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Capitolo IV
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Il giorno seguente il fantasma si sentì molto debole e stanco. La tremenda eccitazione di quelle ultime quattro settimane incominciava a produrre i suoi effetti. Aveva i nervi terribilmente scossi e trasaliva al minimo rumore. Si barricò in camera sua per cinque giorni consecutivi e alla fine decise di rinunciare al puntiglio della macchia di sangue sul pavimento della biblioteca. Dopo tutto, se la famiglia Otis non ne voleva sapere, era segno che non se la meritava. Si trattava chiaramente di individui appartenenti a un piano di esistenza basso e materialistico, del tutto incapaci di apprezzare il valore simbolico dei fenomeni sensibili. La questione delle apparizioni spettrali e lo sviluppo dei corpi astrali era, si capisce, una faccenda completamente diversa che sfuggiva al suo controllo. Era suo preciso dovere apparire nel corridoio una volta la settimana e borbottare parole sconnesse presso il grande finestrone, il primo e il terzo mercoledì di ogni mese, e non vedeva come avrebbe potuto onorevolmente sottrarsi a questi obblighi. Era verissimo che la sua era stata una vita malvagia, ma in tutte le cose attinenti al soprannaturale era di una coscienziosità estrema.
Pertanto, nei tre sabati successivi seguitò ad attraversare come al solito il corridoio tra la mezzanotte e le tre del mattino, prendendo tutte le precauzioni per non essere né visto né udito.
Si tolse gli stivali, cercò di camminare il più lievemente possibile sulle vecchie tavole del pavimento rose dai tarli, si avvolse in un ampio mantello di velluto nero, e fece uso del Lubrificante Solare per oliare le sue catene.
Devo ammettere che il povero fantasma si rassegnò ad adottare quest’ultimo mezzo di protezione soltanto dopo lunghe esitazioni.
Ma una notte, mentre la famiglia dormiva, entrò di soppiatto nella camera di Mister Otis e ne asportò la bottiglia. A tutta prima si sentì un poco umiliato, ma aveva in definitiva sufficiente buon senso per riconoscere che si trattava di un ritrovato tutt’altro che disprezzabile e che in un certo qual modo serviva al suo scopo. Ma nonostante tutti questi riguardi, non era certo lasciato in pace. Incappava sempre in corde tese da una parte all’altra del corridoio, nelle quali inciampava al buio, e una volta che si era vestito nel costume di “Isacco il Nero”, ovvero “Il Cacciatore della Foresta di Hogley”, cadde malamente per essere scivolato su un piano inclinato tutto cosparso di burro che i gemelli avevano avuto cura di costruire dall’ingresso della sala delle Tapezzerie fino alla sommità della scalinata di quercia. Quest’ultimo insulto lo mise in un furore tale che risolse di compiere un ultimo sforzo per tentare di affermare la propria dignità e la propria posizione sociale, e decise di far visita a quei due sfacciati studentelli di Eton, la notte seguente, nel suo celebre personaggio di “Rupert il Temerario”, ovvero “Il Conte Decapitato”.
Erano più di settant’anni che non faceva la sua apparizione in quel travestimento, da quando, precisamente, aveva talmente spaventato la graziosa lady Barbara Modish che questa aveva rotto il proprio fidanzamento con il nonno dell’attuale lord Canterville, ed erascappata a Gretna Green con il bellissimo Jack Castleton, dichiarando che per nulla al mondo si sarebbe rassegnata ad imparentarsi a una famiglia che permetteva ad un fantasma tanto mostruoso di passeggiare su e giù per la terrazza all’ora del crepuscolo. Il povero Jack era stato in seguito ucciso in duello da lord Canterville a Wandsworth Common, e lady Barbara era morta di crepacuore a Tunbridge Wells prima della fine di quell’anno, cosicché, tutto sommato, il suo era stato un enorme successo. Si trattava però di un “trucco” estremamente difficile, se è lecito adoperare un’espressione del gergo teatrale a proposito di uno dei più grandi misteri del soprannaturale, o per usare un termine più scientifico, dell’universo extranaturale, e gli ci vollero tre ore buone per i preparativi. Alla fine ogni cosa fu pronta, ed egli si sentì molto soddisfatto del suo aspetto.
I grossi stivali di cuoio intonati al vestito erano un tantino troppo grandi per lui, e delle due pistole da sella che gli sarebbero servite ne poté trovare una sola; ma nel complesso era contento, perciò all’una e un quarto scivolò silenziosamente fuori del rivestimento di legno della parete e si avviò strisciando lungo il corridoio. Arrivato alla stanza occupata dai gemelli -che, sia detto tra parentesi, si chiamava la camera da letto azzurra a causa del colore dei suoi cortinaggi -trovò l’uscio socchiuso. Desiderando fare un ingresso teatrale, la spalancò del tutto con un gran colpo, ma nello stesso momento un’enorme brocca d’acqua gli cadde addosso, bagnandolo fino alle midolla, e soltanto per qualche centimetro la sua spalla sinistra non fu colpita in pieno. Contemporaneamente si sentirono dal gran letto a due piazze risatine e squittii di allegria soffocati a stento tra le coperte. La scossa portata al suo sistema nervoso fu talmente forte che il poveretto volò alla propria camera più svelto che poté, e il giorno dopo dovette starsene a letto con un raffreddore tremendo.
La sola cosa che lo consolava un poco in quella triste faccenda, era il fatto che per fortuna non si era portato la testa con sé, perché in caso contrario le conseguenze sarebbero state molto più gravi.
Da quella notte rinunciò ad ogni ulteriore tentativo d’incutere spavento a quella volgare famiglia americana, e si accontentò, di regola, di strisciare nei corridoi calzato di pianelle dalla suola di feltro, con una grossa sciarpa di lana rossa al collo per timore delle correnti d’aria e un minuscolo archibugio, in caso di attacco da parte dei gemelli. Ma l’ultimo colpo che egli doveva essere costretto a subire gli capitò il 19 settembre.
Era sceso nel grande vestibolo centrale, sicuro che lì almeno nessuno lo avrebbe molestato, e si stava divertendo a fare commenti satirici “in pectore” sulle grandi fotografie del ministro degli Stati Uniti e di sua moglie che avevano adesso preso il posto dei ritratti della famiglia Canterville. Era avvolto semplicemente ma lindamente in un lungo sudario, maculato qua e là con terra di cimitero, si era legata la mascella con una striscia di lino giallo, e recava in spalla una piccola lanterna e una vanga da becchino. Si era abbigliato infatti per la parte di “Jack l’Affossatore”, ovvero “Il Ladro di Cadaveri di Chertsey Barn”, una delle sue interpretazioni più notevoli, interpretazioni che i Canterville avevano tutte le ragioni di ricordare perfettamente perché da essa aveva avuto origine, in realtà, la lite con il loro vicino lord Rufford.
Erano circa le due e un quarto del mattino e, per quanto aveva potuto controllare, nella casa tutto era quiete e silenzio. Ma mentre si stava avviando passo passo in biblioteca, per vedere se vi era rimasta qualche traccia della macchia di sangue, ecco che improvvisamente gli sbucarono addosso da un angolo buio due figure che agitavano selvaggiamente le braccia sopra il capo e gli fecero “Buuu!” nell’orecchio.
Colto da un panico anche troppo naturale, date le circostanze, corse a precipizio su per le scale, ma ecco anche lì Washington Otis ad aspettarlo con in mano la grossa pompa che serviva ad annaffiare il giardino. Sentendosi braccato da ogni parte dai propri nemici, e quasi sul punto di soccombere, fece appena in tempo ad eclissarsi nella grande stufa di ferro, che fortunatamente per lui non era accesa, e fu costretto a mettersi in salvo per la strada dei comignoli e dei tetti, giungendo nella propria camera in uno stato pietoso di sporcizia, di disordine e di disperazione.
Dopo di ciò non fu più visto in nessuna spedizione notturna. I gemelli gli fecero la posta per parecchio tempo, cospargendo ogni notte i corridoi di gusci di noce, con grande fastidio dei servitori e dei familiari, ma senza alcun risultato. Era stato talmente ferito nei suoi sentimenti più intimi, che disdegnava ormai di apparire, era evidente. Di conseguenza Mister Otis riprese a redigere la sua storia del Partito Democratico, un’opera grandiosa alla quale lavorava da anni; Miss Otis organizzò una feste campestre meravigliosa che stupì tutta la regione; i ragazzi si dedicarono al LACROSSE, all’EUCHRE, al POKER, e ad altri giochi nazionali americani, e Virginia cavalcò per i prati sul suo puledro, accompagnata dal giovane duca di Cheshire che era venuto a Canterville Chase a trascorrervi l’ultima settimana di vacanza.
Era opinione generale che il fantasma fosse scomparso, e Mister Otis scrisse una lettera a questo proposito a lord Canterville, il quale rispose esprimendo il proprio compiacimento per la notizia e inviò le sue sentite congratulazioni alla gentile consorte del ministro.
Gli Otis in realtà s’ingannavano, perché il fantasma era sempre nella casa, e sebbene fosse oramai pressoché un povero invalido, era ben lungi dal volere lasciare andare le cose com’erano, tanto più da quando aveva saputo che tra gli ospiti si trovava il giovane duca di Cheshire, il cui prozio, lord Francis Stilton, aveva scommesso una volta cento ghinee con il colonnello Carbury che avrebbe giocato a dadi con il fantasma di Canterville, ed era stato trovato l’indomani disteso sul pavimento della sala da gioco, totalmente paralizzato: e benché fosse vissuto poi fino a tarda età, non fu più in grado di dire altro che: “Doppio sei”.
L’episodio in quell’epoca era stato universalmente risaputo, per quanto, per rispetto ai sentimenti delle due nobili famiglie, si era fatto di tutto per mettere a tacere la cosa, e si possono anzi trovare tutti i particolari relativi a questo tragico evento nel terzo volume di lord Tattle intitolato “Ricordi del Principe Reggente e dei suoi amici”.
Il fantasma era dunque logicamente molto ansioso di far vedere che egli non aveva ancora perduta tutta la sua influenza sugli Stilton con i quali, per giunta, era lontanamente imparentato, avendo una sua prima cugina sposato in seconde nozze il sire di Bulkeley, dal quale, come tutti sanno, discendono in linea genealogica i duchi di Cheshire. Predispose quindi ogni cosa per comparire al piccolo innamorato di Virginia nella sua famosa parte del “Monaco Vampiro”, ovvero “Il Benedettino Dissanguato”, visione talmente orrenda che quando la vecchia lady Sartup la scorse, il che accadde in una fatale vigilia di capodanno dell’anno 1764, diede in acute strida di spavento che culminarono in un violento attacco di apoplessia, e la disgraziata nobildonna decedette in capo a tre giorni, dopo aver diseredato i Canterville che erano i suoi parenti più prossimi, e lasciando invece tutto il proprio denaro al suo speziale londinese.
All’ultimo momento, tuttavia, l’incubo dei gemelli gli impedì di abbandonare la sua cameretta segreta nell’ala sinistra del castello, e il giovane duca dormì in pace i suoi rosei sonni sotto il baldacchino piumato della camera regale, e poté sognare di Virginia indisturbato.
Capitolo V
Pochi giorni dopo questi avvenimenti, Virginia e il suo ricciuto cavaliere uscirono a cavallo sui prati di Brockley, dove la fanciulla si strappò così malamente la veste di amazzone nel saltare una siepe che, di ritorno a casa, preferì passare dalla scala di servizio per non essere vista in quella guisa. Mentre attraversava di corsa il vestibolo attiguo al salone delle tappezzerie, la cui porta era per caso aperta, ebbe l’impressione di vedervi dentro qualcuno, e pensando si trattasse della cameriera di sua madre, che qualche volta si metteva a lavorare lì, affacciò la testa per chiederle di rattopparle il vestito. Ma con sua immensa sorpresa si trattava invece del fantasma di Canterville in persona. Era seduto accanto alla finestra, assorto nella contemplazione dell’oro consunto degli alberi e della danza impazzita delle foglie rosse giù per il lungo viale. Teneva la testa appoggiata ad una mano e tutto il suo atteggiamento esprimeva uno stato di depressione indicibile. Aveva un aspetto tanto misero e tanto mal ridotto che la piccola Virginia, il cui primo impulso era stato di fuggire, si sentì invadere da una profonda compassione e decise di cercare di confortarlo. Il passo della fanciulla era così leggero, e così greve era la malinconia dello spettro, che questi non si accorse della sua presenza finché lei non gli ebbe rivolta la parola.
“Mi spiace tanto per lei,” incominciò Virginia “ma i miei fratelli ritornano domani a Eton, e perciò, se lei si comporterà come si deve, nessuno la disturberà”.
“Comportarmi come si deve!” replicò il fantasma, volgendosi stupito a guardare la graziosa fanciulla che aveva avuto il coraggio di parlargli. “E’ semplicemente ridicolo chiedermi una cosa simile! Io devo far risuonare le mie catene, e mugolare attraverso i buchi delle serrature, e passeggiare di notte per la casa, se è questo ciò a cui tu alludi. E’ la mia unica ragione di esistere”.
“Non è affatto una buona ragione, e lei sa benissimo di essere stato molto ma molto cattivo. Ce lo disse la signora Umney, proprio il giorno del nostro arrivo, che lei ha assassinato sua moglie”.
“Be’, lo ammetto,” rispose il fantasma con petulanza “ma si tratta di una pura e semplice questione di famiglia che non riguarda nessun altro”.
“E’ un grave peccato ammazzare chicchessia” osservò Virginia, la quale aveva a volte una dolce gravità puritana, ereditata forse da un suo lontano antenato della Nuova Inghilterra.
“Oh, io non posso soffrire la severità a buon mercato dell’etica astratta. Mia moglie era una donna bruttissima, non mi inamidava mai i miei ‘ruches’ come piaceva a me, e non capiva un’acca in fatto di cucina. Perbacco, avevo preso un daino magnifico nella foresta di Hogley, un due anni superbo, e vuoi sapere come me lo fece servire in tavola? Be’, ormai la cosa non ha più importanza, è passato tanto tempo da allora, e non trovo che sia stato molto carino da parte dei suoi fratelli farmi morire di fame, anche se gli avevo accoppata la sorella”.
“L’hanno fatta morire di fame, signor fantasma? Sir Simon, voglio dire. Vuole mangiare qualcosa? Ho nella mia borsetta un panino imbottito. Posso offrirglielo?”.
“No, grazie, ormai non mangio più nulla: comunque è un gesto molto gentile, il tuo, e tu sei immensamente più carina di tutto il resto della tua orribile, villana, volgare, disonesta famiglia!”.
“La smetta!” gridò Virginia, picchiando un piede per terra. “E’ lei, invece, maleducato, orribile e volgare! E in quanto a disonestà, lei sa benissimo chi ha rubato tutti i colori della mia scatola di pittura per tenere lustra e forbita quella ridicola macchia di sangue sul pavimento della biblioteca. All’inizio mi ha preso tutti i rossi, compreso il vermiglio, in modo che non ho più potuto fare nessun tramonto, poi mi ha soffiato il verde smeraldo e il giallo cromo, e alla fine non mi era rimasto più che l’indaco e il bianco di China, e non mi restava altro da fare che dipingere paesaggi al chiaro di luna che sono molto deprimenti da guardare e per giunta difficilissimi da ritrarre. Io non l’ho mai sbugiardata davanti agli altri, però, e ho sempre taciuto, benché fossi estremamente seccata, e trovassi la cosa semplicemente assurda, perché infatti chi ha mai visto una macchia di sangue color verde smeraldo?”.
“A dire la verità,” replicò il fantasma alquanto confuso “che altro potevo fare? E’ una cosa complicatissima, oggigiorno, trovare del sangue vero, e dal momento che era stato tuo fratello Washington a incominciare con il suo maledetto Detersivo Incomparabile, non vedevo il motivo per cui non avrei dovuto adoperare i tuoi colori. In quanto al colore, poi, è una pura questione di gusto. Noi Canterville, per esempio, abbiamo sangue blu, il sangue più blu di tutta l’Inghilterra, ma io lo so che a voi americani queste differenze di tinta non interessano”.
“Lei non sa nulla di ciò che interessa a noi, e la cosa migliore che dovrebbe fare sarebbe quella di emigrare e migliorare il suo cervello. Mio padre non sarà che troppo felice di procurarle un passaggio gratuito, e per quanto vi sia una forte tassa sugli spiriti e gli alcoolici in genere, l’ufficio della dogana non le farà difficoltà, dato che i funzionari sono tutti democratici. Una volta a Nuova York, stia certo che avrà un successo formidabile.
Conosco un sacco di gente che darebbe centomila dollari per avere un nonno, figurarsi poi se potesse trovare un fantasma di famiglia”.
“Non credo che l’America mi piacerebbe”.
“Forse perché noi non possediamo né rovine né curiosità artistiche” osservò Virginia con tono sarcastico.
“Né rovine né curiosità” replicò il fantasma. “Ma avete la vostra marina e le vostre maniere!”.
“Buona sera. Vado a chiedere a papà di concedere ai gemelli una settimana di vacanza supplementare”.
“Oh, ti prego, non te ne andare, Virginia!” gridò lo spettro. “Sono tanto solo e infelice e proprio non so quello che devo fare. Vorrei tanto andare a dormire e non posso”.
“Questo è semplicemente ridicolo. Non ha che da mettersi a letto e spegnere la candela. Qualche volta è molto difficile stare svegli, soprattutto in chiesa, ma non è affatto difficile addormentarsi.
Come, persino i bambini sanno come si fa, e sì che non hanno l’intelligenza ancora molto sviluppata!”.
“Io non dormo da trecento anni” disse tristemente il fantasma, e i begli occhi celesti di Virginia si spalancarono dallo stupore. “Da trecento anni non posso dormire, e sono tanto stanco”.
Virginia si fece molto seria e le sue dolci labbra tremarono come petali di rosa. Si accostò, gli si inginocchiò al fianco e lo fissò nel vecchio volto avvizzito.
“Povero, povero fantasma,” mormorò con tenerezza “non c’è proprio un luogo dove possa trovar sonno?”.
“Lontano di qua, oltre la pineta,” rispose il fantasma con voce sommessa e sognante “c’è un piccolo giardino. Laggiù l’erba cresce lunga e folta, il fiore della cicuta vi allarga le sue grandi stelle bianche, l’usignolo vi canta tutta la notte. Tutta la notte, canta, e la fredda luna di cristallo si china a guardare, e l’albero del tasso distende le sue braccia gigantesche sui dormienti”.
Gli occhi di Virginia si appannarono di lacrime ed essa si nascose il volto tra le mani. “Lei sta parlando del giardino della morte” mormorò.
“Sì, la morte. Oh, la morte deve essere tanto bella. Poter giacere nella morbida terra bruna, con gli steli dell’erba che si agitano leggeri sopra il tuo capo, e ascoltare il silenzio. Non avere né ieri, né domani. Dimenticare il tempo, perdonare la vita, essere in pace. Tu potresti aiutarmi. Potresti aprire per me i battenti della Casa della Morte, poiché l’amore vi sta sempre vicino, e l’amore è più forte della morte”.
Virginia tremò; un brivido glaciale le serpeggiò per la schiena, e per alcuni attimi regnò tra loro un silenzio sepolcrale. La fanciulla ebbe la sensazione di vivere come in un sogno terrificante.
Poi il fantasma riprese a parlare, e la sua voce assomigliava al sospiro del vento. “Hai mai letto l’antica profezia che sta sulla finestra della biblioteca?”.
“Oh, sì!” esclamò Virginia, alzando vivacemente il capo. “Tante volte! La conosco benissimo. E’ dipinta in strane lettere nere, ed è difficile da leggersi. Non sono che sei versi: Quando una fanciulla bionda strapperà La preghiera dalle labbra del peccato: Quando il mandorlo inaridito rifiorirà E un’innocente creatura verserà lacrime, Ritornerà tranquilla la dimora E la pace scenderà su Canterville.
…Però non so che cosa significhino”.
“Significano,” disse tristemente il fantasma “che tu devi piangere per i miei peccati, perché io non ho lacrime, e pregare con me per la mia anima, perché io non ho fede, e poi, se tu sarai stata sempre buona, dolce e gentile, l’angelo della morte avrà pietà di me. Tu vedrai nell’oscurità ombre paurose, e voci malvagie ti sussurreranno all’orecchio, ma esse non ti faranno male, poiché contro la purezza di una creatura innocente le forze dell’inferno non possono prevalere”.
Virginia non rispose, e il fantasma si torse le mani in preda alla disperazione guardando l’aureo capo reclino della fanciulla.
Improvvisamente questa si alzò, pallidissima, con una strana luce negli occhi. “Io non ho paura,” disse con fermezza “chiederò all’angelo di avere pietà di te”.
Il fantasma si levò con un debole grido di gioia, le prese la mano e inchinandosi gliela baciò con grazia antiquata. Le sue dita erano fredde come il ghiaccio e le labbra bruciavano come fiamma ardente, ma Virginia non tremò mentre lui la guidava attraverso la sala immersa nel crepuscolo. Sul verde sbiadito della tappezzeria erano ricamati minuscoli cacciatori: essi suonarono i loro corni ornati di nappe e con le piccole mani le fecero cenno di tornare indietro. “Torna indietro, piccola Virginia!” gridarono “torna indietro!”.
Il fantasma le strinse ancor più saldamente la mano e lei chiuse gli occhi alle loro lusinghe. Animali immondi con code di lucertole e occhi sgusciati la fissarono di soppiatto dalla cornice del caminetto scolpito e mormorarono: “Attenta, piccola Virginia! Attenta! Potrebbe darsi che non ti vediamo mai più!”.
Il fantasma accelerò la sua silenziosa fuga, e Virginia non gli diede retta. Quando furono arrivati in fondo alla sala, egli si fermò e borbottò alcune parole incomprensibili. Allora Virginia aprì gli occhi e vide il muro dissolversi lentamente, come una nebbia, e una grande caverna nera aprirsi dinanzi a lei. Un vento impetuoso e gelido li investì, ed essa sentì qualcosa che la tirava per il lembo del vestito. “Presto, presto,” gridò il fantasma “altrimenti sarà troppo tardi”. Un istante dopo, il rivestimento di legno si era già richiuso sopra di loro, e la sala delle tappezzerie era vuota.
Capitolo VI
Circa dieci minuti più tardi suonò la campana per il tè, e poiché Virginia non si fece vedere, Miss Otis mandò di sopra uno dei valletti a cercarla. Ma questi tornò di lì a poco dicendo che non aveva trovato la signorina Virginia da nessuna parte. Poiché essa aveva l’abitudine di scendere ogni sera in giardino a raccogliere fiori per la tavola, Miss Otis non si preoccupò affatto, a tutta prima, ma quando scoccarono le sei e Virginia non comparve ancora, cominciò ad agitarsi seriamente, e mandò i ragazzi a cercarla, mentre lei e Mister Otis frugavano ogni angolo della casa. Alle sei e mezzo i ragazzi tornarono senza aver trovato la minima traccia della sorella. Erano tutti, ora, in uno stato di grande agitazione e non sapevano più che fare e dove andare, quando Mister Otis si rammentò a un tratto di aver dato il permesso, pochi giorni prima, ad una tribù di zingari di accamparsi nel parco. Partì quindi subito per Blackfell Hollow, dove si trovavano gli zingari, una spedizione composta di lui stesso, di suo figlio maggiore e di due garzoni di fattoria. Il piccolo duca di Cheshire, che l’angoscia aveva reso letteralmente pazzo, supplicò disperatamente che gli fosse concesso di accompagnarli, ma Mister Otis non glielo permise perché temeva che ci sarebbe stato un po’ di parapiglia. Giunto però sul posto, non gli rimase che constatare che gli zingari se ne erano andati, e anzi, a giudicare dalle apparenze, la loro partenza doveva essere recente e determinata da cause improvvise, perché il fuoco da campo era ancora acceso e sul prato erano sparse vettovaglie. Mandò allora Washington e i due uomini a frugare la regione, mentre egli correva a casa a spedire telegrammi a tutti gli ispettori di polizia della Contea, supplicandoli di ricercare una fanciulla che doveva essere stata certamente rapita da una banda di zingari o di vagabondi. Fece sellare il cavallo e, dopo aver insistito perché sua moglie e i figli si mettessero a tavola, si avviò lungo la strada di Ascot accompagnato da un ragazzo di scuderia. Non aveva percorso un paio di miglia quando sentì un risuonare di zoccoli alle sue spalle: si volse e vide che il giovane duca di Cheshire lo aveva raggiunto in groppa al suo puledro, tutto infuocato in viso e senza berretto. “La supplico Mister Otis,” lo implorò il ragazzo “ma io non posso mangiare finché Virginia non è stata ritrovata. La prego, non sia in collera con me. Se lei ci avesse permesso di fidanzarci l’anno scorso questa disgrazia non sarebbe successa. Non mi rimanderà indietro, vero? Non posso tornare indietro, non voglio!”.
Il ministro non poté trattenersi dal sorridere alla vista di quel monello così pieno di ardire e di grazia giovanile; lo commuoveva anche profondamente la sua devozione per Virginia: si chinò dunque sulla sella, gli batté amichevolmente sulle spalle e gli disse: “Va bene, Cecil, se non vuoi proprio tornare indietro immagino che dovrò lasciarti venire con me, però appena saremo ad Ascot bisognerà che ti trovi un cappello!”.
“Io voglio trovare Virginia, altro che cappello!” ribatté il giovane duca ridendo, e insieme proseguirono al galoppo verso la stazione ferroviaria. Lì giunti, Mister Otis si informò presso il capostazione se fosse stata vista sulla banchina una ragazza corrispondente alla descrizione che fece di Virginia, ma nessuno seppe dirgli nulla di preciso. Il capostazione si affrettò tuttavia a telefonare a tutti i posti di servizio della linea e gli assicurò che si sarebbe fatto l’impossibile per trovarla. Dopo aver acquistato un cappello per il giovane duca presso un mercante di articoli vari che stava per chiudere i battenti, Mister Otis proseguì la sua corsa a cavallo verso Bexley, un villaggio distante circa quattro miglia, che gli era stato descritto come una delle località preferite di solito dagli zingari, essendo situato presso una grossa borgata.
Andarono a svegliare la guardia campestre, ma non poterono ottenere da lei alcuna informazione utile, e dopo avere perlustrato l’intera borgata puntarono i musi dei loro cavalli sulla via di casa e furono di ritorno alla Chase verso le undici di sera, stanchi morti e col cuore affranto. Washington e i gemelli li stavano aspettando alla cancellata muniti di lanterne, poiché il viale era completamente al buio. Di Virginia neppure la minima traccia.
Gli zingari erano stai raggiunti sui prati di Brockley, ma la fanciulla non era con loro, ed essi poterono spiegare la loro partenza improvvisa giustificandosi di essersi sbagliati sulla data della fiera di Chorton: se ne erano andati in fretta e furia per timore di arrivarvi in ritardo. Anzi, si erano mostrati molto addolorati nell’apprendere la scomparsa di Virginia, poiché erano molto riconoscenti al Mister Otis che aveva permesso loro di accamparsi nel parco, e quattro di essi erano rimasti indietro per aiutare nelle ricerche. Lo stagno delle carpe era stato sondato, l’intera località era stata perlustrata da cima a fondo, ma senza alcun risultato. Era evidente che, per qualche notte almeno, Virginia era perduta per loro e fu in uno stato di profonda depressione che Mister Otis e i ragazzi si avviarono verso il castello, seguiti dal garzone di scuderia che teneva per la briglia i due cavalli e il puledro.
Nel vestibolo trovarono un gruppo di domestici spaventati, e sul divano del salotto Miss Otis, quasi fuori di sé per la paura e l’inquietudine, che si faceva bagnare continuamente la fronte dalla vecchia governante di casa con compresse d’acqua di colonia. Mister Otis volle che sua moglie si sforzasse a mangiare qualcosa a tutti i costi e ordinò la cena per l’intera famiglia. Fu un pasto malinconico, nessuno parlò; persino i gemelli erano ammutoliti e desolati perché erano affezionatissimi alla loro sorellina. Quando ebbero finito di pranzare, malgrado le suppliche e le preghiere del piccolo duca, Mister Otis volle che andassero tutti quanti a coricarsi perché, disse, quella notte non restava nulla di meglio da fare; il mattino seguente avrebbe telefonato subito a Scotland Yard perché gli mandassero al più presto degli agenti investigativi.
Proprio nel momento in cui uscivano dalla sala da pranzo, la mezzanotte incominciò a rintoccare dall’orologio della torre e quando scoccò l’ultimo colpo si sentì un boato e un grido subitaneo, acutissimo: uno spaventevole scoppio di tuono scosse la casa, un accordo di musica celeste echeggiò nell’aria, un pannello in cima alla scalinata si spalancò con grande fragore, e sul pianerottolo apparve Virginia, pallida e bianca, con un piccolo scrigno tra le mani. In un attimo tutti le furono intorno. Miss Otis la strinse appassionatamente a sé, il duca quasi la soffocò di baci, mentre i gemelli eseguivano intorno al gruppo una selvaggia danza guerriera.
“Ma in none di Dio, bambina, dove sei stata?” gridò Mister Otis furibondo, poiché pensava che sua figlia si fosse divertita a giocare loro un brutto scherzo. “Cecil ed io abbiamo corso per tutta la Contea in cerca di te, e tua madre è quasi morta di paura. Non devi più fare tiri del genere!”.
“Tranne che al fantasma! Tranne che al fantasma!” urlarono i gemelli, saltabeccandole intorno come due capretti.
“Tesoro mio! Grazie al cielo sei di nuovo qui con noi! Non devi più staccarti da me!” mormorò Miss Otis baciando la figliola che tremava tutta, e lisciando l’oro arruffato dei suoi capelli.
“Papà”, spiegò Virginia con voce tranquilla, “sono stata col fantasma. Adesso è morto e bisogna che tutti voi veniate a vederlo. E’ stato molto cattivo, ma si è sinceramente pentito di tutto il male che ha commesso, e mi ha dato questa bellissima scatola piena di gioielli, prima di morire”.
Tutti la fissarono sbalorditi, ma Virginia era molto calma e seria e, volgendosi, li guidò attraverso l’apertura formatasi nel rivestimento di legno giù per un angusto corridoio segreto:
Washington illuminava il cammino con una candela accesa che aveva tolto dalla tavola. Giunsero infine a una grande porta di quercia tempestata di borchie rugginose. Non appena Virginia l’ebbe toccata, questa girò su pesanti cardini e tutti si trovarono in una stanzetta bassa, dal soffitto a volta, munita di un’unica finestrella a grata. Un enorme anello di ferro era infisso nel muro e incatenato ad esso stava un lunghissimo scheletro, disteso in tutta la sua lunghezza sul pavimento di pietra: pareva stesse cercando di afferrare con le dita rattrappite una brocca e un tagliere di foggia antica, che erano stati messi fuori dalla sua portata. La brocca doveva essere stata piena d’acqua, un tempo, perché era coperta internamente di una muffa verdastra. Sul tagliere non era rimasto che un mucchietto di polvere. Virginia s’inginocchiò accanto allo scheletro, e congiungendo le sue piccole mani prese a pregare in silenzio, mentre gli altri stavano a contemplare stupefatti la terribile tragedia il cui segreto era finalmente chiaro a tutti.
“Ehi!” esclamò a un tratto uno dei gemelli, che si era messo a guardare fuori della finestra per cercare di capire in quale ala del castello si trovasse precisamente quella stanza. “Guardate un po’! Il vecchio mandorlo secco è tutto un boccio! Vedo benissimo i fiori alla luce lunare”.
“Dio gli ha perdonato!” disse gravemente Virginia, levandosi in piedi, e una luce soprannaturale parve per un attimo illuminarle il volto.
“Che angelo sei!” gridò il giovane duca, e le mise un braccio intorno al collo e la baciò.
Capitolo VII
Quattro giorni dopo il verificarsi di questi strani avvenimenti, un funerale mosse da Canterville Chase verso le undici di notte.
Il carro funebre era tirato da otto cavalli neri, ciascuno dei quali recava in capo un gran ciuffo svolazzante di piume di struzzo, e il cofano di piombo era ricoperto di un ricco drappo color porpora sul quale erano ricamate in oro le insegne dei Canterville. Al lato del carro e degli equipaggi camminavano i domestici con torce accese: tutta la processione aveva un aspetto estremamente suggestivo. Lord Canterville apriva il corteo: era venuto apposta sin dal Galles per presenziare alle esequie e sedeva nel primo cocchio, insieme con la piccola Virginia.
Seguivano poi il ministro degli Stati Uniti e sua moglie, quindi Washington e i tre ragazzi, e finalmente nell’ultima vettura la signora Umney. Era opinione generale che, dal momento che la povera donna era stata spaventata dallo spettro per oltre cinquant’anni, aveva il diritto di accompagnarlo di persona alla sua ultima e definitiva dimora. Una grande fossa era stata scavata in un angolo del cimitero, proprio sotto il vecchio albero di tasso, e il rito funebre fu celebrato con grande solennità dal reverendo Augustus Dampier. Quando la cerimonia ebbe termine, i domestici, secondo un’antica tradizione della famiglia dei Canterville, spensero le torce e, mentre la bara veniva calata nella tomba, Virginia si fece innanzi e vi pose sopra una grande croce fatta di rami di mandorlo intrecciati, bianchi e rosa. In quel momento la luna uscì da dietro una nuvola, inondando della sua argentea silenziosa luce il piccolo cimitero, e da un boschetto lontano un usignolo prese a cantare. La fanciulla si rammentò della descrizione che il fantasma le aveva fatto del giardino della morte; i suoi occhi si riempirono di lacrime, e fu molto se proferì una sola parola nel cammino di ritorno verso casa.
Il mattino seguente, prima che lord Canterville rientrasse in città, Mister Otis volle avere un colloquio con l’antico proprietario del castello a proposito dei gioielli che il fantasma aveva regalato a Virginia. Si trattava di gioielli meravigliosi, soprattutto una certa collana di rubini con un’antica montatura veneziana, un esemplare veramente splendido di oreficeria del secolo sedicesimo, il cui valore era così enorme che Mister Otis provava grande scrupolo a permettere che sua figlia lo accettasse.
“Mio caro lord,” disse a lord Canterville “so che nel suo paese la manomorta si applica non soltanto alla terra, ma a qualunque bagatella, perciò mi rendo perfettamente conto che questi gioielli sono, o perlomeno dovrebbero essere, eredità della sua famiglia.
Io mi sento pertanto tenuto a chiederle di portarli a Londra con sé, e di considerarli semplicemente come una parte di beni di sua proprietà che le è stata restituita in circostanze insolite. In quanto alla mia figliola, non è che una bambina e per il momento non sente, per fortuna, alcuna inclinazione per inutili oggetti di lusso. Inoltre mia moglie, che in fatto di arte non è un’autorità da poco, avendo avuto il privilegio, da ragazza, di passare a Boston numerose stagioni invernali, mi ha fatto presente che si tratta di gemme di grande pregio monetario che potrebbero rendere immensamente se vendute ad un intenditore. Tenuto conto di tutto ciò, mio caro lord Canterville, sono certo che lei comprenderà benissimo come io non possa permettere che esse rimangano in possesso di un membro della mia famiglia.
Del resto, orpelli e cianfrusaglie simili, per quanto adatti o necessari alla dignità dell’aristocrazia britannica, sarebbero assolutamente fuori luogo tra gente che è stata educata ai severi e secondo me immortali princìpi della semplicità repubblicana. La pregherei solamente di lasciarmi la scatola, perché Virginia è desiderosa di conservarla come ricordo del suo infelice e traviato antenato. D’altro canto è una scatola molto vecchia e in pessimo stato, e spero che non avrà alcuna difficoltà ad accondiscendere alla sua richiesta. Per quel che mi concerne, confesso che sono molto stupito che una mia figliola dimostri simpatia per una qualsivoglia forma di medievalismo, e posso spiegarmi la cosa solo con il fatto che Virginia è nata in uno dei vostri sobborghi londinesi poco dopo un viaggio di mia moglie ad Atene”.
Lord Canterville stette ad ascoltare molto gravemente il discorso del degno ministro, tirandosi di tanto in tanto i baffi grigi per nascondere un sorrisetto involontario, e quando Mister Otis ebbe finito, gli strinse cordialmente la mano e disse: “Mio caro ministro, la sua graziosa figliola ha reso al mio sfortunato avo, sir Simon de Canterville, un servigio inestimabile, e la mia famiglia ed io ci sentiamo infinitamente in debito con lei per il coraggio e il sangue freddo che ha saputo dimostrare. E’ indubbio che i gioielli le appartengono sacrosantamente e, perbacco, io credo che se fossi tanto crudele da portarglieli via, quel sacripante di un mio trisavolo salterebbe fuori dalla sua tomba in capo a quindici giorni, e mi farebbe vedere i sorci verdi per tutto il resto della mia esistenza. In quanto al fatto che siano beni mobili spettanti per tradizione all’erede legale, non è ritenuto bene mobile per tradizione tutto quanto non è citato in un testamento o documento legale, e l’esistenza di queste gemme è sempre stata ignorata. Le garantisco di non avere maggiore diritto a reclamarli come miei di quanto non ne possa avere il suo maggiordomo, e quando la signorina Virginia sarà cresciuta, sono certo che sarà contenta di avere delle belle cose da mettersi indosso. Del resto, Mister Otis, lei sta dimenticando di aver acquistato castello e fantasma in blocco, perciò qualunque cosa fosse appartenuta al fantasma diventava sua automaticamente: infatti, qualunque fosse l’attività esplicata da sir Simon in corridoio durante la notte, agli effetti della legge egli era ben morto, e perciò lei aveva acquistato la sua proprietà per diritto di compera”.
Mister Otis si rammaricò moltissimo del rifiuto di lord Canterville, e lo pregò di recedere dalla sua decisione, ma l’onesto nobiluomo fu irremovibile. Infine il ministro si persuase ad accettare il dono che il fantasma aveva fatto a sua figlia, e quando nella primavera del 1890, la giovane duchessa di Cheshire fu presentata per la prima volta a Corte in occasione del suo matrimonio, i suoi gioielli furono l’oggetto dell’ammirazione generale. Virginia aveva infatti ricevuto la corona nobiliare, che è la meta più ambita di tutte le buone piccole bambine americane, sposandosi con il suo piccolo innamorato non appena questi aveva raggiunto la maggiore età. Erano entrambi così carini, e si volevano tanto bene, che tutti rimasero entusiasti di quel matrimonio, all’infuori della vecchia marchesa di Winbleton, che aveva cercato di accalappiare il duca per una almeno delle sue sette figlie zitelle, e aveva dato a questo scopo non meno di tre costosissimi pranzi, e strano a dirsi, all’infuori dello stesso Mister Otis. Personalmente, il ministro degli Stati Uniti nutriva per il giovane duca una simpatia vivissima, ma in teoria era contrario ai titoli, e per usare le sue parole “aveva il timore che in mezzo alla debilitante influenza di un’aristocrazia assetata di piacere i sani princìpi della semplicità repubblicana venissero a poco a poco dimenticati”.
Le sue obiezioni, tuttavia, furono smantellate a una a una, e io credo che mentre si avviava su per la navata della chiesa di San Giorgio, in Hanover Square, con sua figlia al braccio, non c’era un uomo più orgoglioso di lui in tutta l’Inghilterra.
I giovani duchi, terminato il loro viaggio di nozze, vennero a Canterville Chase, e lo stesso giorno del loro arrivo, nel pomeriggio, si recarono al piccolo cimitero solitario presso la pineta. Dapprincipio vi erano state non poche difficoltà a proposito dell’iscrizione per la pietra tombale di sir Simon, ma alla fine si era deciso di incidervi sopra semplicemente le iniziali del vecchio gentiluomo, unitamente ai versi dipinti sulla finestra della biblioteca. La duchessa aveva portato con sé alcune rose bellissime che sparse sulla fossa, e dopo essere rimasti per qualche istante immersi in un raccoglimento silenzioso, i due giovani si avviarono passo passo verso il coro in rovina dell’antica abbazia. Qui la duchessa sedette su una colonna caduta, mentre suo marito le si accoccolò ai piedi a fumare una sigaretta e a guardarla nei dolcissimi occhi. Improvvisamente il giovane buttò la sigaretta, le prese una mano e le disse:
“Virginia, una moglie non dovrebbe avere nessun segreto per il proprio marito!”.
“Ma, mio caro Cecil! Io non ho segreti per te!”.
“Sì, che ne hai” le rispose il giovane sorridendo. “Tu non mi hai mai detto quello che è accaduto quando ti sei chiusa lassù col fantasma”.
“Non l’ho mai detto a nessuno, Cecil” rispose Virginia gravemente.
“Lo so, ma a me potresti dirlo”.
“Oh, ti prego, non chiedermi nulla, Cecil, non posso dirtelo. Povero sir Simon. Io gli debbo moltissimo. Sì, non ridere, Cecil, è proprio come ti dico. Egli mi ha fatto comprendere che cos’è la vita, e che cosa significa la morte, e perché l’amore sia più forte dell’una e dell’altra”. Il duca si alzò e baciò appassionatamente sua moglie.
“Tieniti pure il tuo segreto fino a quando io potrò avere il tuo cuore” mormorò.
“Il mio cuore tu l’hai sempre avuto, Cecil”.
“Però ai nostri bambini lo racconterai un giorno, vero?”. Virginia arrossì.
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