• Herbert George Wells Il paese dei ciechi – Testo

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    (The Country of the Blind, 1899)

    (seconda parte)

    Leggi qui la prima parte del racconto



    Si ribellò solamente dopo avere tentato la via della persuasione. A più riprese aveva cercato di parlare con loro della vista. – Gente! – diceva. – Datemi un po’ retta. Ci sono in me cose che voi non capite. Un paio di volte, uno o due di loro stettero a sentirlo; se ne rimasero seduti, con i volti chini, porgendo l’orecchio con intelligenza verso di lui, che faceva del suo meglio per spiegare che cosa significasse “vedere”. C’era, tra gli ascoltatori, una ragazza, dagli occhi meno infiammati e affossati di quelli degli altri. Si sarebbe quasi creduto che tenesse timidamente abbassato lo sguardo. Ed egli desiderava in modo particolare di riuscire a convincerla.
    Descrisse le bellezze della vista, lo spettacolo dei monti, il cielo e l’alba; ma quelli stettero ad ascoltarlo, increduli e divertiti, passando ben presto alla disapprovazione. Gli dichiararono che invece i monti non esistevano, e che, là dove terminavano le rocce tra cui brucavano i lama, finiva il mondo; da quel punto sorgeva la copertura cavernosa dell’universo, dalla quale cadevano la rugiada e le valanghe; e quando egli si ostinò a sostenere che, contrariamente a quanto supponevano, il mondo non aveva fine né tetto, gli dissero che i suoi pensieri erano perversi. Il cielo, le nuvole, le stelle ch’egli si sforzava di descrivere come meglio poteva, a loro facevano l’impressione di un orrendo vuoto, di un terribile nulla in luogo del liscio tetto delle cose, in cui essi credevano: era articolo di fede che il tetto di quella caverna fosse deliziosamente liscio al tatto.

     

    Egli si accorse che riusciva solo a scandalizzarli e, abbandonando completamente quell’aspetto della faccenda, cercò di dimostrar loro i pregi pratici della vista. Una mattina, vedendo Pedro sul sentiero chiamato diciassette, che si dirigeva alle case del centro, ma ancora troppo lontano per l’odorato o l’udito, li informò di questa circostanza. – Tra poco, – predisse, – Pedro sarà qui. – Un vecchio commentò che Pedro non aveva motivo di trovarsi sul sentiero Diciassette, e infatti, come a confermarlo, costui svoltò in una traversa, il sentiero Dieci, avviandosi a passi felpati verso il muro esterno. Poiché Pedro non arrivava, presero in giro Nuñez e in seguito, quando egli, per giustificarsi, interrogò direttamente Pedro, questi negò, tenendogli testa arditamente, e da allora gli si dimostrò ostile.
    Poi egli li persuase a farlo andare molto in alto, sui pendii erbosi, verso il muro, in compagnia di un individuo compiacente, promettendo di descrivere a quest’ultimo tutto ciò che accadeva tra le case.

     

     

    Osservò l’andare e venire di alcuni; ma le cose che realmente parevano avere importanza per quella gente, le uniche di cui avessero tenuto nota per metterlo alla prova, accadevano all’interno o dietro le case senza finestre, ed egli non poteva saperne né dirne nulla. Appunto dopo l’insuccesso del suo tentativo, e l’ilarità ch’essi non seppero nascondere, egli fece ricorso alla forza. Pensò bene di dar di piglio ad una vanga e abbattere all’improvviso un paio di loro, dimostrando così, in campo aperto, il vantaggio di avere occhi. Attuò tale decisione, giungendo fino ad impugnare la vanga; ma allora dovette accorgersi di una novità, a proprio proposito, cioè che non era assolutamente in grado di colpire un cieco a sangue freddo.
    Esitò, e poi constatò che tutti sapevano che aveva impugnato una vanga. Stavano all’erta, con la testa piegata di fianco, tendendo l’orecchio nella sua direzione, aspettando la sua mossa successiva. – Metti giù quella vanga – disse uno, ed egli provò una specie di orrore senza scampo. Fu quasi sul punto di obbedire.

     

    Poi ne respinse violentemente uno contro il muro di una casa, e oltrepassandolo fuggì fuori del villaggio.
    Passò attraverso uno dei loro campi, lasciandosi dietro ai piedi una pista di erba calpestata, e si mise seduto di lato ad uno dei loro camminamenti. Provava un po’ quella baldanza che s’impadronisce di ogni uomo all’inizio di una lotta; ma l’incertezza era maggiore.
    Cominciava a rendersi conto ch’è impossibile persino combattere con piacere creature che si appoggiano a basi morali diverse. Vide in lontananza parecchi uomini, armati di vanghe e bastoni, che uscivano dalla strada dell’abitato, e avanzavano verso di lui, su una linea che si allargava lungo i vari sentieri. Avanzavano lentamente, interpellandosi spesso l’uno con l’altro, ed ogni poco l’intero cordone d’uomini sostava, fiutando l’aria, ascoltando.
    La prima volta che fecero questo, Nuñez rise. Ma poi non rise più. Uno s’imbatté nella traccia ch’egli aveva lasciato nell’erba, e si avvicinò, chino, tastando con la mano per riconoscere quella pista.
    Egli rimase per cinque minuti ad osservare il lento estendersi del cordone; poi, la voglia di fare senza indugio qualcosa, da vaga divenne frenetica. Si alzò in piedi, fece un paio di passi verso il muro di cinta, girò su se stesso e tornò un poco indietro. Stavano tutti là, a semicerchio, fermi e con l’orecchio teso.
    Anch’egli stava fermo, impugnando ben salda la sua vanga, a due mani. Partire alla carica contro di loro?
    Si sentiva pulsare il sangue nelle orecchie, al ritmo di “Tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re!”.
    Partire alla carica?
    – Bogotà! – gridò uno. – Bogotà! Dove sei?
    Strinse con forza ancora maggiore la vanga, e avanzò giù per i prati, in direzione dell’abitato, e non appena si mosse quelli conversero su di lui. “Se mi toccano, li colpisco!” imprecò. “Perdio, lo farò!
    Colpirò”. Gridò forte: – State a sentire. In questa valle, farò quel che mi pare. Avete udito? Farò quel che mi pare e andrò dove mi pare!
    Voltò un attimo la testa a guardare, alle sue spalle, l’alto muro invalicabile: un muro sul quale, dato l’intonaco levigato, era impossibile arrampicarsi, ma nel quale erano praticate numerose porticine. Guardò poi la linea, sempre più vicina, di quelli che lo cercavano. Dietro a questi, ora, altri ne venivano, dalla strada tra le case.
    Partire alla carica?

    Si stavano avvicinando velocemente, a tentoni, eppure con moto rapido.
    Era come giocare a mosca cieca, però con tutti i giocatori bendati ed uno solo no. – Acchiappatelo! – gridò uno di loro. Si trovò ad essere dentro l’arco di una curva scaglionata di inseguitori. Ritenne ad un tratto di dover agire e mostrarsi deciso.
    – Voi non capite – gridò con voce che, nella sua intenzione, doveva sonare forte e risoluta, e che invece gli tremò. – Siete ciechi, e io ci vedo. Lasciatemi in pace!
    – Metti giù quella vanga, Bogotà! E vieni via dall’erba!
    Quest’ultimo ordine, che in modo grottesco echeggiava ben noti divieti civici, provocò uno scoppio di collera.
    – Vi farò male – disse egli, quasi singhiozzando per l’emozione.
    – Perdio! vi farò male. Lasciatemi in pace.
    Spiccò la corsa senza ben sapere dove corresse. Scappò via dal cieco più vicino, perché inorridiva all’idea di colpirlo. Si fermò, poi si slanciò per sottrarsi allo stringersi dei ranghi. Puntò su un largo interstizio; ma, con pronta percezione dei suoi passi che si avvicinavano, l’uomo dell’una e quello dell’altra parte corsero l’un verso l’altro. Egli balzò avanti, vide che stavano per prenderlo, e “vlan”! Aveva calato la vanga e menato il colpo. Avvertì il sordo rumore prodotto dalla mano e dal braccio, e l’uomo già cadeva con un urlo di dolore. Egli era passato.
    Passato! Si ritrovava nei pressi della strada fra le case, e c’erano ciechi che, con una specie di precipitazione ragionata, correvano qua e là roteando vanghe e bastoni.
    Udì appena in tempo un rumore di passi alle sue spalle, accorgendosi così di un uomo alto che scattava avanti menando un colpo sulla sua presenza sonora. Perdette la testa, scagliò la sua vanga contro l’antagonista, mancandolo di un metro, girò su se stesso e fuggì, gettando proprio un urlo nello scansarne un altro.
    Lo aveva colto il panico. Corse alla disperata avanti e indietro, scartando quando non ve n’era motivo e (tanto era ansioso di guardare contemporaneamente da tutte le parti) incespicando. Cadde un attimo a terra e quelli lo udirono. Molto lontano, nel muro della cinta, una porticina parve paradisiaca, ed egli vi si diresse con folle impeto.
    Non si curò nemmeno di guardare, intorno a sé, gli inseguitori, finché non l’ebbe raggiunta, finché non ebbe superato barcollando un ponticello, risalito un po’ il pendio tra le rocce, con grande sorpresa e angoscia di un giovane lama che sparì a balzi precipitosi. Infine, si gettò a terra, respirando con affanno.
    Questa fu la conclusione del suo “coup d’état”.

     

    Rimase all’esterno del muro della vallata dei ciechi per due notti e due giorni, senza cibo né riparo, riflettendo a quegli sviluppi inaspettati. Nel corso di tali meditazioni, gli accadde spesso di ripetere, su un tono di derisione sempre più profonda, l’adagio ormai screditato: “Tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re”. Pensava soprattutto ai possibili modi di combattere e sconfiggere quella gente, e gli divenne chiaro che non ne aveva modo. Era senz’armi, ed ora sarebbe stato difficile procurarsene una.
    Anche se era un uomo di Bogotà, l’influenza corruttrice della civiltà lo aveva raggiunto, e non se la sentiva di scendere ad ammazzare un cieco… Certo, se lo avesse fatto, avrebbe potuto dettar condizioni, con la minaccia di ammazzarli tutti. Ma, presto o tardi, doveva pure dormire!
    Cercò anche di procurarsi tra i pini qualcosa da mangiare, di proteggersi con rami di pino dalla brina notturna, ed anche (senza sperarci troppo) d’ingegnarsi a catturare un lama, per ucciderlo, forse martellandolo con un sasso, e finalmente mangiarne un pezzo. Ma i lama lo tenevano in sospetto. Lo guardavano con occhi bruni e diffidenti, e schizzavano saliva quando si avvicinava. Finì per trascinarsi giù, fino al muro del paese dei ciechi, per cercare di intavolare trattative. Strisciò lungo il corso dell’acqua, lanciando grida, e finalmente due ciechi vennero sulla porta a parlargli.
    – Ero impazzito – disse. – Ma ero venuto al mondo solo da poco. Quelli dissero che così andava già meglio.
    Li informò che adesso aveva maggior senno, e si pentiva di tutto ciò che aveva fatto.
    A questo punto, senza volerlo, si mise a piangere, perché era ormai debole e malandato; ma a quelli parve un buon segno. Gli chiesero se ancora credeva di “vedere”.
    – No – rispose lui. – Era pura pazzia. E’ una parola che non vuol dire niente: men che niente.
    Gli chiesero che cosa c’era in alto, sulle teste.
    – A circa dieci volte l’altezza di un uomo, c’è un tetto sul mondo; fatto di roccia; e molto, molto liscio… – Scoppiò nuovamente in un pianto isterico. – Prima di farmi altre domande, datemi qualcosa da mangiare, o morirò.
    Si aspettava duri castighi, ma quei ciechi conoscevano la tolleranza.
    Considerarono la sua ribellione semplicemente come un’ulteriore prova della sua generica idiozia ed inferiorità; e dopo averlo frustato lo adibirono ai lavori più semplici e pesanti che ci fossero da fare. Non vedendo altro modo per vivere, egli si sottomise a fare ciò che gli dicevano.
    Fu ammalato per alcuni giorni, e quelli lo curarono con bontà. Ciò contribuì a perfezionare la sua sottomissione. Ma vollero assolutamente che stesse steso al buio, cosa estremamente spiacevole.

     

     

    Ciechi filosofi vennero a parlargli della perversa leggerezza del suo intelletto, e stigmatizzarono con tanta efficacia i suoi dubbi circa l’esistenza del coperchio di roccia che copriva la loro casseruola cosmica, da indurlo quasi a dubitare d’esser vittima di un’allucinazione nel fatto di non vederselo sul capo.
    In tal modo Nuñez divenne cittadino del paese dei ciechi. Cessò di vedere quella gente nel suo insieme, come popolazione, e i singoli individui gli divennero familiari, mentre il mondo che stava di là dai monti gli appariva sempre più lontano e irreale. C’era il suo padrone, Yacob, un uomo cordiale, quando non era arrabbiato. C’era Pedro, nipote di Yacob. E c’era Medina-saroté, la più giovane figlia di Yacob. Non era molto apprezzata, nel mondo dei ciechi, perché aveva un volto dai lineamenti netti, privo della debita, untuosa uniformità, ch’è l’ideale di bellezza femminile per l’uomo cieco; ma Nuñez la trovò bella in un primo momento, e poi la cosa più bella di tutto il creato. I suoi occhi chiusi meno fondi e infiammati di quanto non lo fossero di solito nella valle, parevano potersi riaprire da un momento all’altro, ed avevano lunghe ciglia, che là venivano considerate deturpanti. Anche la voce, forte, non corrispondeva ai requisiti dell’acuto udito dei valligiani. Ella perciò non aveva nessun innamorato.
    Venne un momento in cui Nuñez pensò che, se poteva averla per sé, si sarebbe rassegnato a vivere nella valle per il resto dei suoi giorni.
    La osservava, coglieva ogni occasione per renderle piccoli servigi, e non tardò ad accorgersi che anche lei lo notava. Una volta, a una riunione di un giorno di vacanza, si trovarono seduti a fianco a fianco nel debole lume delle stelle, e c’era una dolce musica. Gli capitò di mettere la mano sulla sua, e osò stringerla. Ella, timidamente, restituì la stretta. E un giorno, mentre pranzavano come sempre al buio, sentì che la mano di lei lo cercava dolcemente; per caso, in quel momento, il fuoco arse più forte, ed egli le scorse in viso l’espressione della tenerezza.
    Cercò l’occasione per parlarle.

     

     

     

    Un giorno si accostò a lei che stava seduta nel chiaro di luna estivo, intenta a filare. Quel chiarore la rendeva argentea, misteriosa. Egli sedette ai suoi piedi e le disse che l’amava, le disse quanto la trovava bella. Aveva la voce dell’innamorato, parlava con tenero rispetto, quasi con devota reverenza, ed ella non era mai stata sfiorata, prima da allora, dall’adorazione. Non gli diede una risposta precisa, ma era chiaro che le sue parole le erano piaciute.
    Da allora, approfittò di ogni occasione per parlarle. La valle divenne, per lui, il mondo; e il mondo di là dai monti, ove gli uomini vivono alla luce del sole, finì per sembrargli una fiaba, che un giorno o l’altro avrebbe sussurrato all’orecchio di lei. Con grande cautela, molto timidamente, le parlò della vista.
    A lei, quella faccenda della vista, parve un’invenzione poeticissima, e stette ad ascoltare la descrizione delle stelle, dei monti, della sua stessa dolce bellezza rischiarata dalla luna, come cedendo ad una colpevole debolezza. Non ci credeva, anzi capiva solo in parte; ma ne era misteriosamente deliziata, ed egli poté credere ch’ella avesse capito tutto.
    Il suo amore perse la trepida timidezza, si fece ardito. Egli volle chiederla in sposa, a Yacob e agli anziani; ma fu lei ad impaurirsi e a temporeggiare. Yacob venne a sapere che Medina-saroté e Nuñez erano innamorati, perché glielo disse una delle figlie maggiori.
    Il matrimonio di Nuñez con Medina-saroté incontrò subito fiera opposizione, non tanto per il conto che facevano di lei, quanto perché giudicavano proprio lui un essere fatto a modo suo, un mezzo scemo, incapace, inferiore anche al più basso livello tollerabile in un uomo.

     

    Le sorelle della ragazza si opposero accanitamente al matrimonio perché avrebbe gettato discredito su tutte loro; e il vecchio Yacob, benché avesse maturato una specie di affetto per il suo tardo e obbediente servo della gleba, scrollò il capo e disse che la cosa non era fattibile. I giovani erano tutti in collera all’idea di quell’inquinamento della razza, ed uno giunse fino a insultare e picchiare Nuñez. Egli reagì. Fu la prima volta che il fatto di vederci, sia pure in quella semioscurità, risultò un vantaggio, e dopo la conclusione di quella zuffa, nessuno si azzardò più a mettergli le mani addosso. Ma continuarono a ritenere impossibile il suo matrimonio.
    Il vecchio Yacob aveva un debole per quella figlia, ch’era la più piccina, e quando ella andava a piangere da lui, gli dispiaceva.
    – Ma capisci, cara, è deficiente. Soffre di allucinazioni, non sa far nulla nel modo voluto.
    – Lo so – singhiozzava Medina-saroté. – Ma adesso va meglio di prima.
    Migliora. Ed è forte, mio caro padre; è gentile. Più forte e più gentile di qualsiasi uomo al mondo. E mi ama, e… Padre, lo amo.
    Nel vederla così sconsolata, il vecchio Yacob ne fu afflitto, tanto più che, per molti motivi, aveva simpatia per Nuñez. Perciò andò nella sala del consiglio priva di finestre, sedette con gli altri anziani, seguì la china dei discorsi e, al momento opportuno, disse: – Va meglio di prima. E’ probabile che un giorno o l’altro ci accorgeremo ch’è sano di mente quanto noi.

     

    In seguito, poi, uno degli anziani, gran pensatore, ebbe un’idea. Tra quella gente egli era il gran dottore, il loro medico. Possedeva in alto grado l’attitudine filosofica e inventiva. L’idea di guarire Nuñez delle sue stranezze lo attraeva. Un giorno, presente Yacob, tornò sull’argomento Nuñez.
    Ho visitato Bogotà – disse – e il suo caso mi risulta più chiaro.
    Credo che, con ogni probabilità, lo si possa guarire.
    – L’ho sempre sperato – disse il vecchio Yacob.
    – Ha il cervello un po’ disturbato – disse il medico cieco.
    Corse tra gli anziani un mormorio di assenso.
    – Ebbene, “che cosa” lo disturba?
    – Ah! – fece il vecchio Yacob.
    – “Questo” – disse il medico, rispondendosi da sé. – Queste strane cose chiamate occhi, che esistono per formare nel volto una lieve e piacevole depressione, in Bogota sono malate di modo che gli disturbano il cervello. Sono molto dilatate, hanno le ciglia, con palpebre che si muovono; di conseguenza, il suo cervello è in uno stato costante d’irritazione e di distruzione.
    – E allora? – disse il vecchio Yacob. – Allora?
    – Io credo di poter dire con ragionevole certezza che, per guarirlo completamente non abbiamo da fare altro che una piccola operazione chirurgica, facile e semplice, cioè rimuovere questi elementi irritanti.
    – Poi sarà perfettamente sano di mente, e un cittadino del tutto ammirevole.
    – Sia ringraziato il cielo per averci dato la scienza! – disse il vecchio Yacob, e se ne andò subito da Nuñez ad informarlo delle sue liete speranze.
    Ma gli parve proprio, con sua sorpresa, che Nuñez ricevesse la buona notizia con una freddezza molto deludente.
    Perciò gli disse: – Si potrebbe quasi credere, dal modo in cui parli, che di mia figlia non t’importi nulla.
    Fu Medina-saroté a convincere Nuñez ad affrontare i chirurghi ciechi.
    Egli le disse: – Non vorrai, proprio tu, ch’io perda il mio dono della vista?
    Ella scosse la testa.
    – La vista è il mio mondo.
    Ella chinò ancor più la testa.

    – Ci sono le belle cose, piccole cose bellissime: i fiori, i licheni tra le rocce, la morbida lucentezza di una pelliccia, il cielo lontano con le nuvole che passano scivolando, i tramonti, le stelle. E ci sei tu. Solo per te è bello avere la vista, per vedere il tuo viso dolce e sereno, le tue labbra affettuose, le tue mani care e belle congiunte insieme… Questi miei occhi che tu hai conquistato, questi occhi che mi legano a te, quegli idioti me li vogliono togliere. Dovrei invece toccarti, sentirti, e non rivederti mai più. Dovrei anch’io venire sotto il tetto di roccia, di pietra, di tenebra, quell’orribile tetto sotto il quale si curva la vostra immaginazione…. No! Non vorrai ch’io faccia una cosa simile?
    Lo aveva assalito uno spiacevole dubbio. Si fermò, e lasciò l’interrogativo senza risposta.
    – Io vorrei – ella disse – a volte… – e s’interruppe.
    – Ebbene. – diss’egli, un poco in ansia.
    – Vorrei a volte… che tu non parlassi così.
    – Così, come?
    – So che è grazioso. E’ la tua fantasia. Mi piace tanto, “però”…
    Egli si sentì gelare. – Però? – fece, fievolmente.
    Ella rimase muta.
    – Tu vuoi dire… tu credi… ch’io starei meglio, starei meglio forse…
    Stava rendendosi conto molto rapidamente. Provò ira, effettivamente; ira contro la stupidità della sorte. Ma anche un’affettuosa comprensione, per l’incapacità di lei a capire: una comprensione ch’era parente stretta della compassione.
    – “Cara” – le disse. E vide dal suo pallore quanto il suo spirito fosse oppresso dalle cose che non poteva dire. Egli l’abbracciò, le baciò l’orecchio, e per un certo tempo rimasero seduti in silenzio.
    – E se io acconsentissi? – disse egli alla fine, con voce molto sommessa. Ella gli gettò le braccia al collo, piangendo a dirotto. – Oh, se tu lo facessi! – singhiozzava, – se tu lo facessi!

    Per tutta la settimana precedente all’operazione che dal suo stato inferiore e servile doveva elevarlo al rango di un cittadino cieco, Nuñez non conobbe il sonno, e durante tutte le ore calde, rischiarate dal sole, mentre gli altri felicemente dormivano, egli se ne rimase seduto a rimuginare, o vagò senza meta, cercando di condurre la sua mente a risolvere il dilemma. Aveva dato la risposta, aveva dato il consenso; ma non era ancora sicuro. E infine la giornata lavorativa terminò, il sole sorse in tutto il suo splendore sopra le cime dorate, e per lui cominciò l’ultimo giorno dotato di vista. Trascorse alcuni minuti con Medina-saroté, prima ch’ella si ritirasse a dormire.
    -Domani – disse – non vedrò più.
    – Tesoro! – disse lei, e gli strinse le mani forte forte.
    – Ti faranno soltanto un pochino di male – gli disse ancora – e questo male, questa sofferenza, tu li sopporterai, mio amato, per “me”…
    Caro, se una vita e un cuore di donna possono bastare a tanto, io ti ripagherò. Mio amatissimo, mio amato dalla tenera voce, io ti ripagherò.
    La compassione, per lei e per se stesso, lo permeava fino al midollo.
    Se la tenne tra le braccia, premette le labbra sulle sue, e la guardò bene in viso per l’ultima volta. – Addio! – sussurrò a quell’amato aspetto – addio!

     

     

     

    Poi, in silenzio, si volse e se ne andò.
    Ella udì i passi che si allontanavano, e nel loro ritmo sentì qualcosa che la gettò in un convulso di pianto.
    Egli aveva avuto la ferma intenzione di recarsi in un posto solitario dove il narciso bianco abbelliva i prati, e di rimanervi fino all’ora del suo sacrificio; ma, nell’andare, alzò gli occhi, e vide il mattino, il mattino simile a un angelo dalla corazza d’oro, che scendeva fieramente sui pendii…
    Gli parve che di fronte a tale splendore lui, e quel mondo cieco nella valle, ed il suo amore, e tutto, altro non fossero che un pozzo di peccato senza fondo.
    Non piegò su un lato, come ne aveva avuto l’intenzione; proseguì, invece, passò attraverso il cerchio del muro, uscì fuori, su per le rocce, e i suoi occhi non si staccavano dal ghiaccio e dalla neve illuminati dal sole.
    Ne vedeva l’infinita bellezza, e la sua immaginazione s’innalzò fino alle cose, oltre le cime, che ora avrebbe ripudiato per sempre.
    Pensò a quel mondo grande e libero dal quale era separato, un mondo ch’era il suo, e gli parve di vedere quegli altri pendii, quelle lontananze che seguono lontananze, e, a media distanza, Bogotà, luogo di bellezze multiformi e commoventi, uno splendore di giorno, un mistero luminoso di notte, un luogo pieno di palazzi, fontane, statue, case bianche. Pensò come fosse possibile, in un giorno o due, calare attraverso i valichi, giungere più vicino alle strade affollate e affaccendate della città. Pensò al viaggio sul fiume, per tanti giorni l’uno dopo l’altro, dalla grande Bogotà verso il mondo ancora più vasto che stava più oltre, passando per città, villaggi, foreste e luoghi deserti; un giorno dopo l’altro sul gran fiume, finché le sponde si allontanavano e i grandi piroscafi passavano rimescolando l’acqua e si giungeva al mare, il mare sconfinato, con migliaia di isole e navi intraviste lontano nel loro incessante viaggiare in giro per il mondo, attorno al grande mondo. E là si vedeva, non ostacolato da montagne, il cielo, il cielo! Non un disco, come lo si vedeva qui, ma un arco incommensurabile d’azzurro, somma profondità in cui galleggiano nel loro moto ciclico le stelle…

     

    I suoi occhi esaminavano con più acuta attenzione la grande cortina di montagne.
    Per esempio, ad andare così, su per quel canalone e poi per quel cammino, sarebbe stato possibile uscire, là in alto, tra quei pini che crescevano stentati intorno a una specie di sporgenza delle rocce e salivano sempre più in su accompagnandolo oltre la gola. E poi? Quella scarpata era superabile. Di là, forse, si poteva trovare una via di ascensione lungo lo strapiombo che finiva ai piedi delle nevi; e se quel cammino non rispondeva allo scopo, allora un altro, più ad est, poteva risultare migliore. E poi? Poi uno si sarebbe trovato a metà strada dalla vetta di quelle belle solitudini.
    Gettò un’occhiata, dietro di sé, al villaggio, poi girò completamente su se stesso per guardarlo fisso.
    Pensò a Medina-saroté. Era divenuta piccola, remota.
    Tornò a volgersi verso il muro montano, dal quale gli era sceso incontro il giorno.
    E, con grande cautela, cominciò ad arrampicarsi.


    Al tramonto, non stava più arrampicandosi; ma era lontano, e in alto.
    Era stato più in alto, ma era nondimeno molto in su. Aveva gli abiti laceri, le membra insanguinate; era contuso in molti punti. Ma stava steso come se stesse benissimo, e il suo volto sorrideva.
    Dal punto in cui si trovava, la valle pareva stare in un pozzo, oltre millecinquecento metri più in basso. La foschia già lo oscurava, benché le vette montane intorno a lui fossero tutta luce, tutto fuoco.
    Le vette erano tutta luce, tutto fuoco, e i particolari delle rocce più vicine erano impregnati di bellezza: una venatura verde che tagliava il grigio, qua e là il balenio di sfaccettature cristalline, un minuscolo lichene arancione, di una minuscola bellezza, proprio accanto al suo volto. Nella gola stavano ombre misteriose, un turchino che s’incupiva fino al violetto, un violetto che diventava tenebra luminosa; e, in alto il cielo, in tutta la sua vastità sconfinata. Ma non badò più a tutto ciò; giacque, invece, del tutto inerte, sorridente, come se fosse contento per il solo fatto di essere sfuggito alla valle dei ciechi, in cui aveva pensato di diventare re.
    Il bagliore del tramonto svanì, venne la notte, ed egli giaceva ancora, soddisfatto, in pace, sotto le fredde stelle.

    F i n e

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