Pubblichiamo la “Storia di Salvatore Giuliano” tratta dall’Enciclopedia del crimine pubblicata tra il ’74 e il ‘75 da Fabbri Editori.
Il testo narra le vicende che portarono un contadino siciliano ad un ribellione omicida e suicida che sconvolse la regione siciliana per vari anni.
La storia del bandito Salvatore Giuliano si intreccia con quella italiana degli anni che vanno dal ’43 al ’50. In quegli anni ci fu lo sbarco degli Americani in Sicilia, 9 e 10 luglio ‘43; un tentativo di insurrezione separatista per far diventare la Sicilia uno Stato indipendente; le rivolte dei contadini che volevano la terra dei nobili latifondisti; e soprattutto la ‘resurrezione’ della mafia siciliana che era rimasta tranquilla ad aspettare tempi migliori per quasi vent’anni.
Tra le righe di questa drammatica vicenda – non dimentichiamo che fu Giuliano con i suoi uomini a compiere materialmente la strage di Portella della Ginestra – si vedono gli intrecci tra mafia e intelligence italiana e americana che hanno segnato la storia politica ed economica del mondo occidentale: dalla sbarco in Sicilia dell’esercito americano, all’omicidio di J.F. Kennedy, alle recente probabile trattativa Stato-Mafia di cui abbiamo parlato in un nostro recente articolo. http://www.igiornielenotti.it/?p=373
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Buona lettura
Emo Bertrandino
La storia di SALVATORE GIULIANO
La lettera a De Gasperi
Malgrado i suoi successi, Giuliano doveva far fronte a difficoltà di ogni genere, interne ed esterne. L’unità della sua banda era ben lontana dall’essere perfetta. Alcuni luogotenenti, Terranova per primo, non approvavano la guerra intrapresa da Giuliano per prestigio. Poiché il MIS aveva perso ogni credito, dato che la maggior parte dei suoi capi aveva cambiato bandiera, e poiché l’EVIS era stato dichiarato fuorilegge, essi non vedevano la ragione per continuare quella guerriglia senza scopo.
Interesse di tutti era ridiventare quello che erano realmente: dei banditi. Infine, invece di distribuire ai quattro venti i fondi che ottenevano con i rapimenti, volevano che venisse istituito un tesoro di guerra che permettesse loro, quando la situazione si fosse fatta insostenibile, di emigrare e di rifarsi un’esistenza altrove.
Giuliano da questo orecchio non ci sentiva.
Le sue ambizioni erano politiche, ed egli, nei panni di un bandito a riposo, non si vedeva proprio. Quanto ai soldi, se proprio non li disprezzava, non ne sentiva affatto il bisogno per sé. Li considerava semmai come un’arma supplementare, come un mezzo per accrescere il proprio prestigio e il proprio potere, assicurandosi, grazie ad essi, la riconoscenza e l’appoggio dei contadini poveri. Cercava di spiegare tutto questo ai suoi uomini, ma costoro lo seguivano sempre meno, e Salvatore era costretto a usare la maniera forte.
All’esterno, il rischio di cadere in trappola era ancora più grande e pericoloso.
La gloria che Giuliano stava conquistandosi, attirava verso di lui l’attenzione di tutti, e in particolar modo l’attenzione dei partiti di destra, che si preparavano già per le elezioni che si sarebbero tenute nell’aprile del 1947. Questi partiti sapevano quanto Salvatore Giuliano fosse impulsivo, generoso, emotivo e temevano una sua presa di posizione a sinistra, nella quale avrebbe trascinato seguaci e ammiratori. Per la verità, questi timori erano infondati.
Americanofilo convinto, Giuliano aveva in odio i comunisti. A Maria doveva un giorno dichiarare:
«A qualcuno il voto devo pur darlo, ci penserò, ma non voterò mai per i comunisti, perché essi non rispettano la legge dell’onore che è, per me, la più importante di tutte le leggi esistenti».
Si dice che, a quell’epoca, Giuliano si incontrasse segretamente e più volte con gli esponenti monarchici. È molto probabile: costoro erano, nella maggior parte dei casi, ex separatisti, il loro unico scopo era di mantenere intatti i propri privilegi di fronte alla minaccia socialista. Probabilmente, Giuliano non s’incontrò con i capi ufficiali del partito che non avevano alcun interesse a compromettersi con lui. In compenso, è certo che Giuliano ebbe numerosi contatti con il principe Alliata. I due si conoscevano da alcuni anni e si stimavano reciprocamente. Si sa ben poco di questi incontri, ma è certa una cosa: Alliata promise a Giuliano che, in caso di sconfitta, gli avrebbe offerto – e avrebbe offerto anche ai suoi amici – un rifugio sicuro in Sud America, dove il principe aveva dei possedimenti.
Probabilmente, Alliata aveva chiesto al bandito il suo appoggio e il suo aiuto in vista delle future elezioni. La risposta di Giuliano fu evasiva; egli non aveva alcuna ragione per credere al successo dei monarchici.
Il 15 agosto, per mettere le cose in chiaro, indirizzò al quotidiano L’Ora una lettera aperta al presidente del consiglio Alcide De Gasperi. Nella lettera, Giuliano esprimeva il proprio rammarico per aver constatato che, dopo le elezioni di giugno, i deputati non avevano mantenuto la promessa di aiutare i poveri. Non solo non era stato fatto nulla in loro favore, ma la vita, che andava rincarando ogni giorno, rendeva l’esistenza delle classi popolari sempre più precarie. In compenso, i ricchi stavano meglio che mai e sembrava che traessero grandi vantaggi dall’inflazione.
Con queste premesse, nessuno doveva meravigliarsi che lui, Giuliano, rubasse ai ricchi per dare ai poveri. Così facendo, egli si assumeva semplicemente le responsabilità che i politici avevano rifiutato e restituiva alla giustizia il posto che essa avrebbe dovuto occupare. La lettera di Giuliano terminava con un appello ai carabinieri, esortandoli a prendere coscienza che essi erano semplici “strumenti nelle mani dei ricchi, i quali li obbligavano a combattere contro i loro fratelli nella miseria, per difendere i privilegi degli oppressori”.
Il governo rispose offrendo una taglia su Salvatore Giuliano e inviando un contingente di mille uomini a Montelepre.
Qualche giorno dopo, Maria, la madre di Giuliano, venne nuovamente arrestata e rinchiusa nel carcere di Palermo.
La lettera a Truman
All’inizio del 1947, la fama di Giuliano, ormai diffusa in tutta la Sicilia e in tutto il continente, oltrepassò i confini d’Italia.
Ma anche se i giornali citavano spessissimo il suo nome, nessun giornalista era ancora riuscito a intervistarlo. Per questo, enorme fu la sorpresa quando si venne a sapere che Salvatore Giuliano era stato intervistato, non solo, ma che l’intervistatore era l’americano Michael Stern. Per la verità, la nazionalità di Stern aveva giocato a suo favore. Salvatore Giuliano non sarebbe stato capace di rifiutare nulla all’America.
L’intervista fece scalpore. Soprattutto a Roma dove provocò, da parte della sinistra, una valanga di proteste contro il nuovo ministro degli Interni Mario Scelba, un siciliano, accusato di essere né più né meno, il complice del suo patriota nell’odio per il comunismo. Ma tutto ciò era ben poca cosa se paragonato alla tempesta che si scatenò contro il ministro quando si venne a sapere di una lettera che Giuliano aveva inviato al presidente Truman tramite Stern. La lettera, piena di ingenuità non portava nulla di nuovo che fosse utile alla conoscenza del suo autore, la cui americofilia era ben conosciuta. L’unico segno dei tempi stava nel fatto che un banditucolo di 24 anni, qualche tempo prima completamente sconosciuto, si rivolgeva pubblicamente al presidente degli Stati Uniti.
«Caro Presidente Truman, se non vi disturbo, e se il mio messaggio non vi trova mal disposto, vogliate accettare l’umile appello di un giovane che è molto lontano dall’America, per quanto sia assai noto, e vi chiede aiuto per la realizzazione di un sogno che fino a oggi non è riuscito ad avverare.
Permettete che mi presenti. Il mio nome è Salvatore Giuliano. I giornalisti hanno fatto di me o un eroe leggendario o un delinquente comune. Suppongo che nemmeno voi abbiate un’idea chiara di quel che io sono.
Se voi me lo permettete, vi dirò in breve la mia storia nella sua vera successione. Quando avevo ventun anni – per la precisione nel settembre del 1943 – dopo una rissa che mi portò a uccidere un poliziotto italiano, il quale aveva cercato di ammazzarmi, diventai un fuorilegge. Non mi restava altro che il mio sublime e sacro attaccamento alla mia terra siciliana. Sono stato annessionista sin dalla fanciullezza, ma a causa della dittatura fascista, non ho potuto mostrare palesemente i miei sentimenti. Per quanto fossi latitante, seguivo da vicino la libertà politica portata dagli americani, e solo allora pensai di avverare quello che per tanto tempo era stato il mio sogno. Per tradurre in realtà il mio ideale mi unii ai membri del Movimento per l’indipendenza siciliana. Il nostro sogno era di staccare la Sicilia dall’Italia, e poi di annetterla agli Stati Uniti.
Nel 1944 i muri della maggior parte delle città siciliane, compresa Palermo, furono coperti di manifesti in cui si vedeva un uomo (io stesso) che taglia la catena che tiene la Sicilia legata all’Italia, mentre un altro uomo, in America, tiene un’altra catena a cui è unita la Sicilia. Quest’ultimo è il simbolo della mia speranza che la Sicilia venga annessa agli Stati Uniti.
Per spiegarmi meglio accludo la fotografia…
Ci occorre la cosa più essenziale: il vostro appoggio morale. Voi potreste, e a ragione, chiedere: “Qual è il fattore più importante che vi spinge a questa lotta per la separazione dall’Italia? E inoltre, perché volete che la vostra splendida isola diventi la 49′ stella americana?”
Ecco la mia risposta:
I – Perché con la guerra perduta, noi ci troviamo in uno stato disastroso, e cadremo facilmente preda degli stranieri, specialmente dei russi, che ambiscono ad affacciarsi sul Mediterraneo. Se questo dovesse accadere, ne deriverebbero conseguenze di enorme importanza, come voi sapete.
II – Perché in 87 anni di unità nazionale, o, per essere esatti, in 87 anni di schiavitù all’Italia, siamo stati depredati e trattati come una misera colonia. Come scrisse giustamente Alfredo Oriani in uno dei suoi articoli “il cancro legato al piede dell’Italia”.
Non vogliamo assolutamente rimanere uniti a una nazione che considera la Sicilia una terra di cui ci si serve solo in caso di bisogno, per poi abbandonarla come una cosa cattiva e fastidiosa, quando non serve più.
Per queste ragioni noi vogliamo unirci agli Stati Uniti d’America. La nostra organizzazione è ormai interamente compiuta; abbiamo già un partito antibolscevico pronto a tutto, per eliminare il comunismo dalla nostra amata isola. Non possiamo tollerare più oltre il dilagare della canea rossa. Il loro capo, Stalin, che come voi ben sapete, manda milioni su milioni per conquistare il cuore del nostro popolò – con il solito sistema politico basato sulla falsità – ha in qualche misura incontrato i favori della popolazione. Ma noi, fortunatamente, noi non crediamo al paradiso che Stalin ci ha promesso. Noi risveglieremo la coscienza del popolo, scacciando il comunismo dalla nostra nobile terra, che fu fatta per la democrazia. Noi non permetteremo a questa gente ignobile di toglierci la libertà, che per noi siciliani è il più essenziale e il più prezioso elemento di vita…
Signore, vi preghiamo di ricordare che centinaia di migliaia di uomini aspettano d’essere liberati.
Permettete, caro signore, che vi ossequi il vostro umilissimo e devoto servitore Giuliano»
Portella della Ginestra
Il risultato delle elezioni dell’aprile 1947 per l’istituzione di un parlamento regionale siciliano, causò una profonda sorpresa: si ,verificò una vera e propria marea di voti in favore della sinistra. Il Blocco del Popolo, che riuniva tutti i partiti di sinistra, ottenne 567 392 voti, quasi il 3O%. La DC ne ottenne solo 399 860, seguita dai Qualunquisti con 312 283 voti e infine dal Partito Monarchico che ottenne solo 185 865 voti.
Si può facilmente indovinare la reazione degli amici di Giuliano – mafia inclusa al successo della sinistra. – Essi compresero che era giunto il momento di reagire e decisero che bisognava impiegare ogni mezzo per far fronte al ‘pericolo comunista’.
Uno di questi mezzi era Giuliano. Senza perdere altro tempo, alcuni elementi di destra si misero in contatto con il fuorilegge. Secondo Michele pantaleone, i primi a prendere contatto furono i monarchici, tramite un avvocato di Montelepre, Cusumano Geloso. Poi fu la volta dei democratici-cristiani, rappresentati da alcuni agenti elettorali, quali il cavaliere Santa Flores di Partinico, e Leonardo Renda, segretario della sezione DC di Alcamo. (Michele Pantaleone Mafia e política ed, Einaudi, Torino.)
Tutti offrirono al giovane bandito l’impunità in cambio del suo aiuto elettorale.
Questa volta, Giuliano accettò senza mercanteggiare. La Democrazia Cristiana e il Partito Monarchico non rappresentavano forse la maggioranza, la forza politica che già governava la Sicilia e l’Italia?
Chi richiedeva i suoi servigi? Chi lo incaricava di agire per difendere i suoi interessi?
Il potere costituito, naturalmente. Una settimana dopo i vari incontri, Giuliano si trovava a Saracino, quando suo cognato, Sciortino, gli consegnò una lettera. Giuliano la lesse, in disparte, in maniera che gli altri non potessero leggerne il contenuto, poi si affrettò a bruciarla.
La sera stessa, diceva a uno dei fratelli Genovese, Giovanni: «L’ora della nostra liberazione è arrivata».
Non si è mai riusciti a conoscere il contenuto esatto della lettera, né chi l’avesse inviata a Giuliano. Gli unici a dividere il segreto con il bandito furono, forse, Genovese e Gaspare Pisciotta.
Si è quasi certi che la lettera fu all’origine del massacro di Portella della Ginestra.
Si può anche supporre che essa fu la principale ragione dell’assassinio del suo destinatario.
Giuliano incaricò Giovanni Genovese e Sciortino di comunicare ai membri più importanti della banda, una trentina circa, il seguente ordine: tutti dovevano trovarsi; la sera del 30 aprile 1947, nella regione di Cippi, non lontano da Montelepre. Giuliano giunse per ultimo all’appuntamento.
Esordì dicendo ai compagni che la lotta contro i comunisti aveva inizio. Quelle parole non suscitarono alcuna obiezione. Poi Giuliano impartì le istruzioni per il giorno dopo e, fin dall’alba, la banda, divisa in tre squadre, si diresse verso portella della Ginestra.
Portella della Ginestra è situata sulla sommità di uno stretto passaggio tra le montagne, uno dei passi attraverso i quali si raggiunge la valle dello Jato. Ma cediamo la parola a Gaetano Falzone: (Gaetano Falzone “Storia della mafía”).
«Una lunga tradizione, interrotta dal fascismo, voleva che tutti gli anni i contadini di Piana degli Albanesi celebrassero, nei dintorni di quello che veniva chiamato il Passo di Barbato, la festa del 1maggio.
Si trattava di una festa campestre, più che di una manifestazione politica; ed era proprio così che il dottor Nicola Arbato, un uomo bonario, voleva che fosse. Erano le prime ore del pomeriggio, quando un oratore salì sul palco per pronunciare qualche modesta parola di commemorazione. Ma non riuscì nemmeno a cominciare, perché alcune raffiche di mitra falciarono la folla pacificamente riunita. Undici morti e ventisette feriti rimasero sul terreno. Guliano ordinò ai suoi uomini di ritirarsi e, insieme con solo undici di loro si allontanò passando per i campi di un certo Strasatto. Nell’attraversare quella proprietà, incontrò Bussellini, il guardiano, e, dopo averlo costretto a indicargli la strada giusta, lo uccise e ne nascose il cadavere».
Che cosa era dunque accaduto? Giuliano aveva volontariamente permesso che la sua aureola di “difensore della giustizia dei Poveri” andasse in frantumi? Certamente no. Forse si era trattato di un incidente, di uno spaventoso errore. Giuliano non negò mai la propria responsabilità ma, nel suo memoriale su Portella della Ginestra, che venne presentato nell’aprile 1951 ai giudici della Corte di Viterbo, egli scrive che la sua intenzione era di (sparare a circa venti metri al di sopra della folla, affinché, sentendo fischiare le pallottole, essa si spaventasse, e la festa venisse interrotta. Se i fatti si svolsero in tutt’altra maniera e se l’attacco si concluse in un “modo tragico e incredibile” fu, sempre secondo Giuliano “perché ad alcuni la mano tremò, oppure perché non furono capaci di agire nel modo dovuto”.
Ciò che dice Giuliano sembra degno di fede. La sparatoria durò una decina di minuti, e sul posto furono ritrovati più di 800 bossoli. Se i banditi avessero sparato deliberatamente sulla folla, le vittime sarebbero state centinaia. D’altra parte, alcuni testimoni raccontarono di aver udito provenire, proprio da dove i banditi erano appostati, un grido: «Disgraziati! Che cosa fate?»
Dopo Portella della Ginestra, Giuliano se ne stette tranquillo per alcune settimane.
Senza dubbio, il bandito aveva bisogno di riflettere e anche di “mandar giù” il boccone amaro rappresentato da quel massacro. Tuttavia, egli non abbandonò i suoi alleati, né i suoi obiettivi. La sua lotta contro i comunisti riprese rapidamente con rinnovata energia. Ma da allora Giuliano fece la massima attenzione a non provocare vittime innocenti. Il 24 giugno, attaccò, anche con bombe, le sedi del partito Comunista a Partinico, Borgetto, Cinisi, e la sede del Partito Socialista di Monreale.
Qualche giorno dopo, la stessa sorte toccò alle sedi di Bioppo, San Giuseppe Jato, San Cipirello e Casini. Ovunque passava, la banda Giuliano distribuiva migliaia di volantini e ricopriva i muri con scritte che dicevano: “Morte ai comunisti! Viva Giuliano, liberatore della Sicilia”.
Questa serie di azioni, seguite al massacro di Portella della Ginestra, suscitò reazioni un po’ ovunque in Italia, ma soprattutto a Roma. Vi furono scioperi di protesta, una seduta straordinaria al Senato, interrogazioni alla Camera. La stampa di sinistra attaccò ancora una volta Scelba, accusando la sua politica siciliana e il suo uomo, Messana, capo della polizia di essere d’accordo con Giuliano e con la mafia per cercare di distruggere il partito Comunista nell’isola.
Quanto allo stesso Messana, del quale nessuno ignorava la simpatia per i separatisti, con tutta probabilità non fece nulla per molestare Giuliano, nello svolgimento della sua crociata di “salvatore pubblico”.
Anche Messana non rimase sulla scena a lungo. In un tentativo di placare la compagine della sinistra, Scelba trasferì Messana e nominò al suo posto Verdiani, il cui ruolo nel caso Giuliano sarà ancora più importante e più oscuro.
Le elezioni politiche ebbero luogo il 18 aprile 1948. E l’operato di Giuliano portò i suoi frutti: un trionfo della destra, e soprattutto del centro. Il bandito di Montelepre poteva essere contento. Aveva mantenuto i patti. Toccava adesso alla controparte mostrare la sua buona volontà nei confronti di Giuliano, mantenendo le promesse.
Novità del 26 novembre 2012
Questo è il link
http://www.antimafiaduemila.com/2011122235109/focus/strage-di-portella-ecco-i-mandanti.html
dello scoop del settimanale Famiglia Cristiana che ha pubblicato un servizio esclusivo sulla Strage di Portella della Ginestra, dove sono descritte le Conclusioni del Pm Pietro Scaglione, ucciso dalla mafia il 5 maggio del 1971.
In un documento del 1953, il procuratore Scaglione parla apertamente di finalità anticomuniste della strage e di rapporti tra le forze dell’ordine e il banditismo.
La rottura
Nel corso dei giorni seguenti, Giuliano non ricevette alcuna notizia dai suoi amici monarchici e democristiani. Nell’euforia del successo, essi dovevano essersi dimenticati di invitarlo ai festeggiamenti della loro vittoria comune. Turiddu aspettò ancora una settimana, poi si decise a sollecitare il conto dei suoi servigi, cioè e soprattutto, l’amnistia per sé e per i suoi uomini.
Uno alla volta, rivide Geloso, il cavaliere Santa Flores e Leonardo Renda. Tutti furono estremamente cortesi con lui, ma le loro risposte erano molto evasive. Certo, Giuliano poteva contare sulla parola che avevano dato: ogni promessa è debito, ma decisione così importante come l’amnistia non dipendeva direttamente da loro.
Solo Roma poteva prenderla. Ma Roma era lontana: Giuliano doveva dunque pazientare e non prendersela. Ogni cosa a suo tempo.
Giuliano rimase molto irritato dal ritardo e decise di rapire Bernardino Mattarella che era stato nominato sottosegretario ai Trasporti, non appena si fosse presentata l’occasione propizia. Nel frattempo, dopo aver aspettato inutilmente un altro mese, Giuliano decise di passare all’azione. Il primo a cadere sotto i suoi colpi fu il cavaliere Santa Flores. Poi fu la volta dell’uomo di fiducia di Flores: Carlo Guarino. Giuliano e i suoi uomini fecero irruzione a casa sua, in pieno giorno, e massacrarono a colpi di mitra Guarino, il figlio di tre anni e un amico di passaggio, un certo Francesco Gulino.
Questa selvaggia ritorsione non diede alcun frutto a Giuliano, tranne l’ostilità di una parte della mafia, quella che veniva chiamata “la vecchia mafia”, per distinguerla dalla mafia più recente che era sorta dopo lo sbarco alleato. Giuliano capì ben presto in che vespaio si fosse cacciato.
Ma era troppo tardi per tornare indietro.
D’altra parte, egli pensava di essere ancora abbastanza potente, credeva di avere abbastanza carte da giocare e di poter contare su sufficienti appoggi per ispirare paura ai suoi nemici.
La carta più importante in suo possesso era tutto ciò che conosceva, molto compromettente, su persone che occupavano posti importanti. Tra l’altro, c’era la famosa lettera che aveva ricevuto il giorno prima del massacro di Portella della Ginestra.
Sfortunatamente, l’aveva distrutta. Ma che importava? Poteva pur sempre scrivere tutto quanto sapeva, con nomi e cognomi, date, luoghi di incontro e argomenti discussi.
Giuliano perciò si ritirò qualche giorno nella casa di un amico, per mettere in pratica la sua idea. Non appena ebbe terminato il breve “memoriale”, lo nascose in un posto sicuro, poi fece in modo che gli interessati venissero a sapere della sua esistenza. A buon intenditor, poche parole.
Dopo di che, si sentì molto meglio. Quei pochi fogli di carta lo avrebbero protetto dalle fucilate dei suoi nemici molto meglio di qualunque corazza.
I suoi luogotenenti, in particolare Terranova e il cognato Sciortino, ragionavano in maniera diversa. Persuasi ormai che i politicanti non avrebbero tenuto fede alle loro promesse e che la mafia non li avrebbe più lasciati in pace, avevano un unico desiderio: abbandonare l’isola il più in fretta possibile. Giuliano cercò invano di trattenerli. Terranova, conducendo con sé parte dei suoi uomini, se ne andò per primo. Salì, a Castellammare del Golfo, su una piccola imbarcazione clandestina, alla volta della Tunisia. Sciortino voleva emigrare negli Stati Uniti. Benché la moglie fosse in prigione, non aveva nessuna voglia di aspettare che venisse rimessa in libertà. Lei avrebbe potuto raggiungerlo più tardi. La cosa più importante era mettersi al sicuro.
Accompagnando il cognato al luogo d’imbarco, gli affidò il suo memoriale, raccomandandogli di non separarsene mai; lui, Turiddu, gli stava affidando la sua stessa vita. Sciortino promise, abbracciò Giuliano e salì a bordo.
Nei giorni successivi per Giuliano ci fu un piacevole intermezzo. Il ‘riposo del Guerriero’ fu rappresentato da una giornalista svedese, una certa Maria Scyliakus.
In realtà, la donna era molto meno graziosa di quanto la rese la fantasia popolare, ma si trattava di una persona vivace, intelligente e piacevole. Trascorse tre giorni con Giuliano che, sempre secondo la leggenda, pagò del suo, il che permise alla giovane giornalista di pubblicare un articolo, su un settimanale francese, con il titolo “Il mio amato bandito”.
Questo rapporto fece clamore. Infatti quasi nulla si sa sugli amori di Turiddu, tanto che su di lui sono sorti sospetti abbastanza consueti in simili casi, di omosessualità. Misogino, certo, non era: si mostrava sempre cortese e deferente di fronte a una donna e non mancava mai di prenderne le difese.
Recentemente, su rotocalchi italiani sono apparse interviste a un giovane che ha dichiarato di essere figlio di Giuliano; la stessa sorella del bandito, feroce custode della sua memoria, dopo aver conosciuto il ragazzo non avrebbe escluso tale possibilità.
Tuttavia, la conclusione più verosimile è che l’amore e il sesso abbiano occupato nella vita del bandito poco spazio: più importante, forse, era il suo fucile mitragliatore, sul calcio del quale, il compagno Castrense Madonia aveva inciso queste parole: “Dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Iddio”.
E sarebbe stato il suo motto.
L’inizio della fine
Il 15 luglio 1948, Maria venne arrestata di nuovo. Su di lei questa volta pesava l’accusa di complicità in estorsione e in ratto. Fu condannata a 5 anni di reclusione. Salvatore, il marito, in carcere contemporaneamente a lei, fu confinato nell’isola di Ustica, anche lui per un periodo
di 5 anni. Tre mesi più tardi, in ottobre, fu la volta di Giuseppina e del marito Gaio.
Secondo il suo solito, Giuliano si precipitò in soccorso della famiglia, ma a dispetto dei suoi ripetuti interventi e delle sue insistenze presso amici ‘sicuri’ (persone che occupavano cariche molto importanti nella polizia e nella magistratura), non riuscì ad ottenere alcuna riduzione delle pene per i suoi.
Le cose intanto non accennavano a cambiare e Giuliano cozzava contro una barriera invisibile che ritardava i suoi progetti.
Giuliano non tardò a capire che questa barriera era la mafia e, per tentare di abbattere l’insidioso accerchiamento, reagì in maniera brutale. Decise di realizzare il suo vecchio progetto di rapire Mattarella. La sera del 7 agosto 1948, appostò i suoi uomini sulla strada, tra Alcamo e Calatafimi, fermò e perquisì tutte le vetture che transitavano. Gli avevano detto che Mattarella doveva rientrare per quella strada, dopo aver inaugurato i nuovi lavori per il porto di Castellammare del Golfo. Ma il sottosegretario fece un’altra strada, e Giuliano, con le pive nel sacco, smobilitò il posto di blocco. Ma non si scoraggiò e progettò di mettere le mani su un personaggio anche più importante: lo stesso capo della mafia, Don Calogero Vizzini.
Secondo Michele Pantaleone, ( Michele Pantaleone Mafia e politica ed,Einaudi, Torino)
«DonCalò sapeva di essere in pericolo. Dopo l’episodio di Mattarella, egli rimase per alcune settimane rinchiuso nell’albergo Sole di Palermo, non osando farsi vedere in giro.
Due uomini di sua fiducia, armati fino ai denti, Rosario Calderone e Salvatore Mazzarese, dormivano nella sua stessa camera, mentre un gruppo numeroso di amici montava la guardia nella hall dell’albergo e nella piazza di fronte. Un giorno, non potendo fare a meno di andare a Villalba, uscì di nascosto da una porticina secondaria dell’albergo, lasciando i guardiani al loro posto per ingannare il bandito. Giuliano tuttavia venne a sapere che sarebbe tornato il giorno dopo e fece appostare trenta uomini sulla strada tra Bolognetta e Villabate dove Don Calò avrebbe dovuto passare. La macchina del Vizzini passò effettivamente, ma i banditi vi trovarono soltanto l’autista, la valigia, e tale Vincenzo Longo, che, spaventatissimo, corse, contro ogni costume dell’“onorata sociètà”, a denunciare il fatto alla polizia.
Don Calò, invece, aveva fatto la strada sul furgoncino di un ortolano, nascosto tra le ceste di verdura. Giuliano aveva dovuto fare affidamento su un “amico” di Villabate, che aveva subito avvertito il vecchio capomafia di Bolognetta. Serafino di Bari, amico fraterno di Don Calò.»
In seguito a questo duplice insuccesso, Giuliano sfogò la propria collera sugli odiati carabinieri. A Torretta, ne uccise uno e ne ferì dieci; a Portella della Paglia ne uccise quattro; un altro a Partinico. Qualche giorno dopo, attaccò nuovamente la caserma di Bellolampo: otto carabinieri morti, nove feriti.
Gli stessi siciliani vivevano ormai nel terrore, mentre quasi tutta la stampa italiana sollecitava il governo perché finalmente prendesse le misure necessarie a por fine a quella carneficina.
Qualche giorno più tardi, il 25 agosto1948, nel corso di un lungo colloquio tra il ministro degli Interni Mario Scelba e il presidente della Regione Siciliana, l’onorevole Franco Restivo, venne deciso di sopprimere l’ispettorato generale di polizia per la Sicilia e di fondare il C.F.R.B. (Corpo delle forze per la repressione del banditismo), agli ordini del colonnello Luca.
Continua ….
zenon bulbs
12 Aprile 2013 @ 17:08
In all honesty this is an incredible advanced write-up nevertheless as with every fantastic authors there are several points that is worked on. However by no means the actual less it turned out stimulating.