L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
-seconda parte-
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di Walter Benjamin
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4.
L’unicità dell’opera d’arte si identifica con la sua integrazione nel contesto della tradizione. È vero che questa tradizione è a sua volta qualcosa di vivente, qualcosa di straordinariamente mutevole. Un’antica statua di Venere, per esempio presso i greci, che la rendevano oggetto di culto, stava in un contesto tradizionale completamente diverso da quello in cui la ponevano i monaci medievali, che vedevano in essa un idolo maledetto.
Ma ciò che si faceva incontro sia ai primi sia ai secondi era la sua unicità, in altre parole: la sua aura. Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. Le opere d’arte piú antiche sono nate, com’è noto, al servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso. Ora, riveste un significato decisivo il fatto che questo modo di esistenza, avvolto da un’aura particolare, non possa mai staccarsi dalla sua funzione rituale[1].
In altre parole: il valore unico dell’opera d’arte autentica trova una sua fondazione nel rituale, nell’ambito del quale ha avuto il suo primo e originario valore d’uso.
Questo fondarsi, per mediato che sia, è riconoscibile, nella forma di un rituale secolarizzato, anche nelle forme piú profane del culto della bellezza[2].
Il culto profano della bellezza che si configura con il Rinascimento per poi restare valido lungo tre secoli, dà a riconoscere chiaramente quei fondamenti, una volta scaduto questo termine, al momento del primo serio scuotimento da cui sia stato colpito. Vale a dire: quando, con la nascita del primo mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario, la fotografia (contemporaneamente al delinearsi del socialismo), l’arte avvertì l’approssimarsi di quella crisi che passati altri cento anni è diventata innegabile, essa reagì con la dottrina dell’arte per l’arte, che costituisce una teologia dell’arte. Successivamente da essa è proceduta addirittura una teologia negativa nella forma dell’idea di un’arte «pura», la quale, non soltanto respinge qualsivoglia funzione sociale, ma anche qualsiasi determinazione da parte di un elemento oggettivo (Nella poesia, Mallarmé è stato il primo a raggiungere questo stadio).
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Tenere conto di queste connessioni è indispensabile per un’analisi che abbia a che fare con l’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Perché esse prefigurano una scoperta decisiva per questo ambito: la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa per la prima volta nella storia del mondo quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale. L’opera d’arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità[3]. Di una pellicola fotografica per esempio è possibile tutta una serie di stampe; la questione della stampa autentica non ha senso. Ma nell’istante in cui il criterio dell’autenticità nella produzione dell’arte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica.
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5.
La ricezione di opere d’arte avviene secondo accenti diversi, due dei quali, tra loro opposti, assumono uno specifico rilievo. Il primo di questi accenti cade sul valore cultuale, l’altro sul valore espositivo dell’opera d’arte[4].
La produzione artistica comincia con figurazioni che sono al servizio del culto. Di queste figurazioni si può ammettere che il fatto che esistano è piú importante del fatto che vengano viste. L’alce che l’uomo dell’età della pietra raffigura sulle pareti della sua caverna è uno strumento magico. Egli lo espone davanti ai suoi simili; ma prima di tutto è dedicato agli spiriti. Oggi sembra addirittura che il valore cultuale come tale induca a mantenere l’opera d’arte nascosta: certe statue degli dei sono accessibili soltanto al sacerdote nella sua cella.
Certe immagini della Madonna rimangono invisibili per quasi tutto l’anno, certe sculture dei duomi medievali non sono visibili per il visitatore che stia in basso. Con l’emancipazione di determinati esercizi artistici dall’ambito del rituale, le occasioni di esposizione dei prodotti aumentano. L’esponibilità di un ritratto a mezzo busto, che può essere inviato in qualunque luogo, è maggiore di quella della statua di un dio che ha la sua sede permanente all’interno di un tempio. L’esponibilità di una tavola è maggiore di quella del mosaico o dell’affresco che l’hanno preceduta. E se l’esponibilità di una messa per natura non era probabilmente piú ridotta di quella di una sinfonia, tuttavia la sinfonia nacque nel momento in cui la sua esponibilità prometteva di diventare maggiore di quella di una messa.
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Coi vari metodi di riproduzione tecnica dell’opera d’arte, la sua esponibilità è cresciuta in una misura cosí poderosa, che la discrepanza quantitativa tra i suoi due poli si è trasformata, analogamente a quanto è avvenuto nelle età primitive, in un cambiamento qualitativo della sua natura. E cioè: cosí come nelle età primitive, attraverso il peso assoluto del suo valore cultuale, l’opera d’arte era diventata uno strumento della magia, che in certo modo soltanto piú tardi venne riconosciuto quale opera d’arte, oggi, attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità, l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale[5].
Certo è che attualmente la fotografia, e poi il cinema, forniscono gli spunti piú fecondi per il riconoscimento di questo dato di fatto.
6.
Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale. Ma quest’ultimo non si ritira senza opporre resistenza. Occupa un’ultima trincea, che è costituita dal volto dell’uomo. Non a caso il ritratto è al centro delle prime fotografie. Nel culto del ricordo dei cari lontani o defunti il valore cultuale del quadro trova il suo ultimo rifugio. Nell’espressione fuggevole di un volto umano, dalle prime fotografie, emana per l’ultima volta l’aura. È questo che ne costituisce la malinconica e incomparabile bellezza. Ma quando l’uomo scompare dalla fotografia, per la prima volta il valore espositivo propone la propria superiorità sul valore cultuale. Il fatto di aver dato una propria sede a questo processo costituisce l’importanza incomparabile di Atget, che verso il 1900 fissò gli aspetti delle vie parigine, vuote di uomini. Molto giustamente è stato detto che egli fotografava le vie come si fotografa il luogo di un delitto. Anche il luogo di un delitto è vuoto di uomini. Viene fotografato per avere indizi. Con Atget, le riprese fotografiche cominciano a diventare documenti di prova nel processo storico. È questo che ne costituisce il nascosto carattere politico. Esse esigono già la ricezione in un senso determinato.
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La fantasticheria contemplativa liberamente divagante non si addice alla loro natura. Esse inquietano l’osservatore; egli sente che per accedervi deve cercare una strada particolare. Contemporaneamente i giornali illustrati cominciano a proporgli una segnaletica. Vera o falsa – è indifferente. In essi è diventata per la prima volta obbligatoria la didascalia. Ed è chiaro che essa ha un carattere completamente diverso dal titolo di un dipinto. Le direttive che colui che osserva le immagini in un giornale illustrato si vede impartite attraverso la didascalia, diventeranno ben presto piú precise e impellenti nel film, dove l’interpretazione di ogni singola immagine appare prescritta dalla successione di tutte quelle che sono già trascorse.
7.
La disputa, che ebbe luogo nel corso del secolo XIX, tra la pittura e la fotografia, intorno al valore artistico dei reciproci prodotti appare oggi fuori luogo e confusa. Ciò non intacca tuttavia il suo significato e anzi potrebbe anche sottolinearlo. Di fatto questa disputa era espressione di un rivolgimento di portata storica mondiale, di cui nessuno dei due contendenti era consapevole. Privando l’arte del suo fondamento cultuale, l’epoca della sua riproducibilità tecnica estinse anche e per sempre l’apparenza della sua autonomia. Ma la modificazione della funzione dell’arte, che cosí si delineava, oltrepassava il campo di visuale del secolo. E del resto sfuggí a lungo anche al secolo XX, che stava vivendo lo sviluppo del cinema.
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Se già precedentemente era stato sprecato molto acume per decidere la questione se la fotografia fosse un’arte – ma senza che ci si fosse posta la domanda preliminare: e cioè, se attraverso la scoperta della fotografia non si fosse modificato il carattere complessivo dell’arte –, i teorici del cinema ripresero ben presto questa male impostata problematica. Ma le difficoltà che la fotografia aveva procurato all’estetica tradizionale, erano un gioco per bambini in confronto con quelle che il cinema avrebbe suscitato. Da qui la cieca violenza che caratterizza gli inizi della teoria cinematografica. Cosí, per esempio, Abel Gance paragona il film ai geroglifici: «E cosí, in seguito a un ritorno, estremamente singolare, a ciò che è già stato, ci ritroviamo sul piano espressivo degli egiziani… Il linguaggio delle immagini non è ancora giunto alla sua maturità, perché il nostro occhio non è ancora alla sua altezza. Non c’è ancora una sufficiente considerazione, non c’è ancora un culto sufficiente per ciò che in esso si esprime»[6]. Oppure scrive Séverin-Mars: «A quale arte era serbato un sogno, che… potesse essere piú poetico e piú reale insieme! Considerato da questo punto di vista, il cinema rappresenterebbe un mezzo d’espressione assolutamente incomparabile, e nella sua atmosfera dovrebbero muoversi soltanto persone dalla mentalità nobilissima e negli attimi piú perfetti e piú misteriosi della loro vita»[7]. Alexandre Arnoux, dal canto suo, conclude una fantasia sopra il cinema muto addirittura con questa domanda: «Tutte le audaci descrizioni, di cui cosí ci siamo serviti, non tendono per caso a una definizione della preghiera?»[8].
È molto istruttivo osservare come lo sforzo di far rientrare il cinema nell’arte costringa tutti questi teorici ad attribuirgli, con una pervicacia senza precedenti, quegli elementi cultuali che non ha. Eppure, all’epoca in cui venivano pubblicate queste elucubrazioni, esistevano già opere come Una donna di Parigi e La febbre dell’oro.
Ciò non impedisce ad Abel Gance di ricorrere alla comparazione con i geroglifici, e Severin-Mars parla del cinema come si potrebbe parlare delle pitture del Beato Angelico. È caratteristico che, anche oggi, specialmente certi autori reazionari cerchino il significato del film nella stessa direzione; se non addirittura nel sacrale, perlomeno nel sovrannaturale. In occasione della riduzione cinematografica, ad opera di Reinhardt, del Sogno di una notte d’estate, Werfel afferma che indubbiamente, a bloccare l’accesso del film al regno dell’arte è la sterile copia del mondo esterno, con le sue strade, i suoi interni, le sue stazioni, ristoranti, macchine, spiagge. «Il film non ha ancora percepito il suo vero senso, le sue reali possibilità…
Esse consistono nella possibilità che gli è peculiare di portare all’espressione con mezzi naturali e con una capacità di convincimento assolutamente incomparabile ciò che è magico, meraviglioso, sovrannaturale»[9].
8.
La prestazione artistica dell’interprete teatrale viene presentata definitivamente al pubblico da lui stesso in prima persona; la prestazione artistica dell’attore cinematografico viene invece presentata attraverso un’apparecchiatura. Quest’ultimo elemento ha due conseguenze diverse.
L’apparecchiatura che propone al pubblico la prestazione dell’interprete cinematografico non è tenuta a rispettare questa prestazione nella sua totalità. Manovrata dall’operatore, essa prende costantemente posizione nei confronti della prestazione stessa.
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La serie di prese di posizione che l’autore del montaggio compone sulla base del materiale che gli viene fornito costituisce il film definitivo. Esso abbraccia una serie di momenti di un movimento, che vanno riconosciuti come movimenti della cinepresa – per non parlare poi delle riprese che rivestono un carattere particolare, come i primi piani. Cosí la prestazione dell’interprete viene sottoposta a una serie di test ottici. È questa la prima conseguenza del fatto che la prestazione dell’interprete cinematografico viene mostrata mediante l’apparecchiatura. La seconda conseguenza dipende dal fatto che l’interprete cinematografico, poiché non presenta direttamente al pubblico la sua prestazione, perde la possibilità, riservata all’attore di teatro, di adeguare la sua interpretazione al pubblico durante lo spettacolo. Il pubblico viene cosí a trovarsi nella posizione di chi è chiamato a esprimere una valutazione senza poter essere turbato da alcun contatto personale con l’interprete.
Il pubblico s’immedesima all’interprete soltanto immedesimandosi all’apparecchio. Ne assume quindi l’atteggiamento: fa un test[10]. Non è, questo, un atteggiamento a cui possano venir sottoposti dei valori cultuali.
9.
Al film importa non tanto che l’interprete presenti al pubblico un’altra persona, quanto che egli presenti se stesso di fronte all’apparecchiatura. Uno dei primi che abbia avvertito questa trasformazione dell’interprete in seguito a un tipo di prestazione fondata sul test è stato Pirandello. Il fatto che le osservazioni su questo argomento, contenute nel suo romanzo Si gira …, si limitino a rilevare l’aspetto negativo della cosa, non ne riduce molto l’importanza. Meno ancora il fatto di riferirsi soltanto al cinema muto. Perché per questo riguardo, il sonoro non ha recato nessuna modificazione sostanziale. Decisivo rimane che si recita per un’apparecchiatura – o, nel caso del film sonoro, per due.
«Qua, – scrive Pirandello degli attori cinematografici, – si sentono come in esilio. In esilio non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela dei cinematografi, non c’è piú: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di votamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore ch’esso produce movendosi, per diventare soltanto un’immagine muta, che tremola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela… Pensa la macchinetta alla rappresentazione innanzi al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di rappresentare innanzi a lei»[11]. Questo stato di cose può essere definito anche come segue: per la prima volta – ed è questo l’effetto del film – l’uomo viene a trovarsi nella situazione di dover agire sí con la sua intera persona vivente, ma rinunciando all’aura. Poiché la sua aura è legata al suo hic et nunc.
L’aura che sul palcoscenico circonda Macbeth non può venir distinta da quella che per il pubblico vivente avvolge l’attore che lo interpreta. La peculiarità delle riprese negli studi cinematografici consiste però in questo, che esse pongono l’apparecchiatura al posto del pubblico. L’aura che circonda l’interprete deve così venir meno – e con ciò deve venir meno anche quella che circonda il personaggio interpretato.
Il fatto che proprio un drammaturgo come Pirandello intravveda involontariamente nelle caratteristiche del cinema la ragione della crisi da cui vediamo investito il teatro non è sorprendente. Dell’opera d’arte che è affidata senza residui alla riproduzione tecnica, e anzi – come il film – che da quest’ultima procede, non c’è di fatto una contrapposizione piú netta di quella costituita dallo spettacolo teatrale. Qualsiasi analisi esauriente della cosa lo conferma. Da tempo gli studiosi specializzati hanno riconosciuto che nello spettacolo cinematografico «si ottengono quasi sempre i maggiori risultati quando si recita il meno possibile… Lo sviluppo piú recente» è definito nel 1932 da Arnheim come un modo di fare che «tratta l’attore alla stregua di un attrezzo, che viene scelto in base a determinate caratteristiche e… sistemato al posto giusto»[12]. A ciò va connesso intimamente un altro elemento. L’attore che agisce sul palcoscenico, si identifica in una parte. Ciò è spessissimo negato all’interprete cinematografico.
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La sua prestazione non è mai unitaria, è bensí composta di numerose singole prestazioni. Accanto alle considerazioni casuali attinenti l’affitto degli studi, la disponibilità dei partner, la scenografia, eccetera, a scomporre la recitazione dell’interprete in una serie di episodi montabili sono le necessità elementari dell’apparecchiatura. Si tratta in particolare della illuminazione, la cui installazione costringe a ridurre a una serie di singole riprese, che talora negli studi durano ore, la rappresentazione di un’azione che poi sullo schermo appare come una sequenza rapida e unitaria. Per non parlare poi di montaggi ancora piú manifesti. Cosí, per esempio, nello studio un salto dalla finestra può venir girato nella forma di un salto da un’intelaiatura, ma poi, in dati casi, la fuga che segue a questo salto può venir girata a distanza di settimane nel corso di una ripresa in esterni. E del resto sarebbe facile escogitare casi ancora piú vistosamente paradossali. All’interprete può venir imposto di trasalire in seguito a un colpo bussato alla porta. È possibile che questo trasalimento non venga eseguito secondo quanto è desiderato. Allora il regista può ricorrere all’espediente, una volta che l’interprete si trovi di nuovo nello studio, di fargli sparare alle spalle, senza che egli lo sappia, un colpo d’arma da fuoco. Lo spavento dell’interprete può venir ripreso istantaneamente e poi venir montato nel film. Nulla mostra in modo piú drastico come l’arte sia sfuggita al regno della bella apparenza, cioè a quel regno che per tanto tempo è stato considerato l’unico in cui essa potesse fiorire.
10.
Il senso di disagio dell’interprete di fronte all’apparecchiatura, cosí come viene descritto da Pirandello, è in sé della stessa specie del senso di disagio dell’uomo di fronte alla sua immagine nello specchio. Ora, l’immagine speculare può essere staccata da lui, è diventata trasportabile.
Dove viene trasportata? Davanti al pubblico[13].
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La consapevolezza di ciò non abbandona mai, nemmeno per un istante, l’interprete. Mentre si trova davanti all’apparecchiatura, l’interprete cinematografico sa che in ultima istanza ha a che fare col pubblico: col pubblico degli acquirenti, che costituiscono il mercato. Questo mercato, nel quale egli viene immesso, non soltanto con la sua forza lavoro, ma anche con la sua pelle e i suoi capelli, col cuore e coi reni, nel momento della prestazione che è chiamato a fornire gli è inaccessibile quanto un articolo qualunque prodotto in una fabbrica. Questa circostanza, come potrebbe non contribuire all’imbarazzo, a quella nuova angoscia che secondo Pirandello si impadroniscono dell’interprete di fronte all’apparecchiatura? Il cinema risponde al declino dell’aura costruendo artificiosamente la personality fuori dagli studi: il culto del divo, promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce. Fintanto che a dettare la legge è il capitale cinematografico, non si potrà in generale attribuire al cinema odierno un merito rivoluzionario che non sia quello di promuovere una critica rivoluzionaria della nozione tradizionale di arte. Non neghiamo cosí che il cinema odierno possa poi, in casi particolari, promuovere una critica rivoluzionaria dei rapporti sociali o addirittura degli ordinamenti della proprietà. Ma il centro di gravità della presente ricerca non cade su questo elemento, cosí come non vi cade quello della produzione cinematografica europea occidentale.
La tecnica del film, esattamente come la tecnica sportiva, implicano che chiunque assiste alle prestazioni che esse rappresentano assume le vesti di un semispecialista.
Basta aver sentito anche soltanto una volta un gruppo di giovani strilloni di giornali discutere, appoggiati alle loro biciclette, i risultati di una competizione ciclistica per giungere alla comprensione di questo stato di fatto.
Non per nulla gli editori di giornali organizzano competizioni tra i loro giovani strilloni. Esse suscitano un estremo interesse tra i partecipanti. Poiché in queste competizioni il vincitore vede aprirsi la possibilità di passare da strillone a corridore. Cosí l’attualità cinematografica fornisce a ciascuno la possibilità di trasformarsi da passante in comparsa cinematografica. In certicasi può addirittura vedersi immesso – e si pensi a Tre canti su Lenin di Vertov o a Borinage di Ivens – in un’opera d’arte. Ogni uomo contemporaneo può avanzare la pretesa di venir filmato. Per intendere questa pretesa basta gettare uno sguardo all’attuale situazione storica dell’attività letteraria.
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Per secoli, nell’ambito dello scrivere, la situazione era la seguente: che un numero limitato di persone dedite allo scrivere stava di fronte a numerose migliaia di lettori. Verso la fine del secolo scorso, questa situazione si trasformò. Con la crescente espansione della stampa, che metteva a disposizione del pubblico dei lettori sempre nuovi organi politici, religiosi, scientifici, professionali, locali, gruppi sempre piú cospicui di lettori passarono – dapprima casualmente – dalla parte di coloro che scrivono. Il fenomeno cominciò quando la stampa quotidiana aprí loro la propria rubrica delle «lettere al direttore»; oggi è ben difficile che ci sia un europeo partecipe del processo di produzione che non abbia per principio l’occasione di pubblicare da qualche parte un’esperienza di lavoro, una denuncia, un reportage e simili. Con questo la distinzione tra autore e pubblico è in procinto di perdere il suo carattere sostanziale. Diventa semplicemente funzionale, e funziona in modo diverso a seconda dei casi. Il lettore è sempre pronto a diventare autore. In quanto competente di qualcosa, poiché volente o nolente lo è diventato nell’ambito di un processo lavorativo estremamente specializzato – e sia pure anche soltanto in quanto competente di una funzione irrisoria – ha accesso alla schiera degli autori.
Nell’Unione Sovietica è il lavoro stesso che si esprime. La sua rappresentazione mediante la parola costituisce una parte di quelle capacità che sono necessarie alla sua esecuzione. La competenza letteraria non viene piú raggiunta attraverso una preparazione specializzata, bensí attraverso quella politecnica, e diventa cosí dominio pubblico[14].
Tutto questo può venir trasposto senz’altro al cinema, nel cui campo, certi spostamenti, che in quello letterario hanno richiesto secoli, avvengono nel giro di un anno. Poiché nella prassi cinematografica – specialmente in quella russa – questi spostamenti sono già stati in parte realizzati. Una parte degli interpreti del cinema russo non sono interpreti nel senso nostro, bensí persone che interpretano se stesse – in primo luogo nel loro processo lavorativo. Nell’Europa occidentale lo sfruttamento capitalistico del cinema impedisce di prendere in considerazione la legittima pretesa dell’uomo odierno di essere riprodotto. In questa situazione, l’industria cinematografica ha tutto l’interesse a imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, la partecipazione delle masse.
[1] Definire l’aura un’«apparizione unica di una distanza, per quanto questa possa essere vicina» non significa altro che formulare, usando i termini delle categorie della percezione spazio-temporale, il valore cultuale dell’opera d’arte. La distanza è il contrario della vicinanza.
Ciò che è sostanzialmente lontano è l’inavvicinabile. Di fatto l’inavvicinabilità è una delle qualità principali dell’immagine cultuale. Essa rimane, per sua natura, «lontananza, per quanto vicina». La vicinanza che si può strappare alla sua materia non elimina la lontananza che essa conserva dopo il suo apparire.
[2] Nella misura in cui il valore cultuale del quadro si secolarizza, le rappresentazioni del substrato della sua unicità diventano piú indeterminate. Nell’appercezione del fruitore l’irripetibilità delle immagini, che appaiono nell’opera cultuale, viene sempre piú sostituita dalla unicità empirica dell’esecutore o della sua esecuzione. Certo, ciò non avviene mai senza residui; il concetto di irripetibilità non cessa mai di tendere oltre quello dell’attribuzione autentica. (Ciò si rivela con particolare evidenza nella persona del collezionista, il quale conserva sempre alcuni tratti caratteristici del servo di un feticcio e che, attraverso il possesso dell’opera d’arte, partecipa alla virtú cultuale di questa). Fermo restando tutto ciò, la funzione del concetto di autenticità nella considerazione dell’arte rimane univoco; con la secolarizzazione dell’arte, l’autenticità si pone al posto del valore cultuale.
[3] Nel caso delle opere cinematografiche la riproducibilità tecnica del prodotto non è, come per esempio nel caso delle opere letterarie o dei dipinti, una condizione di origine esterna della loro diffusione tra le masse. La riproducibilità tecnica dei film si fonda immediatamente nella tecnica della loro produzione. Questa non soltanto permette immediatamente la diffusione in massa delle opere cinematografiche:piuttosto, addirittura la impone. La impone poiché la produzione di un film è così cara che un singolo in grado di possedere un dipinto, non è in grado di possedere un film. Nel 1927 si è calcolato che un film impegnativo, per diventare redditizio, doveva raggiungere un pubblico di nove milioni di persone. Col film sonoro si è manifestata una tendenza inversa; il suo pubblico venne a trovarsi limitato dai confini linguistici, e ciò avvenne contemporaneamente all’accentuazione degli interessi nazionali da parte del fascismo. Piú che registrare questa recessione, che peraltro venne subito attenuata mediante la sincronizzazione, è importante considerare il suo nesso col fascismo. La contemporaneità dei due fenomeni si basa sulla crisi economica. Le stesse perturbazioni che, viste nel loro complesso, hanno portato al tentativo di conservare con l’uso aperto della forza i rapporti di proprietà costituiti, hanno indotto il capitale cinematografico ad accelerare i lavori preliminari per la produzione di film sonori. L’avvento del film sonoro produsse un temporaneo sollievo. E ciò non soltanto perché il film sonoro indusse di nuovo le masse ad andare al cinema, ma anche perché esso stabilì la solidarietà di nuovi capitali, che venivano dall’industria elettrica, col capitale cinematografico.
Così, visto dall’esterno, il cinema sonoro ha promosso gli interessi nazionali, ma visto dall’interno ha internazionalizzato ancora di più la produzione cinematografica.
[4] Questa polarità non può venir riconosciuta dall’estetica dell’idealismo, il cui concetto di bellezza in fondo la definisce come indistinta (e coerentemente la esclude in quanto distinta). Tuttavia, in Hegel essa si annuncia con la chiarezza maggiore possibile nei limiti dell’idealismo. Nelle Lezioni sulla filosofia della storia si legge: «I dipinti si avevano già da tempo: la religiosità ne aveva bisogno per la devozione, ma non aveva bisogno di dipinti belli, anzi questi ultimi erano perfino fastidiosi. Nel dipinto bello è presente anche un che di esterno, ma nella misura in cui è bello, il suo spirito si rivolge all’uomo; ma in quella devozione, essenziale è il rapporto con una cosa, poiché essa stessa non è altro che un oscurarsi, privo di spirito, dell’anima… L’arte bella è… sorta nella chiesa stessa… benché… l’arte sia già cosí uscita dal principio dell’arte» (Georg Friedrich Wilhelm Hegel, Werke, Berlin und Leipzig 1832 sgg., vol. IX, p. 414). Anche in un passo delle Lezioni di estetica Hegel ha avvertito il problema. In questo passo si dice: «Noi abbiamo oltrepassato lo stadio in cui si onorano e si rivolgono preghiere alle opere d’arte; l’impressione che esse suscitano è di un genere piú riflesso, e ciò che attraverso queste opere viene suscitato in noi richiede ancora una pietra di paragone piú alta» (ibid., vol.X, p. 14).
Il passaggio dal primo genere di ricezione artistica al secondo determina l’evoluzione storica della ricezione artistica in generale. A prescindere da ciò, è possibile reperire in linea di principio una certa oscillazione, per ogni opera d’arte, tra quei due modi polari di ricezione artistica. Cosí, ad esempio, per la Madonna Sistina.
A partire dalla ricerca di Hubert Grimme si sa che la Madonna Sistina era stata originariamente dipinta per essere esposta. Grimme fu indotto alle sue ricerche da questa domanda: che cosa significa l’asse in primo piano, su cui si appoggiano i due putti? Come può essere venuta a Raffaello l’idea, si domandò inoltre Grimme, di munire il cielo di due tendine?
La ricerca dimostrò che la Madonna Sistina era stata commissionata in occasione dell’esposizione in pubblico della salma di papa Sisto. L’esposizione della salma dei papi avveniva in una certa cappella laterale della basilica di San Pietro. Il quadro di Raffaello era stato esposto posato sulla bara in questa solenne occasione, sullo sfondo a nicchia della cappella. Raffaello rappresenta nel quadro la Madonna che, uscendo dallo sfondo della nicchia delimitata da due cortine verdi, si avvicina, in mezzo alle nubi, alla bara del papa. Quindi l’alto valore espositivo del dipinto di Raffaello venne utilizzato in occasione della cerimonia funebre in onore di Sisto V. Dopo qualche tempo esso venne sistemato sull’altar maggiore della cappella del convento dei Frati Neri a Piacenza. La causa di questo esilio va reperita nel rituale romano. Il rituale romano vieta che i dipinti esposti in occasione di una cerimonia funebre diventino oggetto di culto su un altar maggiore. Cosí, in seguito a questa norma, entro certi limiti l’opera di Raffaello subiva una svalutazione. Tuttavia, per ottenere un prezzo adeguato, la curia si decise a vendere e a tollerare tacitamente il quadro su un altar maggiore. Per evitare commenti il quadro venne ceduto al convento della lontana città di provincia.
[5] Riflessioni analoghe, anche se su un altro piano, sono quelle di Brecht: «Se il concetto di opera d’arte diventa inutilizzabile per definire la cosa che si ha quando l’opera d’arte si è trasformata in merce, allora, con prudenza e cautela ma senza alcun timore, dobbiamo lasciar perdere questo concetto, se insieme non vogliamo liquidare anche la funzione della cosa stessa, poiché attraverso questa fase deve passare,e senza riserve; non si tratta di una deviazione irrilevante dalla retta via; bensí: ciò che cosí avviene la modificherà radicalmente, estinguerà il suo passato, a un punto tale che qualora il vecchio concetto dovesse venir ripreso – e lo sarà, perché no? – non susciterà piú alcun ricordo della cosa che un tempo designava» (Bertolt Brecht, Der Dreigroschenprozess [ Il processo da tre soldi], ripreso in Versuche 1-4 [ Saggi 1-4], Berlin und Frankfurt a. M. 1959, p. 295).
[6] Abel Gance, Le temps de l’image est venu (L’art cinématographique, II, Paris 1927, pp. 100-1).
[7] Séverin-Mars, citato da Abel Gance (op. cit.,p. 100).
[8] Alexandre Arnoux, Cinéma, Paris 1929, p. 28.
[9] Franz Werfel, Ein Sommernachtstraum. Ein Film nach Shakespeare von Reinhardt [Sogno di una notte di mezza estate. Un film di Reinhardt da Shakespeare], «Neues Wiener Journal», citato in LU 15 novembre 1935.
[10] «Il film… dà (o potrebbe dare): informazioni utilizzabili sulle azioni umane nei loro particolari… Vien meno ogni motivazione sulla base del carattere, la vita interiore dei personaggi non costituisce mai la causa principale ed è di rado il risultato principale dell’azione» (Bertolt Brecht, op. cit.,p. 257). L’ampliamento del campo di ciò che è certificabile mediante test, ampliamento che l’apparecchiatura realizza nella persona dell’interprete cinematografico, corrisponde allo straordinario ampliamento del campo del certificabile mediante test, intervenuto, per l’individuo, in conseguenza delle circostanze economiche.
Cosí cresce costantemente l’importanza delle prove volte a stabilire le attitudini professionali. In queste prove professionali si verificano frammenti della prestazione dell’individuo. La ripresa cinematografica e la prova di attitudine professionale nascono dallo stesso grembo, costituito dagli esperti. Il direttore di scena negli studi cinematografici occupa esattamente la stessa posizione che nelle prove professionali è occupata dal direttore dell’esperimento.
[11] Luigi Pirandello, On tourne, citato da Léon Pierre-Quint, Signification du Cinéma [Significato del cinema]. In L’art cinématographique, II, Paris 1927, pp. 14-15. [L. P., Si gira…, Milano 1916, pp., 93-94].
[12] Rudolf Arnheim, Film als Kunst [Il cinema come arte], Berlin 1932, pp. 176-77. Certi particolari, apparentemente accessori, attraverso i quali il regista cinematografico si allontana dalle pratiche della scena, assumono in questo contesto un notevole interesse. Cosí, per esempio, il tentativo di far recitare l’interprete senza trucco, come ha fatto Dreyer nella Giovanna d’Arco.
Dreyer impiegò mesi soltanto per trovare i quaranta attori che avrebbero composto il tribunale. La ricerca di questi attori assomigliava a una ricerca di determinati attrezzi difficilmente ottenibili. Dreyer cercò con estrema cura di evitare le somiglianze di età, di statura, di fisionomia. Se l’attore diventa un attrezzo, non di rado, d’altra parte, l’attrezzo funge da attore. O, in ogni modo, non è affatto inconsueto che il cinema attribuisca un ruolo all’attrezzo. Invece che ricorrere ad alcuni esempi tratti da una serie che potrebbe essere infinita, ci atteniamo a uno che ha una particolare forza dimostrativa. Un orologio in funzione sulla scena disturberà sempre. Sulla scena non è possibile attribuirgli il suo ruolo, che è quello di misurare il tempo. Anche in un dramma naturalistico, il tempo astronomico verrebbe a scontrarsi col tempo scenico. Nello stesso tempo è estremamente caratteristico del cinema il fatto che in certi casi esso possa ricorrere alla misurazione del tempo. Questo esempio mostra piú chiaramente di altri come, in certe circostanze, ogni singolo attrezzo possa assumere nel cinema una funzione decisiva. C’è solo un passo da qui alla constatazione di Pudovkin, secondo cui «la recitazione dell’interprete connessa con un oggetto o basata su di esso è… sempre uno dei metodi piú efficaci della rappresentazione filmica» (V. Pudovkin, Filmregie und Filmmanuskript [Regia cinematografica e sceneggiatura], Berlin 1928, p. 126), Cosí il cinema è il primo mezzo artistico in grado di mostrare come la materia agisca insieme con l’uomo. Per questa ragione può essere uno strumento insostituibile della rappresentazione materialistica.
[13] La modificazione, qui constatata, del modo di esposizione attraverso la tecnica riproduttiva, si fa sentire anche nella politica. L’attuale crisi delle democrazie borghesi implica una crisi delle condizioni determinanti per l’esposizione di coloro che governano. Le democrazie espongono colui che governa immediatamente, con la sua persona, e lo espongono di fronte ai rappresentanti del popolo. Il parlamento è il suo pubblico! Con le innovazioni delle apparecchiature di ripresa, che permettono di far sentire, e poco dopo di far vedere, l’oratore a un numero illimitato di spettatori, l’esposizione dell’uomo politico di fronte a queste apparecchiature di ripresa assume un ruolo di primo piano. Si svuotano i parlamenti, contemporaneamente ai teatri. La radio e il cinema modificano non soltanto la funzione dell’interprete professionista ma anche, e allo stesso titolo, quella di coloro che, come i governanti interpretano se stessi. L’orientamento di questa modificazione è lo stesso, a parte i diversi compiti particolari, per l’interprete cinematografico e per colui che governa. Esso persegue la produzione di prestazioni verificabili, anzi adottabili, in determinate condizioni sociali. Ciò ha come risultato una nuova selezione, una selezione che avviene di fronte all’apparecchiatura; da questa selezione escono vincitori il divo e il dittatore.
[14] Il carattere privilegiato delle tecniche in questione va perduto. Aldous Huxley scrive: «I progressi tecnici hanno… portato alla volgarità… la riproducibilità tecnica e la stampa in rotocalco hanno reso possibile una moltiplicazione illimitata degli scritti e delle immagini. L’istruzione scolastica generale e gli stipendi relativamente alti hanno creato un pubblico molto largo che è capace di leggere e che è in grado di procurarsi oggetti di lettura e materiale illustrativo. Per produrre tutto ciò si è creata un’importante industria. Ora, però, le doti artistiche sono qualcosa di molto raro; da ciò consegue… che in ogni epoca e in ogni luogo la maggior parte della produzione artistica è sempre stata sca- dente. Oggi tuttavia la percentuale degli scarti nella produzione artistica complessiva è maggiore di quanto sia mai stata… Ci troviamo di fronte a una relazione aritmetica semplice. Nel corso del secolo scorso la popolazione dell’Europa occidentale è aumentata di piú del doppio.
Ma il materiale letterario e figurativo è aumentato, a quanto mi è dato valutare, in una proporzione che va da 1 a 20, e forse anche 50 o 100.
Se una popolazione di x milioni possiede n talenti artistici, una popolazione di 2x milioni avrà 2n talenti artistici. Ora, la situazione può essere descritta nel modo che segue. Se cento anni fa si pubblicava una pagina a stampa occupata da materiale letterario e da illustrazioni, oggi se ne stampano venti se non cento. Se d’altra parte, cento anni fa esisteva un talento artistico, oggi ne esistono due. Ammetto che, in seguito all’istruzione scolastica generale, oggi possono diventare produttivi parecchi talenti virtuali che un tempo non sarebbero riusciti a sviluppare le loro doti. Poniamo dunque… che oggi ci siano tre o quattro talenti artistici di contro a quell’uno di un tempo. Resta tuttavia indubbio che il consumo di materiale letterario e figurativo ha superato di molto la naturale produzione di scrittori e di disegnatori dotati. Non diversa è la situazione a proposito del materiale sonoro. La prosperità, il grammofono e la radio hanno suscitato un pubblico che consuma in modo del tutto sproporzionato rispetto all’incremento della popolazione e quindi al naturale aumento di musicisti di talento. Risulta cosí come in tutte le arti, in senso assoluto come in senso relativo, la produzione di scarti sia maggiore di quanto fosse un tempo; e cosí sarà fintanto che la gente continuerà a praticare un consumo sproporzionato di materiale letterario, illustrativo e sonoro» (Aldous Huxley, Croisière d’hiver enAmérique Centrale [Crociera d’inverno nell’America Centrale],Paris, pp.273 sgg.). Evidentemente questo modo di vedere non è progressista.
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