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lettera di Martina Brugnoli
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Cari amici di I giorni e le notti, mi unisco al vostro Diario polifonico … questa mattina, ancora in stato di completa rêverie, mi prendevo il caffè, quando sono stata folgorata sulla via per il bagno da una frase uscita dalla radio: cito a memoria quindi le parole non sono esatte «nel 1948 il Pci espulse Pasolini dal partito dopo che era stato condannato per un rapporto omosessuale.» Queste parole le ha dette il vicedirettore dell’Espresso, Marco Damilano, a Prima Pagina- Filo Diretto, in onda su Rai3.
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In realtà Pasolini fu sospeso dall’insegnamento ed espulso dal Pci per un delitto che allora si chiamava “atti osceni in luogo pubblico” e ora si chiama “delitto contro la persona”. Vale a dire per un crimine di pedofilia visto che i ragazzi con cui ebbe rapporti sessuali erano 15enni . (Leggi qui N.d.R.).
Chi compie questo tipo di crimine, oggi, potrebbe essere condannato a diversi anni di prigione. Quindi la difesa di questi crimini è di fatto apologia di reato.
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Anche i suoi amici non parlano della sua omosessualità ma parlano della sua pedofilia; Roberto Arbasino nel 2005, sempre sulle pagine del supplemento di Liberazione, Queer, affermava : «Pier Paolo amava i minorenni, un’inclinazione che oggi sarebbe di una riprovazione assoluta».
Inoltre in un’intervista di Belpoliti che chiedeva ad Arbasino : «Tu hai scritto in un articolo, che qui nel libro non c’è, che nel caso di Pasolini che va coi ragazzi si trattava di pedofilia.» Arbasino rispose: «Sì. Era pedofilia, ma era anche un termine che allora non esisteva. Non c’era. Si tratta di un termine usato dopo.»
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Strano modo di pensare quello di Arbasino che dice che se non c’è una parola che definisca un tal comportamento, il comportamento non esiste. Cos’era allora Pasolini? Semplicemente un omosessuale che “amava i minorenni” ma non un pedofilo perché la parola pedofilia, secondo Arbasino, non esisteva nella cultura e nel lessico giudiziario?
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Un modo di pensare che a quanto pare è comune nel milieu culturale italiano visto che sul Sole24ore del 25 ottobre, in un articolo dal titolo Origini della filosofia -Talete non fu il primo, Dorella Cianci, recensendo il libro di Livio Rossetti, La filosofia non nasce con Talete e nemmeno con Socrate, scrive che, secondo l’autore, la “filosofia” non esisteva finché Platone non la nominò con questa parola: «I presocratici – scrive Cianci – vissero un momento di incubazione della filosofia, ma nessuno di loro (probabilmente) fu consapevole di fare filosofia! La filosofia dunque non nasce con Talete e neanche con Parmenide, ma diviene consapevole di se stessa e della sua parola con Platone. In Platone vi sono ben 350 occorrenze della parola filosofia, mentre per il periodo precedente le occorrenze sono di poche decine.»
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Cosa diamine facevano – mi chiedo – i Presocratici visto che nessuno aveva definito verbalmente ciò che andavano facendo? Filosofia significa, se non erro, “amore per la sapienza”. E quindi quando, tanto per fare un esempio, Parmenide cercava di conoscere e di definire verbalmente una realtà invisibile come quella degli atomi, cosa stava facendo? Non faceva filosofia? Si dedicava forse al giardinaggio?
Ma, forse, forse, per il nostri intellettuali per filosofia si intende solo la metafisica, cioè la mappazza teologica con cui ci si può masturbare mentalmente all’infinito.
Per molti intellettuali che si occupano di filosofia e, aimè, a volte la insegnano nei Licei e nelle Università, chi indaga la realtà con strumenti deduttivi e empirici cercando magari di conoscere origine e sostanza dell’essere umano, non è un amante della sapienza. Mentre Heidegger, colui che fondò il pensiero nazista, sì: lui è un grande filosofo.
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Anche l’ex vicepresidentessa della Martin Heidegger Gesellschaft Donatella Di Cesare, che fino a pochi mesi fa si scalmanava nella difesa del suo maître à penser affermando «Heidegger rimane il più importante pensatore del Novecento», ha una smodata fede nel logos che fonda la realtà.
In un suo lungo articolo apparso il 25.10.15 su Corriere-La Lettura la filosofa ha scritto che la vulgata, secondo la quale Spinoza fu scomunicato dai rabbini di Amsterdam, è falsa: «L’ebraismo non ha, – scrive Donatella Di Cesare contestando chi parla di scomunica – a differenza della Chiesa, né un’autorità centrale né un dogma teologico, sulla cui base si possa impedire la «comunione» di sacramenti.»
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Seguendo questo ragionamento Spinoza, (per i condiscepoli di Baruch), non fu scomunicato ma, scrive sempre la stessa Donatella Di Cesare: «Secondo le ricerche condotte negli ultimi anni si può dire che, in una saletta attigua alla sinagoga, i parnassìm , le autorità laiche, i capi riuniti nel ma’amad , il consiglio della comunità, diedero lettura di un testo in ebraico, andato perduto, di cui depositarono una copia in portoghese: per via delle sue horrendas heregias , «orrende eresie», si vietava ai membri della comunità di Amsterdam di avere ancora rapporti con Bento Spinoza.» … ma, mi chiedo, non è questa una contraddizione?
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Ora, anche se la tentazione è fortissima, non posso certo pensare che l’ex vicepresidentessa della Martin Heidegger Gesellschaft non sia in grado di capire il senso delle parole “comunità” e “scomunica”. Se un membro di una comunità viene cacciato e se si vieta agli altri membri di avere rapporti con lui, significa che viene messa in atto una scomunica che significa escludere un membro dalla comunità. Ogni gruppo sociale ha le proprie modalità sociali espresse in modo differenti. Per i cattolici avere “comunione di sacramenti” significa dividere “in comune” il “pasto antropofago”; le genti ebraiche esercitano la comunità stando tutti insieme nelle loro feste comandate e nella Sinagoga. Le differenze sono formali e non di contenuto. Si accetta nella comunità e si espelle dalla comunità tanto nella Chiesa cattolica che nelle comunità ebraiche: lo scrive persino Donatella Di Cesare contraddicendosi.
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Marco Damilano, Livio Rossetti , Donatella Di Cesare, a mio giudizio, interpretano la realtà seguendo pedissequamente i codici del logos occidentale e, purtroppo, i risultati sono questi. Quali siano le intenzionalità e i moventi che li spingono a eseguire questi giochi di prestigio verbali non lo so. Forse per Marco Damilano e Livio Rossetti , è un dovere santificare i loro eroi: Pasolini, Platone. Forse, non lo so, per Donatella Di Cesare dire che gli ebrei non espellono mai nessuno dalla loro comunità è una faccenda privata. Ripeto, non lo so. So che il loro modo di ricodificare a proprio uso e consumo la realtà storica è, per il sistema culturale a cui appartengono – sistema culturale egemone – non solo congruo ma addirittura auspicabile. Quindi per quel sistema culturale che è, ripeto, egemone, essi hanno ragione.
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Ma io non faccio parte di quel sistema. E posso quindi concedermi il lusso di scrivere solo con lo scopo di capire meglio e per dare a chi mi legge una diversa griglia interpretativa capace di scorgere, in questi slittamenti di senso, la distruzione di ciò che da sostanza alla verità: Spinoza, è stato espulso dalla comunità anche se nessuno ha usato la parola “scomunica”; Talete, Anassimene, Anassimandro, Eraclito, Parmenide erano filosofi perché amavano la sapienza anche se le parole filosofo e filosofia non erano ancora state mai scritte; Pasolini, (come scrive Marco Belpoliti su Nazione Indiana) fu condannato per un squallido (nonché mercenario) atto di pedofilia e non per un rapporto omosessuale come ha affermato Marco Damilano. Pasolini era un pedofilo anche se la parola “pedofilo” non è stata usata nel tribunale che lo ha giudicato. Non lo dico, io lo dicono i suoi più cari amici. (leggi qui N.d.R.)
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Le grandi cattedrali gotiche e romaniche costruite nel medioevo esistevano almeno settecento anni prima che venissero, nella prima metà dell’ottocento, definite verbalmente in quel modo … e dire “prima fu il verbo” indica, decisamente, uno strano “modo di pensare”, una “stranezza di pensiero” .
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Lettera inviata il 28 ottobre alle ore 17
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