviamo una, molto istruttiva, nella pittura del Rinascimento. Anche qui troviamo un’arte la cui incomparabile fioritura e la cui importanza si fondano non in ultima istanza sul fatto che essa riesce a integrare tutta una serie di nuove scienze o perlomeno di nuovi dati scientifici. Essa si serve dell’anatomia e della prospettiva, della matematica e della meteorologia oltre che della teoria dei colori. «Che cosa è piú remoto da noi, – scrive Valéry, – della singolare pretesa di un Leonardo, per il quale la pittura era il fine ultimo e un’altissima dimostrazione della conoscenza, e ciò, secondo le sue convinzioni, perché esigeva l’onniscienza, mentre egli stesso non si esimeva da un’analisi teorica che noi contemporanei consideriamo sconcertati, per la sua profondità e la sua precisione!» (Paul Valéry, op. cit.,p. 191).
[4] Rudolf Arnheim, op. cit., p. 138.
[5] «L’opera d’arte, – dice André Breton, – ha valore soltanto in quanto sia traversata dai riflessi del futuro». Effettivamente ogni forma d’arte evoluta si trova nel punto d’incidenza di tre linee di sviluppo. E cioè, innanzitutto, la tecnica tende verso una determinata forma d’arte. Prima che il cinema fosse inventato c’erano certi libricini di fotografie le cui immagini, scattando di fronte all’osservatore sotto la spinta di un colpo di pollice, gli proponevano il corso di un incontro di boxe o di una partita di tennis; nei bazar c’erano macchine automatiche in cui il flusso delle immagini era ottenuto mediante il movimento di una manovella. In secondo luogo, giunte a certi stadi del loro sviluppo, le forme d’arte tradizionali tendono ad ottenere effetti che piú tardi vengono ottenuti liberamente dalla nuova forma d’arte. Prima che il cinema s’imponesse, i dadaisti cercarono nelle loro manifestazioni di suscitare nel pubblico una reazione che piú tardi un Chaplin ottenne del tutto naturalmente. In terzo luogo, spesso, impercettibili modificazioni sociali tendono a modificare la ricezione in un modo che torna poi a vantaggio soltanto della nuova forma d’arte. Prima che il cinema cominciasse a formarsi un suo pubblico, nel cosiddetto Kaiser-panorama venivano consumate, da un pubblico riunito all’uopo, immagini (che avevano già cessato di essere immobili). Questo pubblico si raccoglieva di fronte a un paravento dentro il quale erano sistemati stereoscopi, uno per ogni visitatore. Davanti a questi stereoscopi comparivano automaticamente immagini che indugiavano brevemente e che poi venivano sostituite da altre. Con mezzi analoghi lavorava ancora Edison quando (prima che si fosse inventato lo schermo e il procedimento della proiezione) mostrò la prima pellicola cinematografica a un pubblico che guardava dentro un apparecchio in cui si susseguivano le immagini. Del resto nel congegno del Kaiser-panorama si esprime con particolare chiarezza una dialettica di questo sviluppo. Poco prima che il film renda collettiva la visione delle immagini, davanti agli stereoscopi di questi stabilimenti, peraltro rapidamente tramontati, la visione delle immagini da parte del singolo riacquista la stessa pregnanza che un tempo aveva la visione della immagine del dio per il sacerdote nella cella.
[6] Il prototipo teologico di questo rapimento è la coscienza di essere soli col proprio dio. Sulla base di questa coscienza, nelle grandi epoche borghesi, si è rafforzata la capacità di liberarsi dalla tutela della chiesa. Nelle epoche di decadenza della borghesia, la stessa coscienza era destinata ad obbedire alla nascosta tendenza a sottrarre le forze che il singolo mette in opera nel suo rapporto con dio agli interessi della collettività.
[7] Georges Duhamel, Scènes de la vie future [Scene della vita futura],Paris 1930, p. 52.
[8] Il cinema è la forma d’arte che corrisponde al pericolo sempre maggiore di perdere la vita, pericolo di cui i contemporanei sono costretti a tener conto. Il bisogno di esporsi ad effetti di shock è un tentativo di adeguazione dell’uomo ai pericoli che lo minacciano. Il cinema risponde a certe profonde modificazioni del complesso appercettivo – modificazioni che nell’ambito della esistenza privata sono subite da ogni passante immerso nel traffico cittadino, e nell’ambito storico da ogni cittadino.
[9] Come dal Dadaismo, anche dal Cubismo e dal Futurismo si possono trarre importanti conclusioni a proposito del cinema. Entrambi questi movimenti appaiono come tentativi incompleti di tener conto della penetrazione nella realtà da parte della macchina. A differenza del cinema, questi movimenti intrapresero il loro tentativo non mediante l’utilizzazione dell’apparecchiatura per la rappresentazione artistica della realtà, bensí attraverso una sorta di fusione tra una realtà rappresentata e un’apparecchiatura rappresentata. Dove il ruolo preminente, nel Cubismo, è il presentimento della costruzione di questa apparecchiatura, che si basa sull’ottica; nel Futurismo il presentimento degli effetti di questa apparecchiatura, effetti che poi si manifesteranno nel rapido scorrere della pellicola cinematografica.
[10] Georges Duhamel, op. cit., p. 58.
[11] Qui, e specialmente nelle attualità cinematografiche, di cui sarà ben difficile sopravvalutare l’importanza propagandistica, è importante un fattore tecnico. Alla riproduzione in massa è particolarmente favorevole la riproduzione di masse. Nei grandi cortei, nelle adunate oceaniche, nelle manifestazioni di massa di genere sportivo e nella guerra, tutte cose che oggi vengono registrate dagli apparecchi di ripresa, la massa vede in volto se stessa. Questo processo, la cui portata non ha bisogno di essere sottolineata, è strettamente connesso con lo sviluppo della tecnica di riproduzione e di ripresa. In generale, i movimenti di massa si presentano piú chiaramente di fronte a un’apparecchiatura che non per lo sguardo. Il punto di vista migliore per cogliere schiere di migliaia di uomini è la prospettiva aerea. E anche se questa prospettiva è accessibile all’occhio quanto all’apparecchiatura, tuttavia l’immagine che l’occhio ne ricava non consente quell’ingrandimento a cui invece è sottoposta la ripresa. Ciò significa che i movimenti di massa, e cosí anche la guerra, rappresentano una forma di comportamento umano particolarmente favorevole all’apparecchiatura.