• Enciclopedia del crimine – Storia della Mafia – seconda parte

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     dalla Redazione

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     Storia della Mafia 

    seconda parte

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    Con don Vito la prima età dell’oro

    Tuttavia, nonostante questa insolente e non certo superficiale intromissione, bisogna aspettare ancora qualche anno prima di vedere sorgere l’uomo che avrebbe dato alla mafia il suo vero volto, la mafia ci mostra ancora oggi.

    Il creatore della mafia moderna si chiama Vito Cascio Ferro. Egli ne è il primo sovrano incontestato. Vito Cascio Ferro nacque nel 1862, nel piccolo paese di Bisaquino, vicino a Palermo. Il padre era campiere del barone Inglese. Molto giovane, Vito Cascio Ferro sposò una istitutrice e grazie a lei imparò a leggere e a scrivere, il che gli bastò per sganciarsi dal suo ambiente.

    Ma, se non era più un contadino, non era ancora un mafioso. Al contrario, sembra che in un primo momento egli voltasse le spalle alla mafia. Alla fine del secolo scorso, la situazione politica nell’isola era molto turbata. Alcuni gruppuscoli socialisti e anarchici, provenienti dalla penisola, cercavano di diffondere le proprie idee in mezzo ai contadini, i quali prestavano loro attenzione favorevole e cominciavano perfino a voler mettere in atto quelle idee, raggruppandosi in fasci. Ben presto, scoppiarono alcune sommosse, severamente represse dal potere costituito, che in quel frangente era aiutato dalla mafia.

    don Vito Gascio Ferro, il capo dei capi della mafia siciliana, il quale fu tra i primi ad introdurre le organizzazioni mafiose negli USA, trasformando I’antico ( u pizzu ‘ della sua terra nel racket all’americana.

    Il giovane Vito non si era schierato con l’ordine. Le sue simpatie andavano dall’altra parte. Egli divenne anarchico e diresse il piccolo fascio del suo villaggio. Partecipò anche all’occupazione delle terre. Ma la rivolta contadina venne rapidamente domata, e il giovane Vito fu costretto a fuggire

    in Tunisia. Con ciò, la sua carriera politica era finita. Ormai, avrebbe rivolto le proprie ambizioni altrove. Tuttavia, di quella breve esperienza anarchica gli rimarrà sempre qualcosa. Fino all’ultimo, don Vito si dichiarerà “amico del popolo”. Nel 1894, fece ritorno in Sicilia e immediatamente dopo entrò a far parte della mafia. Da allora la sua carriera fu tanto rapida quanto brillante. A lui si deve l’organizzazione del sistema di protezioni, è lui che organizzò numerosi rapimenti.

    Per i riscatti richiedeva enormi somme di denaro che gli permettevano di acquistare vaste quantità di terra e di aumentare legalmente la sua potenza. Nel 1898, venne accusato di aver rapito una ragazza. Processato e condannato, venne infine assolto per insufficienza di prove. Nonostante che

    il procedimento contro di lui si fosse risolto in una bolla di sapone, Vito preferì farsi dimenticare per un po’ e, nel 1901, si imbarcò per gli Stati Uniti. Rimase per qualche mese a New York, il. tempo sufficiente per prendere contatto con la mafia americana, poi si trasferì a New Orleans.

    Per la mafia, questo viaggio ebbe un’importanza storica. Infatti, era la prima volta che un vero don siciliano andava in America e che un legame ufficiale veniva stabilito tra le due mafie.

    Don Vito capiva i grandi vantaggi che derivavano per gli uni e per gli altri da una simile alleanza. È stato un italiano a scoprire l’America-disse ma sono gli irlandesi e gli ebrei a dirigerla. Ciò non è giusto. In altre parole quello stato di cose doveva cambiare.

    Prendendo le redini del comando sui suoi compatrioti, Vito Cascio li fece beneficiare della sua esperienza e contribuì così alla creazione della Mano Nera. Grazie a lui, i piccoli immigrati siciliani impararono a utilizzare e a organizzare su più grande scala il vecchio metodo dei loro antenati, ‘u pizzù’,  (racket), e ad applicare la protezione in campi a cui ancora nessuno aveva pensato.

    Nel 1904, don Vito, ritenendo che la Mano Nera potesse muoversi con le proprie gambe, ritornò in Sicilia, dove altri compiti di pari importanza lo aspettavano.

    Tuttavia, continuò a restare in stretto contatto con i suoi fratelli d’oltre oceano, e continuò a favorire l’immigrazione clandestina dei suoi concittadini, affinché costoro andassero a ingrossare le fila della mafia americana.

    L’emblema della Mano Nera

    Quando ritornò in Sicilia, don Vito aveva 42 anni. La sua ‘tournée’ negli Stati Uniti aveva accresciuto notevolmente il suo prestigio. Ormai, egli era riconosciuto capo indiscusso della mafia. Un tale titolo gli apriva tutte le porte. I nobili e i deputati, i vescovi e i funzionari più alti in grado, tutti erano felici di annoverarlo fra i propri amici. Tuttavia, egli non nascondeva il suo disprezzo né le sue vere ambizioni. Il suo sogno era sempre il potere, un potere sempre maggiore, e ricchezza, una ricchezza sempre maggiore. Per raggiungerli, egli continuò a ingrandire il suo regno.

    Ben presto, controllava quasi tutte le coste dell’isola, ampliando sempre di più la protezione e organizzando con mano da maestro ‘u pizzù’. Per don Vito, tutti i profitti erano buoni. Perfino i mendicanti di Palermo avevano ‘diritto’ alla sua protezione. In cambio dell’ ‘u pizzù’, veniva loro assegnato il portone di una chiesa o l’angolo di una strada ben frequentata.

    Perfino gli innamorati dovevano pagare qualcosa, per avere il diritto di fermarsi sotto la finestra della loro bella. Beninteso, non è certo con i soldi che gli venivano dai mendicanti o dagli innamorati che don Vito poté comperarsi un palazzo a Palermo o un nuovo feudo nella Conca d’Oro. Ma il suo ragionamento era che avrebbe ottenuto maggior rispetto e più obbedienza se tutti i siciliani, ognuno secondo i propri mezzi erano obbligati a pagargli qualcosa. Quando tutti sono trattati allo stesso modo, non ci possono essere gelosie.

    Il caso Petrosino

    A proposito di don Vito, qualcuno racconta una certa storia, probabilmente senza fondamento, ma che rivela bene lo stato d’animo dei siciliani nei suoi confronti. Si era nell’anno 1909. La Mano Nera dava già parecchi grattacapi alla polizia americana. Il capo della polizia di New York, Bingham, decise di inviare in Sicilia il suo segugio migliore, il tenente Giuseppe Petrosino, con l’incarico di ottenere informazioni sui metodi e sull’organizzazione della mafia sici’liana, e anche di ottenere la collaborazione della polizia italiana per mettere fine all’immigrazione clandestina dei giovani mafiosi, che non cessavano di recarsi in America per alimentare la Mano Nera.

    Giuseppe Petrosino

    Il tenente Petrosino si recò a Palermo il 28 febbraio e scese all’Hotel de France sotto falso nome. Cominciò a svolgere le prime indagini, con la maggior discrezione possibile, e nessuno sembrò fargli attenzione. In capo a otto giorni, sicuro di sé e fiducioso, inviò il suo primo rapporto ai

    superiori, dicendo loro che tutto procedeva bene. Qualche giorno dopo, verso le dieci di sera, mentre egli attraversava piazza Marina, un uomo sbucò da un’automobile, davanti a lui, e lo stese secco con quattro colpi di pistola. Quando giunse sul luogo la polizia, Petrosino era già morto. Piazza Marina era gremita di gente, ma nessuno aveva visto o sentito qualcosa.

    Quanto all’assassino, nessuno fu in grado di darne la minima descrizione. Perfino la marca della sua automobile non era stata notata.

    Tuttavia, quando si venne a sapere la vera identità della vittima, tutta Palermo si convinse che il sicario poteva solo essere don Vito in persona. Quella sera, don Vito era a cena in casa di un senatore. Raccontano che si sarebbe alzato da tavola prima della fine del pasto, avrebbe chiesto al- l’ospite di scusarlo, ma che doveva assentarsi per pochi minuti, il tempo di sbrigare un affare urgente. Un quarto d’ora dopo, era già di ritorno. Se l’opinione pubblica attribuì, senza esserne sollecitata, a don Vito la paternità di quell’assassinio, fu perché esso era notevole per almeno due ragioni: si trattava di un delitto perfetto (non venne mai scoperto il colpevole), e si trattava inoltre di un delitto mafioso (solo il capo dei capi della mafia siciliana poteva accogliere la sfida lanciata sul suo territorio dalla polizia americana).

    L’assassinio di Petrosino, che portava senza ombra di dubbio la firma della mafia, fece parecchio scalpore in Italia e negli Stati Uniti. Il presidente Roosevelt fece pervenire le sue condoglianze alla vedova del tenente e il Dipartimento di Stato fece pressioni presso il governo italiano affinché venisse preso il colpevole.

    Don Vito Cascio Ferro venne arrestato, ma, quando fu processato, egli venne assolto per insufficienza di prove. Dopo di che, malgrado le note di protesta di Washington, il caso fu archiviato. Don Vito uscì dall’intera faccenda più forte che mai.

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    Correva l‘anno 1909. Il regno di don Vito sarebbe durato ancora un decennio, durante il quale la mafia giunse all’apice della sua prima età dell’oro e gli affari dell’Onorata Società erano più fiorenti che mai. La proclamazione del suffragio universale, avvenuta nel 1912, portò inaspettatamente acqua al suo mulino, grazie alle lotte elettorali. Queste lotte le permetteranno, dopo che già si era impadronita dei feudi, di mettere le mani sull’amministrazione dei comuni. Ormai, i capimafia erano sindaci dei loro paesi o delle loro città, e i deputati devono a questi il seggio in parlamento.

     

    Per far trionfare i suoi candidati, la mafia inaugurò un metodo che si rivelò ben presto infallibile. Qualche giorno prima delle elezioni, i picciotti andavano a trovare gli elettori e imponevano loro precise disposizioni sul voto. Guai a coloro che non le seguivano: i granai potevano finire in fiamme, il gregge sgozzato, il raccolto saccheggiato.

    Ormai, depositaria del potere vero e, oltre tutto, del potere legale, la mafia, le cui mire non cessano per questo di crescere, comincia a provare interesse per le città, tanto più che il mondo contadino dà segni di sfinimento. La prima città è Palermo, dove la mafia ha già dei solidi addentellati, segue Trapani, Agrigento, Caltanissetta. Fatto strano, Messina, Catania, Siracusa, e in genere tutte le città situate nella zona a oriente dell’isola, resistono alla sua penetrazione: fenomeno che nessuno è riuscito a spiegarsi chiaramente.

    Comunque sia, e benché all’est trovi resistenza, la mafia si stende in tutto il resto dell’isola. L’ingresso in guerra dell’Italia, nel 1915, invece di ostacolare il suo continuo avanzamento efrenare la sua potenza, non fa, al contrario, che consolidarli. Lo Stato, dal momento che ha ben altri grattacapi, le concede una libertà totale, di cui essa usa e abusa senza complimenti.

    Per quanto riguarda i giovani picciotti, non tanto contrari alle armi, quanto all’uniforme e alla disciplina militare, essi disertano a migliaia, ben sapendo che don Vito si prenderà cura di loro. E infatti, quest’ultimo, capo previdente, li fa emigrare di nascosto negli Stati Uniti, dove vengono arruolati nelle truppe della Mano Nera.

    Mori non doma la mafia

    Tuttavia, una volta che la guerra finì e che l’euforia dei buoni affari si fu calmata, cominciarono le difficoltà per don Vito.

    Dopo la guerra, in Italia la situazione si fa torbida e minacciosa per l’avvenire della mafia. I ranghi di questa sono d’improvviso invasi da una moltitudine di ex combattenti che hanno visto da vicino gli orrori della guerra, che ne sono ritornati con la testa piena di idee nuove, soprattutto affamati di potere. Don Vito capì subito il pericolo che rappresentava questa nuova ondata di indisciplinati e di contestatori per quella che ormai era già considerata ‘vecchia mafia’, di cui don Vito è sempre il capo dei capi. Ma egli ha un bell’adoperare tutta la sua autorità, nel tentativo di calmare i giovani lupi: non riesce per nulla a contenerne lo slancio. Poco inclini a tener conto di una gerarchia che sembra loro superata, i nuovi arrivati si rifiutano di seguire le tradizionali consegne

    di prudenza, praticate fino allora dai più vecchi. Al contrario, rompendo il tacito patto stabilito non senza difficoltà tra Roma e l’Onorata Società, essi si gettano sull’isola come su di un Paese conquistato, e i loro eccessi sono tali, che fanno ben presto parlare di sé: grave errore che Mussolini, salito al potere nel 1922, seppe ben presto far loro pagare.

    Mussolini a siracusa

    È quasi certo che il duce conoscesse la mafia poco e male. Il suo odio per l’Onorata Società sembra nascere spontaneamente a Piana dei Greci.

    L’incidente di Piana dei Greci è celebre ed è stato riportato varie volte. Due anni dopo la marcia su Roma, Mussolini decise di fare un giro per la Sicilia. Egli non partì da solo, ma scortato da numerosi ufficiali e da tutto un seguito di poliziotti in borghese e di carabinieri incaricati della sua sicurezza. Quando giunse a Piana dei Greci, il sindaco del luogo, don Ciccio Guccia, che beninteso era un mafioso, domandò, nel dargli il benvenuto:

    «Ma perché avete condotto con voi tanti poliziotti? Al mio fianco, vossignoria non ha nulla da temere!»

     

    Era la pura verità, ma il duce prese la faccenda molto male. Senza dubbio ritenne – e questa volta il duce aveva ragione davvero –c he la sicurezza del capo di Stato italiano non poteva dipendere dal benvolere della mafia.

    Inoltre probabilmente pensò che quelle due forze, mafia e fascismo, erano fatte più per anteporsi l’una all’altra che per intendersi e che perciò era meglio sbarazzarsi della prima senza indugio.

    Non appena fu di ritorno a Roma, diede ordine di arrestare il sindaco di Piana dei Greci. Rivolgendosi ai deputati, disse loro:

    «Signori, è giunto il momento che vi sveli che cos’è la mafia, ma, prima di tutto, voglio spogliare questa associazione di briganti da ogni alone di poesia, di attrattiva. Che non si tiri fuori la nobiltà, lo spirito cavalleresco della mafia…»

     

    Cesare Mori

    Poi, nominò un poliziotto, Cesare Mori, prefetto di Palermo e gli diede carta bianca.

    Agendo così, Mussolini aveva certamente dei secondi fini. Sapeva che, di struggendo la mafia, avrebbe preso due piccioni con una fava. Da una parte, si sarebbe assicurato l’appoggio dei grandi

    proprietari terrieri, ben felici di scampare al dominio disonorante dei capi, ma soprattutto preoccupati per l’ordine e desiderosi di vedere finalmente un grande partito conservatore che difendesse i loro privilegi.

    La repressione guidata da Mori fu terribile. Era la prima volta che il governo italiano attaccava apertamente la mafia, e lo fece con le armi della mafia, cioè con cinismo, ferocia, e infischiandosene della legge. Servendosi dell’esercito, delle milizie fasciste e dei carabinieri, Mori ordinò numerosissime retate. Tutti furono inviati sotto processo, e furono centinaia gli imputati che si avvicendarono nei tribunali di Palermo, di Sciacca e di Termini Imerese. Per ottenere qualche confessione e per spezzare l’omertà, la polizia fascista non esitò a ricorrere alla tortura. Non si fece neppure troppi scrupoli nel fabbricare false prove. Lo stesso don Vito non scampò alla rete di Mori. Condannato all’ergastolo, per un reato fabbricato apposta per lui, il vecchio capo della mafia si accontentò di dire ai suoi giudici:

    «Signori, non potendo provare i numerosi delitti che ho compiuto, siete stati costretti a condannarmi per l’unico che non ho mai commesso».

     

    Il capo dei capi, rinchiuso in una cella come un volgare ladro, migliaia di picciotti tolti dalla circolazione, la maggior parte dei capi confinati nelle isole Eolie, si potrebbe credere, come credette Mussolini, che Mori fosse riuscito nel suo compito, che la mafia non si sarebbe mai più potuta riavere dopo una tale disfatta. Tuttavia, tutto ciò non è nulla: la cosa più importante, lo spirito mafioso, non è intaccato.

    La mafia ha subìto un duro colpo, certamente, ma non è morta. Con la sua prodigiosa capacità di adattamento, essa fa solo finta di esserlo. Si nasconde il tempo necessario per riprendere le forze e nell’attesa che giunga la prossima occasione per rinascere. D’altronde, essa può permettersi questo lusso. Non ha, infatti, oltre oceano, un figlio straordinariamente vivace, e già adulto, che quando verrà il momento, saprà ben lui dare l’aiuto necessario?

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    Mussolini in Sicilia

    Dalla Mano Nera a Cosa Nostra

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    1860. La maggior parte dei criminologi è concorde nel dire che questo è l’anno della nascita della mafia in America. La precisione è un po’ eccessiva. L’unica cosa di cui si è certi è che attorno agli Anni Sessanta giungono negli Stati Uniti le prime grandi ondate di emigranti italiani; tra costoro, numerosi sono i siciliani. Va da sé che alcuni sono mafiosi. Ma non bisogna credere che questi individui, sradicati dal loro ambiente naturale, si organizzino da un giorno all’altro. Bisogna che prima si adattino, ed è proprio da questo adattamento che nascerà la mafia americana.

    Certo, essa conserverà lo spirito e i metodi relativi alla sua origine siciliana, ma sarà anche qualcosa di nuovo.

    Quasi sempre è la miseria, la fame o la speranza di una vita migliore che incitano tutti quei meridionali a raggiungere l’America. Ma ciò che trovano alia fine del viaggio non corrisponde affatto ai loro sogni.

    Quasi tutti sono cattolici, contadini e analfabeti. Il Paese che li riceve è in maggior parte protestante e se è ancora privo di tradizioni, ignora completamente le loro.

    Infine, gli italiani sono gli ultimi arrivati: i posti migliori sono già presi, e i gruppi etnici che li hanno. preceduti, irlandesi, ebrei, greci e slavi, forti per il fatto di essere arrivati prima, non vogliono facilitare le cose.

    In un primo tempo umiliati, vilipesi, amareggiati, gli italiani non tardano d organizzarsi. Si uniscono in gruppi, serrano le fila, constatano per l’ennesima volta che l’unione fa la forza, e fondano, in ogni città, una Little Italy dove tentano di ricostruire, bene o male, la loro vita passata.

    Così riuniti, i siciliani con i siciliani, i napoletani con i napoletani, sono in grado di poter resistere meglio all’ambiente ostile che li circonda.

    Tuttavia, grazie al suo coraggio, al suo accanimento al lavoro, al suo saper fare e al suo spirito di adattamento, la colonia italiana non solo sopravvisse, ma riuscì anche a conquistarsi un posto al sole. Nel contempo, approfittando di queste condizioni favorevoli, la mafia si ricostituì. Se sarebbe ingiusto dire che fu la colonia italiana a creare la mafia americana, bisogna tuttavia ammettere che essa servì  alla mafia da culla. Senza colonia italiana, senza ambiente favorevole, e a volte complice, probabilmente la mafia non sarebbe mai sorta in America.

    Trent’anni dopo l’arrivo dei primi mafiosi, nel 1890, gli storici segnalino la presenza di una banda di siciliani a New Orleans, dove dettano legge nel porto. Nessuna nave può sbarcare o imbarcare qualcosa senza autorizzazione, senza pagare,  cioè, l’u pizzu. Quasi nel contempo, fece la sua apparizione la celebre Mano Nera che nei primi tempi imperversò solo nella colonia italiana.

    «Questo nome – spiega Peter Maas – veniva dal disegno di una mano nera grossolanamente tratteggiata in fondo alle lettere con le quali si esigeva denaro da una vittima determinata e minacciando generalmente di morte o di mutilazione i figli della vittima, nel caso che si rifiutasse di pagare.»

    Queste estorsioni erano riservate ai ricchi, ma, a volte, raggiungevano anche i poveri, l’operaio, come il fruttivendolo, i quali dovevano versare ogni settimana un dollaro al mafioso di servizio. Per chi si rifiutava di pagare, i rischi erano gravi.

    Poteva vedersi scoppiare una bomba in negozio, oppure essere ammazzato con una coltellata. In questo periodo, la maggior parte degli americani e la stessa polizia se ne stavano completamente al di fuori, indifferenti. Ritenevano che, fin tanto che certe pratiche non li toccavano direttamente, non valeva la pena di farci caso.

    Un incidente, tuttavia, cambiò questo stato di cose e fece sì, che per la prima volta, le parole mafia e Mano Nera, fossero riportate dai giornali. Il 18 ottobre 1890, il capo della polizia di New Orleans, Dave Hennessey, venne trovato ucciso. Furono arrestati parecchi individui sospetti. Ma anche in America esisteva l’omertà. Mancanza di prove. Tutti assolti. L’indignazione dei cittadini di New Orleans raggiunse il culmine. Di notte, presero d’assalto la prigione e linciarono i detenuti.

    Questa volta, toccò agli italiani, sia d’America sia d’Europa, gridare allo scandalo.

    È in mezzo a tutta questa gazzarra che don Vito sbarca in America e che prende contatti con i suoi fratelli d’armi. Dopo i baci e gli abbracci, don Vito non risparmia le sue critiche. In primo luogo, rimprovera ai compagni d’oltre oceano l’assassinio del poliziotto. Ripete loro che una delle regole fondamentali della mafia è di evitare gli scontri frontali con l’autorità.

    Se la si vuole neutralizzare, o meglio ancora servirsene, l’unica arma che si possa impiegare è il denaro. Ogni uomo è in vendita, sia esso poliziotto, deputato o senatore. È solo questione di prezzo. Certo, rimane il problema di trovare il denaro. Anche a questo proposito, don Vito raccomanda la prudenza.

    Si sa che don Vito rimase negli Stati Uniti per tre anni, durante i quali non perse il suo tempo. Come aveva creato la mafia moderna in Sicilia, così organizzò e rimodellò interamente la sua creazione americana. Sicuro che il vecchio sistema siciliano della protezione era infallibile, ne insegnò le regole fondamentali ai nuovi alunni. Poi, si sforzò di far loro comprendere i vantaggi della gerarchia e della disciplina. Quando ripartì per Palermo, nel 1904, la Mano Nera poteva vantarsi di aver raggiunto, se non addirittura superato, tutte le altre organizzazioni criminali d’America, benché in vigore da maggior tempo di essa: le bande degli irlandesi e quelle degli ebrei.

    L’insegnamento di don Vito portò ben presto i suoi frutti. Allargando la propria influenza di città in città, di Stato in Stato, la mafia si spandeva a macchia d’olio. Il racket venne organizzato su vasta scala e non era più limitato alla colonia italiana.

    Così l’opinione pubblica cominciò a turbarsi, e la polizia fu obbligata a intervenire.

    È in questo periodo che il capo della polizia di New York incarica il tenente Giuseppe Petrosino di mettere fine a questa ascesa troppo rapida, e soprattutto troppo vistosa. Petrosino è di origine italiana e ciò gli permette di comprendere meglio la mentalità dei suoi avversari. Egli non si risparmia. In pochi mesi, procede all’arresto di un gran numero di mafiosi, e ancora di più ne rispedisce in Italia. Ma la Mano Nera non sembra risentirne e, nel tentativo di contenere l’immigrazione clandestina, Petrosino s’imbarca per Palermo.

    Il seguito lo conosciamo già. Nonostante la morte del brillante poliziotto, e forse proprio a causa di essa, la polizia americana continua a dar del filo da torcere alla Mano Nera, registrando qualche insuccesso, a quanto pare, perché, tra il 1910 e il 1920, il racket subisce una netta diminuzione.

    Ma un fatto nuovo cambierà tutto, e la mafia ritornerà forte e prospera. Il 17 gennaio 1920, le chiese protestanti riuscirono a far votare dal Congresso il 180 emendamento che proclamava la proibizione di fabbricare e di vendere alcoolici.

    Era come offrire a tutti i contrabbandieri un mercato enorme, quello del più potente e del più ricco Paese del mondo.

    Infatti la prosperità americana non è più un miraggio. L’economia del paese è in piena espansione, il reddito è triplicato in dieci anni. Le città crescono vertiginosamente, il dollaro diventa valuta internazionale e il centro finanziario di New York rivaleggia con quello di Londra.

    Tuttavia l’America degli anni Venti resta ancora un enorme cantiere dove nel disordine si muove una società ancora in formazione e in pieno fermento. Tutti possono sperare di diventare ricchi, dipende solo dall’iniziativa personale.

    I mafiosi sono ormai integrati in questa società e non ragionano diversamente. Anzi sono proprio quelli che possono trarre un grosso profitto dal proibizionismo.

    E i mafiosi non si lasciano scappare l’occasione. Nessun gruppo etnico è equipaggiato meglio di loro per rispondere alla domanda di migliaia di spacci clandestini – i famosi Speakeasy – che si aprono un po’ dappertutto nel Paese. Il più delle volte di origine rurale, gli italiani hanno l’abitudine di fabbricare da sé gli alcoolici, e le piccole distillerie familiari, sono numerose. La mafia non deve far altro che metterci sopra le mani e industrializzare questo artigianato.

    La mafia non è l’unica a voler conquistare questo enorme mercato. Nel giro ci sono anche gli irlandesi e gli ebrei, che rappresentano una concorrenza temibile.

    Per farvi fronte, la mafia capisce che deve raccogliere le forze. Il suo capo d’allora è Joe Masseria. Egli incarica il suo braccio destro, Frank Costello, di convocare i principali responsabili. Un primo incontro viene fissato per il 5 dicem6re 1928,ma è interrotto dall’arrivo della polizia.

    Un secondo incontro ha luogo qualche mese dopo, il 13 maggio 1929, in un albergo di Atlantic City. Tutto fila liscio. I boss più importanti vi sono presenti. Provengono un po’, dappertutto: da New York a Chicago, da Filadelfia, a New Orleans.

     

    Sono in tutto ventisette. I più in vista sono Masseria, Costello, il napoletano Al Capone, Joe Adonis, Giunta, Vincent Mangino e Joe Profaci. Si tratta della prima conferenza al vertice di questo genere. Essa dura tre giorni, durante i quali avvengono numerosi scambi di idee e accese discussioni. Una volta terminata la riunione, le decisioni prese si rivelano molto importanti. Una soprattutto: emarginare dalla mafia gli ‘stranieri’, cioè tutti coloro che non sono siciliani. proprio per fare uno strappo, viene ammessa la presenza di qualche napoletano, come Al Capone o Vito Genovese. L’Unione Siciliana, detta altrimenti Cosa Nostra, è nata. Le altre decisioni prese nei tre giorni d’incontri al vertice riguardano soprattutto l’organizzazione interna della mafia: costituzione di un gran consiglio incaricato di regolare tutte le dispute che possono eventualmente sorgere fra i suoi membri; creazione di fondi comuni, costituiti attraverso una percentuale prelevata su ogni genere di guadagni: racket, gioco, prostituzione eccetera, e destinata ad alimentare i fondi necessari per pagare, corrompere o inserire nei libri paga poliziotti, funzionari, avvocati, uomini politici, in breve tutti gli amici i cui servigi si possono rivelare utili alla mafia, prima o poi. Questi fondi, destinati unicamente alla corruzione, raggiungeranno ben presto il tetto di milioni di dollari.

    Giuseppe Masseria

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    Le lotte feroci

     

    La conferenza di Atlantic City ebbe dunque un’importanza capitale. Da allora in poi, la mafia cambiò volto. Essa non fu più una congregazione che riuniva alcuni mafiosi nostalgici, che scarabocchiavano una mano nera in fondo a qualche lettera di minacce, ma una vera e propria impresa moderna, gestita come tale.

    Naturalmente, un impero simile aveva bisogno di un capo, e i candidati non mancavano. Il più in vista era Al Capone, ma non era siciliano e, nonostante la celebrità di cui godeva, non raccolse il consenso unanime. Infine, la rosa dei candidati fu circoscritta a Giuseppe Masseria e a Salvatore Maranzano. Entrambi erano tipi freddi, crudeli, senza scrupoli e pronti a

    tutto pur di raggiungere i loro fini. Ognuno aveva i propri sostenitori, e le loro forze erano suppergiù uguali. Gli uomini di Maranzano erano tutti originari di Castellammare del Golfo, e venivano perciò chiamati i castellammaresi, e la guerra che ben presto scoppiò tra i due aspiranti alla direzione dell’impero mafioso portò il loro nome.

    Tra di essi, si trova Joe Bonanno, Stefano Magaddino e Joe Profaci. Tra le file di Masseria, detto anche Joe the Boss, ci sono siciliani e napoletani. I più conosciuti sono Joe Adonis, Frank Costello, Vito Genovese, e soprattutto Lucky Luciano.

    Frank Costello

    Le ostilità scoppiarono nei primi mesi del 1930. Esse durarono un anno. Con un colpo di scena, improvvisamente ebbero fine.

    I principali luogotenenti di Masseria, Lucky Luciano e Vito Genovese, si rivoltarono contro il loro capo. Non conosciamo le ragioni esatte di questo tradimento, ma probabilmente Luciano riteneva i metodi di Masseria troppo conservatori e sorpassati, soprattutto per quanto riguardava il traffico della droga, che Joe the Boss sconsigliava agli amici d’intraprendere.

    La brillante carriera di Masseria ebbe termine l’11 aprile 1931, nel ristorante

    Scarpato di Coney Island. Egli aveva pranzato in compagnia di Luciano, Genovese e qualche altro amico. Dopo aver giocato alle carte, la maggior parte dei presenti se ne andò. Luciano rimase solo con il suo capo a chiacchierare tranquillamente.

    D’improvviso, dopo aver guardato furtivamente l’orologio, Luciano si alzò per avviarsi alla toilette. Durante la sua assenza, due killers entrarono nel ristorante e scaricarono le loro armi contro Masseria, che morì sul colpo.

    Il seguito lo conosciamo bene grazie alle confidenze che Valachi fece a Peter Maas. Non appena Masseria fu scomparso dalla scena, Maranzano riunì tutti i suoi amici in una grande sala del Bronx, nei pressi di Washington Avenue, poi annunciò loro: «Ora, tutto cambierà». Dopo essersi attribuito il titolo di capo di tutti i capi, egli dà le disposizioni secondo le quali deve organizzarsi Cosa Nostra. A partire da quel momento, l’organizzazione mafiosa sarà divisa in famiglie. Ogni famiglia avrà un capo. Agli ordini di quest’ultimo ci sarà un sottocapo, diversi luogotenenti o capi-regime e numerosi soldati. Rivolgendosi a questi ultimi, Maranzano spiegò le regole alle quali essi dovevano obbedire.

    Quando un soldato ha bisogno di vedere il suo capo deve andare prima dal luogotenente. Se la cosa è abbastanza importante, il luogotenente fissa l’appuntamento.

    Vito Genovese

    In altre parole a un soldato non è permesso correre sempre dal suo capo. Il concetto è di tenere sempre tutto ben sistemato e in ordine, in modo che la catena possa spezzarsi in ogni momento lasciando tutto nell’anonimato.

    Poi procedette alla distribuzione dei posti per le cinque famiglie newyorkesi. La prima fu attribuita a Luciano, con Vito Genovese come sottocapo, la seconda a Tom Gagliano, la terza a Josef Profaci, la quarta a Joe Bonanno e la quinta a Vincent Mangano. Dopo di che, il nuovo capo di tutti i capi indisse un fastoso banchetto per festeggiare il rinnovo di Cosa Nostra, banchetto che si tenne in un grande ristorante di Brooklyn.

    Il suo trionfo fu di breve durata e il suo regno resistette solo cinque mesi. Il 10 settembre, il capo dei castellammaresi venne ucciso nel suo ufficio al 230 di Park Avenue. Oggi, sempre grazie a Valachi, sappiamo chi fu l’istigatore di questo nuovo crimine: Luciano. Dopo aver tradito Masseria, non ci pensò due volte a tradire anche Maranzano. Lucky Luciano, Luciano il Fortunato, non era tipo da accontentarsi di poco. Era parecchio che manovrava nell’ombra per prendere il potere. Ora finalmente c’era riuscito. Tutta la storia della mafia americana, negli anni che seguirono, ricevette l’impronta della sua potenza e della sua singolare personalità.

    Luki Luciano

    Una volta eliminati Masseria e Maranzano, il campo è libero. Ma Luciano si guarda bene dal ripetere gli errori di chi lo aveva preceduto. Egli è assetato di potere quanto i suoi predecessori, ma è molto più bravo nel dissimulare l’ambizione.

    Innanzi tutto, abolisce il titolo troppo pomposo di capo di tutti i capi. Egli diventerà semplicemente il capo. Non tocca neppure le riforme di Maranzano, si limita a modificarle leggermente, e a piazzare i suoi amici Costello e Genovese in posti chiave.

    Nel contempo, sempre conservando la fetta più grossa per il clan siciliano viene a patti con le bande considerate prima concorrenti, come quelle di Dutch Schultz, Louis Buchalter o Meyer Lansky. Dopo di che, avendo messo alla prova la sua capacità di diplomatico, può consacrarsi interamente nella realizzazione del suo piano, che non ebbe il tempo di portare a termine, ma che fa del suo autore il più grande capo che la mafia abbia mai avuto. Secondo il piano di Lucky Luciano, Cosa Nostra doveva diventare una potenza mondiale, una specie di Stato negli Stati, propagandosi, a poco a poco, in tutta la terra, come un’immensa tela di ragno. Questo trust gigante del crimine, Luciano volle diversificarlo il più possibile. Al gioco, alle lotterie, alle bische, ai rackets di tutti i generi, aggiunse la prostituzione e soprattutto il traffico della droga. Quest’ultima assicurò ben presto alla mafia guadagni così fantastici, che la valutazione di essi si può fare solo in miliardi di dollari.

    Tuttavia, non sarà la droga a segnare la fine di Luciano, ma i postriboli. Il suo peggior nemico, il procuratore speciale Thomas E. Dewey, riuscì a far parlare qualche prostituta. Il 17 luglio 1936, Luciano fu condannato da 30 a 50 anni di carcere e venne rinchiuso nel penitenziari di Dannemora, nei pressi della frontiera canadese, un luogo tanto freddo da meritare il soprannome di Siberia.

    Vito Genovese foto da carcerato

    Con Luciano allontanato dal giro, Genovese e Costello, i suoi due luogotenenti, si assunsero il compito di mantenere i contatti. I due uomini non vanno troppo d’accordo, ma il boss, benché lontano da New York, è come se fosse sempre presente.

    Nessuno oserebbe disobbedirgli, e ancor meno cercare di soffiargli il posto. Quanto al terribile Thomas E. Dewey, se anche si felicitò del suo primo successo, sapeva benissimo che il suo compito era ben lontano dall’essere terminato. Gli rimanevano ancora parecchie teste da abbattere, se avesse voluto aver ragione della mafia. Preso Luciano, Dewey decise di passare all’attacco di Vito Genovese. Ma costui, più prudente del suo capo, preferì farsi dimenticare per un po’ e, nel 1937, si imbarcò per l’Italia. Nel doppiofondo della valigia portava con sé 750 000 dollari e, con una somma simile, non aveva paura certo di affrontare i fascisti.

    Rimasto solo, Costello si accontentò di comandare con molta prudenza. D’altronde, le circostanze imponevano un simile modo d’agire. Gli anni folli e facili erano lontani, e Cosa Nostra, per sopravvivere, doveva assumere rispettabilità almeno in apparenza. Costello fu uno dei primi a capirlo. Fu tanto intelligente da assicurarsi un paravento legale, investendo tutti i suoi beni in affari puliti, dal petrolio al mercato immobiliare. Ben presto, gli altri capi mafiosi seguiranno il suo esempio. Nel frattempo, in Europa scoppia la guerra. L’Italia si allea con la Germania.

    Ma le beghe degli altri non fanno paura alla mafia. Anzi, essa sa trarre profitto da certe torbide situazioni. Non solo, ma grazie a Vito Genovese, che è sul posto, essa è informatissima su tutto quanto avviene in Sicilia. Ma, se Cosa Nostra si accontenta per il momento di osservare, l’Onorata Società, come una bella addormentata nel bosco, avverte già i passi di chi la farà risvegliare dal suo lungo sonno.

    Le connivenze sempre più strette tra la mafia e il potere politico, si vanno via via delineando con chiarezza.

     

     continua …….

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    Tratto da Enciclopedia del crimine

     ©Fratelli Fabbri Editori, 1974

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