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di Nora Helmer
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«É anzi mia opinione che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale.»
(Hannah Arendt : lettera a Gershom Scholem)
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Ieri sera ho visto il film Hannah Arendt di Margarethe Von Trotta. Due momenti del film mi sono rimasti impressi nella mente: la difesa davanti agli studenti del libero pensiero, e la sua risposta all’amico morente che la incolpava di non amare “il suo popolo”: cito a memoria, “io amo i miei amici, quelli che mi amano”.
Come racconta il film della Von Trotta, Hannah Arendt fu molto criticata sia per la coraggiosa scelta di pubblicare ciò che venne fuori al processo al colonnello nazista Adolf Eichmann, sia per aver messo in primo piano il proprio pensiero e non un fantomatico pensiero ebreo o sionista che dir si voglia.
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La filosofa tedesca saputo del rapimento del nazista Adolf Eichmann, e del processo che si stava istruendo contro di lui in Israele, chiese ed ottenne dal “New Yorker”, di poter seguire il dibattito processuale e di scriverne il resoconto. Per la sua interpretazione del processo, apparsa sul giornale e poi il libro che seguì, Arendt subì un vero e proprio linciaggio da parte dell’opinione pubblica. Fu giudicata aspramente dalla comunità ebraica anche perché divulgò la verità sul ruolo svolto dai consigli ebraici durante le deportazioni: la compilazione e la consegna, su richiesta della Gestapo, di elenchi di correligionari che di volta in volta venivano invitati a presentarsi nelle caserme per poi venire inviati nei campi di sterminio. Se si fossero ribellati, secondo la scrittrice, qualche milione di ebrei si sarebbero salvati.
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Nonostante le minacce, anche da parte dei servizi segreti israeliani, e il rischio di venire estromessa dall’insegnamento, Hannah Arendt non ritrattò le proprie idee: Eichmann non era pazzo né stupido, semplicemente non aveva un pensiero umano. Non era certo un uomo privo di raziocinio, per anni aveva organizzato in modo ossessivo spostamenti di masse di ebrei da un capo all’altro dall’Europa coordinandosi con uffici di vari livelli nella complicata burocrazia nazista. Fu sempre puntuale e rigoroso nello svolgere il proprio dovere. Eichmann secondo la filosofa aveva “una razionalità senza pensiero”.
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Nel film ci sono le riprese originali del processo e ho visto un omuncolo senza spina dorsale ripetere all’infinito “io non sono responsabile, obbedivo solamente agli ordini. Tener fede al giuramento fatto a Hitler era la cosa più importante. Il resto è poca cosa a confronto” .
Al di là del dato sensoriale, è questo omuncolo inumano che vede Hannah Arendt. Ed è qusto che scrive perché, al contrario degli altri, il suo pensiero sa descrivere verbalmente la realtà disumana del nazista.
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Al contrario degli altri lei vuole capire, perché il suo pensiero è il suo e non “il pensiero del popolo ebreo”. Anche perché il pensiero del popolo ebreo, come il pensiero tedesco o italiano o cattolico o mussulmano non esiste. Così come non esiste l’amore per il proprio popolo, per la propria patria o per la propria religione, o per il proprio dio. Esiste l’amore o l’odio per chi si ama e per chi si odia. Esistono gli affetti, quelli veri legati al sentire del corpo, il resto sono solo costruzioni culturali. Costruzioni culturali che quando prendono il sopravvento causano stragi, attentati contro innocenti, genocidi. Chi aliena la propria identità umana in un’identità d’appartenenza religiosa, etnica, religiosa, o peggio razziale, credendosi investito dalla grazia divina, da un patto con un dio maggiore, poi deve credere anche di non poter tradire lo “spirito del popolo” e i tiranni che lo incarnano e lo sanno portare a compimento.
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La tesi della filosofa sono ancora esplosive «io stessa – disse la Von Trotta in un’intervista – ho potuto recepirle appieno solo dopo la caduta del Muro di Berlino» e questo perché sono insopportabili per la cultura che di fronte a un criminale eccezionale si sente rassicurata perché è un fatto eccezionale. Ciò che invece sgomenta gli “allineati” è il nucleo anti identità di appartenenza del pensiero di Arendt. Identità fasulla di chi si inginocchia alla “certezza dell’appartenenza” e poco gli importa interpretare i fatti con il proprio pensiero.
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anna
1 Febbraio 2015 @ 15:52
sono contenta che ti sia intressato a questo film, ch secondo me è denso di temi. Sfuma, ma sta di sottofondo anche la sua storia con Hedigger. La Von Trotta si pone in qualche modo una domanda, ma resta sospesa.
C’è il sogno di suo padre, una traccia, da seguire…Cncordo sulla tua riflessione, in merito al film, e al coraggio della Arendt di aver tentao una ricerca…quell’assenza di pensiero umano, che è la ragione che porta a dire dell’essere dell’uomo come se fosse “superfluo”e quindi può essere eliminato..e di aver sfidato anche l’opinione pubblica ebraica..
Insomma, io l’ho trovato interessante.
Un saluto caro.
Redazione
1 Febbraio 2015 @ 16:52
Si sono d’accordo su tutto , al contrario di molti altri ha tentato una ricerca senza ideologie, ed è arrivata fino a un certo punto … ma d’altronde la scoperta della pulsione non era stata ancora scoperta
Un abbraccio
Gian Carlo