• Gente di cinema – Interviste ai grandi registi – Wim Wenders (2)

      0 commenti

    parisTexas2 

    Dal sito Nikon School – Sguardi

    Immagini dal Pianeta Terra

     –

    Per la prima volta le fotografie del regista tedesco Wim Wenders, realizzate in giro per il mondo nel corso di più di vent’anni, sono esposte in Italia. Fino al 27 agosto le Scuderie del Quirinale di Roma ospitano Immagini dal pianeta terra, 61 fotografie di paesaggi sconfinati, vasti orizzonti, deserti e montagne, natura intoccata, mondi spogli, quasi privi di presenze umane, angoli di città, rari interni.

    Frammenti, non storie. Quello di Wenders, come racconta egli stesso nel volume “Immagini dal pianeta terra” è un viaggio attraverso molti luoghi, tra Usa, Australiano, Giappone, Cuba, Israele: «alcuni dei luoghi che ho fotografato stanno per scomparire, forse sono già scomparsi dalla faccia della Terra. Il loro ricordo dovrà aggrapparsi alle immagini che abbiamo di essi». Per l’intera durata della mostra, ogni sera sulla terrazza delle Scuderie del Quirinale verrà proiettato un film di Wenders o di un regista scelto da lui, per la rassegna “Wim Wenders e gli amici americani”

    ailes-du-desir-1987-07-g

    Lei ha dichiarato di sentirsi un “fotografo di paesaggi”. Perché i paesaggi la attirano così profondamente?
    I paesaggi danno forma alle nostre vite, formano il nostro carattere, definiscono la nostra condizione umana. E se sei attento a loro e acuisci la tua sensibilità nei loro confronti, scopri che hanno storie da raccontare e che sono molto più che semplici ‘luoghi’. Molti miei film sono stati influenzati dai paesaggi e dalle città in cui avevano luogo e alcuni in realtà sono partiti dai loro luoghi, come Il cielo sopra Berlino, Lisbon story o Million Dollar Hotel, per nominarne solo alcuni. Ma in un film i luoghi devono necessariamente giocare un ruolo secondario rispetto alla storia e ai personaggi. In fotografia posso dar loro il ruolo centrale.

    Nelle sue immagini raramente vi sono persone, quando accade sono individui isolati. Non c’è espressione di contesto culturale, di vita o energia, piuttosto contemplazione di paesaggi naturali o urbani. Non le interessa il fattore umano nelle immagini?
    Non è proprio così. Sebbene nella maggioranza dei casi io aspetti che le persone siano uscite dall’inquadratura, tuttavia esse giocano un ruolo importante nelle mie foto. Ma in realtà molto più attraverso la loro assenza che la loro presenza. Le persone lasciano sempre tracce dietro di loro. Mi interessano moltissimo i resti delle culture umane, i postumi di una civiltà, le rovine, gli avanzi.

    A cosa allude il “pianeta Terra” del titolo del sua mostra e del libro omonimo? Alla forza della natura, che c’è prima di noi e ci sarà dopo, che è più forte di ogni civilizzazione?
    Sostanzialmente si. Noi tendiamo sempre a credere di essere i padroni del mondo, che tutto ci appartenga, che possiamo fare ciò che vogliamo del pianeta Terra. Ma questa è una triste sopravvalutazione della nostra presenza e della nostra responsabilità qui. Alcuni dei luoghi che ho fotografato sono così antichi che la storia dell’umanità è solo una piccolissima frazione di secondo per loro. E mentre alcuni luoghi potranno scomparire (o essere già scomparsi), altri sopravviveranno alla presenza umana per milioni di anni. I paesaggi (naturali) possono insegnarci anche la modestia.

    wnders

    nella poesia in apertura del suo libro “Places” (Luoghi) si legge “facendo foto, non voglio darli per scontati, voglio portarli a non dimenticarsi di noi”.
    Credo fermamente che i luoghi abbiano dei ricordi e che noi abbiamo la capacità di leggerli e capirli. Ancora una volta siamo portati a pensare che siamo noi umani che creiamo i ricordi dei luoghi fotografandoli e filmandoli. Ho voluto semplicemente stimolare l’immaginazione delle persone affermando il contrario. La memoria maestra è la superficie del pianeta, non noi, i nostri dati o le memorie dei nostri computer.

    Un regista è per definizione un creatore di immagini, un narratore per immagini. Quali sono, a suo avviso, le principali differenze tra cinema e fotografia?
    I film sono indirizzati dalle storie, e sono il regista e gli scrittori che impongono queste storie. Dopo tutto narrare storie è la forma più antica di arte e cultura umana. Nel cinema usiamo la tecnologia moderna per trattare di miti antichi. Nella fotografia invece è il contrario, almeno per me: le storie vengono fuori dai luoghi, e la mia macchina fotografica è lo strumento per registrare questo. Inoltre, quando faccio foto posso starmene da solo, anzi la solitudine è quasi una condizione necessaria, mentre fare film significa essere circondati da molte altre persone e condividere l’atto creativo con gli altri, gli attori, i cameraman, il compositore, l’art director, l’editor, ecc.

     

    fotografare rappresenta una sorta di diario visuale per le location dei film, uno studio della luce e del contesto, o è per lei una maniera autonoma di esprimersi?
    E diventato sempre più atto autonomo. Ci sono viaggi che faccio esclusivamente per fare foto. Non riesco a fare le due cose insieme, o comunque, sempre meno. Quando giro un film devo concentrarmi interamente sui miei personaggi, sulle loro “vite” di fronte alla camera. E quando faccio foto mi concentro unicamente sull’atto intuitivo di essere il più aperto possibile ai paesaggi naturali e urbani di fronte a me.

    Per realizzare la maggior parte delle foto in mostra ha usato una macchina panoramica. Perché l’ha scelta? Per avere uno sguardo più ampio, più vicino a quello dell’occhio?
    Il mio “punto di riferimento” preferito è l’orizzonte, e la mia macchina panoramica colgono il più possibile di quest’orizzonte. Nessuna macchina in realtà si avvicina neanche all’occhio umano. Questo è ancora lo strumento superiore.

     

    I nomi di Edward Hopper e David Hockney sono stati evocati in relazione ai suoi lavori. Trova questi accostamenti appropriati?
    La storia della pittura mi ha influenzato molto più della storia del cinema o della fotografia. Da bambino quello che volevo era diventare un pittore e inizialmente i film erano per me un’estensione della tela. Ho imparato tutto sull’inquadratura e la luce da Vermeer. David Hockney è un grande artista conremporaneo e vedo che alcune delle cose che ci interessano possono sovrapporsi o essere viste in un unico contesto. Ma non credo che ci siamo influenzati a vicenda. Molte persone lavorano sulle stesse idee, nello stesso campo.

    wenders-wings-full 2

    Cosa pensa dell’avvento dell’immagine digitale?
    Nel cinema la tecnologia digitale ha fatto progredire enormemente il nostro vocabolario e la possibilità di raccontare storie e avere presa sul mondo contemporaneo. In qualche modo ritengo che lo stesso non sia accaduto in fotografia. Ho girato tre film interi in digitale ma nessuna delle macchine digitali che ho provato ha realmente attirato la mia attenzione e le ho sostanzialmente considerate come dei giocattoli. L’idea stessa, per esempio, che puoi fare una foto e subito cancellarla, fare che “non sia accaduta”, eliminarne qualsiasi traccia, questo mi fa orrore.

    Spesso i suoi film sono stati considerati, “road movie”, da “Alice nella città” a “Paris Texas” a “Fino alla fine del mondo”, con un’ambientazione altra, in qualche modo esotica. Anche queste immagini sono un viaggio, un road trip questa volta fotografico. È vero che per lei “ogni cosa è una scusa per continuare a viaggiare”?
    Non c’è scusa migliore per viaggiare che diventare testimone dei luoghi che attraversi. A volte questi hanno atteso per molto tempo che qualcuno si fermasse ad ascoltare le loro storie, la loro storia.

    Parlando di luoghi, so che ama molto le città, ma anche i deserti. Che dopo aver lasciato la Germania, è vissuto a Parigi e a Los Angeles. Quali sono, se esistono, i suoi “luoghi di elezione”?
    Sarebbe una lista molto lunga. Ma anche una lista sbagliata, perché non ho mai ritenuto di essere io che sceglievo questi luoghi. Ho sempre immaginato che fossero loro a scegliere me. O almeno che io fossi colui che aveva sentito il loro richiamo e mi fossi voltato per vedere ciò che loro volevano che io vedessi.

    Lei si definisce cosmopolita, piuttosto che tedesco o europeo. Ritiene che rivendicare una precisa identità nazionale, geografica o culturale, sia limitativo? Si sente appartenere a qualche luogo?
    Ho sempre invidiato quelle persone che sentivano un legame con un certo luogo che lo rendeva la loro “casa”, la loro vera terra, la loro “patria”. Per quanto mi riguarda, fin da piccolo ero affascinato dall’idea che c’erano luoghi che non conoscevo. Il mio senso di identità non è mai venuto da un luogo che conoscevo, ma solo dal mio desiderio di continuare a cercare e ricercare. Questo mi dava il senso di chi fossi veramente. Non appena ero “a casa”, questa certezza veniva meno.

     

    Chi è


    Wim Wenders è nato a Dusseldorf nel 1945, appena dopo la fine della guerra. Ha abbandonato gli studi di medicina e filosofia per dedicarsi alla pittura, ma una volta a Parigi ha scoperto il cinema. Dal 1967 al 1970 ha frequentato una scuola di cinematografia a Monaco e ha poi cominciato a dirigere e produrre i suoi film. La sua carriera di regista è costellata di riconoscimenti tra i quali il Leone d’Oro del 1982, (“Lo stato delle cose”) la Palma d’Oro (“Paris, Texas”) del 1984, l’European Film Award del 1988 (“Il cielo sopra Berlino”), una nomination agli Oscar (“Buena Vista Social Club2) e l’Orso d’Argento del 2000 (“Million Dollar Hotel”). Insegna all’Accademia delle Arti di Amburgo e vive tra gli USA e Berlino.

    Articoli correlati

    post del 15 giugno 2013

    Scrivi un commento