Pubblichiamo la “Storia di Salvatore Giuliano” tratta dall’Enciclopedia del crimine pubblicata tra il ’74 e il ‘75 da Fabbri Editori.
Il testo narra le vicende che portarono un contadino siciliano ad un ribellione omicida e suicida che sconvolse la regione siciliana per vari anni.
La storia del bandito Salvatore Giuliano si intreccia con quella italiana degli anni che vanno dal ’43 al ’50. In quegli anni ci fu lo sbarco degli Americani in Sicilia, 9 e 10 luglio ‘43; un tentativo di insurrezione separatista per far diventare la Sicilia uno Stato indipendente; le rivolte dei contadini che volevano la terra dei nobili latifondisti; e soprattutto la ‘resurrezione’ della mafia siciliana che era rimasta tranquilla ad aspettare tempi migliori per quasi vent’anni.
Tra le righe di questa drammatica vicenda – non dimentichiamo che fu Giuliano con i suoi uomini a compiere materialmente la strage di Portella della Ginestra – si vedono gli intrecci tra mafia e intelligence italiana e americana che hanno segnato la storia politica ed economica del mondo occidentale: dalla sbarco in Sicilia dell’esercito americano, all’omicidio di J.F. Kennedy, alle recente probabile trattativa Stato-Mafia di cui abbiamo parlato in un nostro recente articolo. http://www.igiornielenotti.it/?p=373
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Buona lettura
Emo Bertrandino
La storia di SALVATORE GIULIANO
La trappola
Piccolo, magro e calvo, la faccia marcata da rughe profonde, il nuovo avversario che veniva contrapposto a Giuliano, era molto meno innocuo di quanto apparisse a prima vista.
Il colonnello Ugo Luca proveniva dal S.I.M. (Servizio Investigativo Militare) e i suoi brillanti successi durante la campagna d’Africa gli avevano fruttato il soprannome di “Lawrence di Libia”. Lui stesso aveva scelto il suo comandante in seconda nella persona del capitano Antonio Perenze, già, suo subalterno in Africa. Perenze era un uomo di circa quarant’anni, corpulento, allegro e gioviale, che portava baffetti curatissimi.
Prima di sbarcare a Palermo, Luca aveva attentamente studiato il nuovo caso di cui doveva interessarsi e ne aveva appreso tutti i particolari. Scelba gli aveva dato carta bianca, In cambio, gli chiedeva solo una cosa: riuscire, e il più rapidamente possibile, anche per far tacere gli attacchi, sempre più violenti e pericolosi, dei suoi avversari politici di sinistra.
Luca cominciò con il decretare lo “stato d’emergenza” nel quadrilatero compreso tra Carini, Alcamo, Gibellina, Corleone e Monreale. Una tale decisione conferiva ai carabinieri, comandati adesso da Luca, poteri eccezionali, che permettevano, da una parte, di neutralizzare l’azione della polizia agli ordini dell’ispettore Verdiani, del quale Luca aveva ottime ragioni per diffidare, dall’altra, di assicurarsi la collaborazione della “vecchia mafia”, la cui politica tradizionale era di scendere a patti con il più forte.
Giuliano si rese subito conto di quanto valesse il suo nuovo avversario.
«La sua è una tattica intelligente – confidò a Gaspare Pisciotta – Muove le zampe con cautela e astuzia, ma non mi prenderà mai. Non lascerò l’isola finché mia madre non sarà stata liberata dalla prigione ».
Benché riconoscesse il valore dell’uomo che aveva ricevuto l’incarico di abbatterlo, Giuliano non era affatto intimorito; anzi appariva risoluto più che mai a difendersi.
Per accattivarsi ancora di più gli uomini che gli erano rimasti fedeli e per reclutarne di nuovi, Giuliano aveva bisogno di soldi, di parecchi soldi. Per questa ragione portò a termine, uno dopo l’altro numerosissimi rapimenti. Deputati, baroni, duchi e perfino il principe di Valdina, contribuirono con i loro riscatti a mettere nelle tasche di Giuliano un centinaio di milioni.
Quindi ben rifornito di soldi e con il morale delle sue truppe risollevato, Giuliano si lanciò nuovamente in una serie di attacchi contro i carabinieri, come se volesse dimostrare all’avversario che le sue forze erano sempre intatte, malgrado la defezione della mafia, lo “stato di emergenza” e i duemila uomini che ora presidiavano Montelepre.
Quella manifestazione di forza non impressionò affatto il colonnello Luca. Quest’ultimo lavorava in silenzio, un modo di fare che gli era perfettamente congeniale.
La collaborazione con la mafia cominciava a dare i suoi frutti. Come dice Michele Pantaleone nel suo libro citato: «Ciò che non aveva saputo (oppure non aveva voluto) fare la polizia, gli uomini della mafia lo fecero in quattro e quattr’otto. Il C.F.R.B. venne prestissimo a conoscenza di tutti i nomi dei complici di Giuliano e non fu molto difficile seguirne gli spostamenti. Ogni volta che un uomo della banda si arrischiava a scendere dalle montagne, finiva irrimediabilmente fra le mani dei carabinieri ».
Informato dalla mafia che Terranova, Francesco Paolo Motisi e Francesco Pisciotta erano in Tunisia, Luca li fece arrestare per mezzo dell’Interpol; Candela, rientrato clandestinamente in Sicilia, venne ucciso dai carabinieri. Mannino fu arrestato grazie a una trappola tesa dal capomafia
Antonio Miceli. Qualche giorno dopo, il principale luogotenente di Giuliano, Giuseppe Cucinella veniva catturato.
Anche lui era stato tradito.
Alla mafia erano occorsi solo pochi mesi per mettere nelle mani di Luca quasi tutti gli uomini di Giuliano.
All’inizio della primavera del 1950, in libertà rimaneva solo un pugno di uomini. Luca aveva raggiunto il primo obiettivo del suo piano: isolare il bandito.
Costui comprese di avere perso la partita. Grazie alla mafia e cioè agli stessi siciliani, Roma aveva vinto Palermo. Giuliano rimase profondamente addolorato.
Non solo avevano tradito e abbandonato lui, ma il suo Paese, la sua cara Sicilia era stata venduta una volta di più. Egli ormai non poteva fare più nulla per la Sicilia e fu assalito da vari pensieri: dopotutto aveva solo ventisette anni, un nome, parecchi quattrini. Poteva facilmente rifarsi una vita altrove, forse in America.
A questo punto Giuliano decise di partire ma, come già aveva detto a Gaspare, non sarebbe mai partito finché sua madre fosse stata rinchiusa in carcere. Fu per trovare una soluzione a questo problema che Giuliano si incontrò ancora una volta con l’ispettore Verdiani.
Il ruolo di Verdiani nell’ultima parte del caso Giuliano è singolare. Non si è mai riusciti a spiegarlo con chiarezza. Che cosa lo legava a Giuliano? Per chi in realtà Verdiani lavorava? Quali erano i motivi che improntavano le sue azioni? Tutte domande che sono rimaste senza una risposta.
Il suo superiore era lo stesso che impartiva ordini a Luca. Eppure, i due uomini non cessavano un istante di mettersi i bastoni tra le ruote.
I loro alleati nella mafia non erano gli stessi. Se Luca collaborava con la “vecchia Mafia” Verdiani aveva soprattutto a che fare con la nuova mafia.
Infine se il primo desiderava che il problema venisse regolato sul posto con la morte del bandito, il secondo desiderava che Giuliano emigrasse. Entrambi erano tuttavia d’accordo su un punto essenziale: non bisognava a nessun costo prendere Giuliano vivo. Un processo pubblico avrebbe coinvolto troppa gente nota. La giovane repubblica italiana era ancora troppo fragile per potersi permettere una cosa simile.
Giuliano e Verdiani si misero facilmente d’accordo. Il loro patto era semplice: in cambio della libertà di Maria il bandito si impegnava ad abbandonare la Sicilia e, una volta esiliato, a non aprire bocca e a non pubblicare nulla di compromettente per i suoi ex amici e complici. Verdiani credette a occhi chiusi alle promesse di Giuliano. Il rispetto del bandito per la parola data era conosciuto ovunque. Sembra che anche Giuliano si fosse accontentato delle promesse a parole di Verdiani.
L’ispettore, il 31 dicembre 1949, lasciò la Sicilia e si stabilì a Roma. Ma i negoziati continuarono, grazie a Miceli, capomafia di Monreale, che faceva da intermediario.
E sembrarono anche sul punto di sfociare in un accordo. Il 23 gennaio 1950, Maria venne rimessa in libertà. Nulla più tratteneva Giuliano in Sicilia. Il bandito aspettava solo che gli venissero consegnati i documenti necessari a emigrare. Sappiamo che Miceli si recò a Roma nel marzo, per risolvere, insieme con Verdiani, quest’ultima formalità. Poi nessuno più sentì parlare di Giuliano, tanto che si sparse la voce che il bandito aveva già abbandonato l’isola. Si diceva in giro addirittura che egli si fosse trasferito nell’Africa del Nord, che si fosse arruolato nella Legione Straniera.
Altri sparsero la voce che era stato visto negli Stati Uniti. Ma non c’era nulla di vero in tutto ciò. Giuliano era sempre in Sicilia, senza dubbio un po’nervoso, perché i documenti promessi da Verdiani tardavano a giungere, ma sempre fiducioso nei suoi amici e sicuro della propria immunità.
Su quest’ultimo punto, almeno, egli si sbagliava. Ma non poteva sapere che Sciortino era stato derubato del memoriale che lui gli aveva affidato. Oramai, liberati da quella spada di Damocle, i suoi nemici non avevano più alcuna ragione di temerlo. La morte di Giuliano mancava solo di una buona messinscena.
L’ultimo atto della sua esistenza era praticamente già pronto.
La Morte
Il 14 luglio 1950, alle sei del mattino, Scelba fu svegliato da una telefonata del capo della polizia, il generale D’Antoni.
«Onorevole, stamane all’alba il bandito Giuliano è morto a Castelvetrano in uno scontro con le forze per la repressione del banditismo» disse costui.
«Benissimo – rispose Scelba – ci vedremo più tardi al Viminale e ascolterò il vostro rapporto».
Verso le otto, il ministro era nel suo ufficio, dove ricevette ben presto la visita del presidente del consiglio Alcide De Gasperi, andato per congratularsi con lui. Più tardi nel corso della mattina, dopo aver ascoltato il rapporto di D’Antoni, Scelba concesse una conferenza stampa a un’orda di giornalisti curiosi e affamati di notizie.
Ma le risposte e le spiegazioni del ministro furono così vaghe ed evasive che la maggior parte dei giornalisti decise di salire sul primo aereo in partenza per la Sicilia, per saperne di più.
Nel frattempo, a Castelvetrano, una piccola città situata nel Sud-Ovest dell’isola, non lontano da Selinunte, nella casa dell’avvocato De Maria, al centro di un piccolo cortile, giaceva il cadavere di un uomo.
La scena venne descritta con queste parole da un giornalista:
«Sdraiato su un fianco, la faccia a mangiare la polvere, un ginocchio ripiegato e il braccio destro steso parallelo al corpo, l’uomo aveva infilato al medio della mano destra un brillante enorme. Indossava una maglietta senza maniche, un paio di pantaloni di tela, calzini e sandali. Aveva le mani pulite, curate, mentre i capelli erano in disordine, come se si fosse appena alzato dal letto, e sulle guance una barba di due giorni. Sul fianco destro, pendeva una fondina di pistola, aperta; l’arma che quella fondina aveva contenuto stava ad alcuni centimetri dalla faccia dell’uomo, bagnata da un rivolo di sangue, in parte assorbito dalla polvere, mentre accanto alla mano destra stava un mitragliatore Beretta. La maglietta, in origine bianca, sembrava adesso la maglietta di un’uniforme separatista, mezza chiara e mezza scura, poiché una enorme chiazza di sangue ne aveva macchiato una parte in rosso scarlatto».
Verso mezzogiorno, il corpo, che ancora non era stato ufficialmente identificato, venne chiuso nella camera ardente del cimitero.
Completamente nudo, fu deposto su una lunga lastra di pietra ovale, e poiché il caldo si faceva ormai intenso, tutt’attorno vennero-posti blocchi di ghiaccio che assumevano l’aspetto di uno strano feretro. I giornalisti, che giungevano sempre più numerosi, dovettero attendere fino a sera, finché il capitano Perenze diede loro le prime notizie.
Perenze, abitualmente cortese e gioviale, apparve ai giornalisti «esausto come dopo una caccia all’uomo durata cinque giorni e cinque notti. Parlava solo con l’aiuto delle sigarette che gli venivano offerte e che egli fumava ininterrottamente ». Cominciò la conferenza dicendo che era completamente all’oscuro della ragione per cui Giuliano si era recato a Castelvetrano, poi diede la propria versione dei fatti:
«Dalle nove della sera alle due del mattino, lui e i suoi uomini avevano atteso, nascosti nell’ombra. Alle tre e quindici, videro due uomini avanzare per via Cagini; si distinguevano nettamente i loro fucili. Quattro carabinieri si fecero loro incontro e intimarono l’alt. I due uomini si volsero e tentarono di fuggire, ma un milite li inseguì da vicino, mentre gli altri tre prendevano per un breve vicolo per tagliar loro la strada. Giuliano fu riconosciuto subito; era a testa nuda, e non si poteva sbagliare, erano i suoi lineamenti; la strada era ben illuminata. A un certo punto, il bandito che lo accompagnava fuggì in uno stretto passaggio oscuro, ma i carabinieri lo lasciarono andare perché volevano occuparsi solo di Giuliano… Poi cominciò una violenta sparatoria. Il brigante si difese bene, grazie anche a un accorgimento che gli consentiva di tenere un secondo caricatore nel calcio del mitra. La sua lotta per la vita durò fino alle tre e cinquanta; cioè per trentacinque minuti. Correva a zig zag da un lato all’altro della strada, si rifugiava dietro questo o quel muro, muovendosi di continuo per uno spazio di un chilometro, finché era entrato in un cortiletto chiuso. Perenze, con una raffica di mitra, aveva abbattuto il bandito intrappolato. Giuliano non morì all’istante; per dieci minuti continuò a rantolare, ma senza articolare una sola parola, e senza pronunciare una maledizione o una invocazione. Alle quattro e dieci precise, tutto era finito».
Prima della conferenza stampa di Perenze, nel pomeriggio, Maria, accompagnata da Giuseppina e dal genero Francesco Gaglio, si era recata a riconoscere il figlio.
Uscendo dalla camera mortuaria, le guance bagnate di lacrime, aveva improvvisamente gridato in direzione della folla che la guardava passare:
« L’hanno tradito! L’hanno tradito! »
Dopo che la donna se ne fu andata, il professore Gabrio aveva eseguito l’autopsia. I risultati completi non furono mai resi noti. Semplicemente fu dichiarato che la ferita che aveva causato la morte era «la perforazione del cuore da tergo». Terminata l’autopsia, i giornalisti furono ammessi nella stanza mortuaria. Se la maggior parte di essi fu sorpresa per la giovane età di Giuliano e parlò ai lettori di un «bel giovanotto addormentato» o della «calma bellezza di un adolescente sfiancato», altri,più curiosi, notarono alcuni particolarimolto strani: «sotto la grossa macchia, sul lato destro del dorso, non c’era ferita alcuna – scrisse uno di loro. – Solo sul lato sinistro, dove il sangue era scarso, c’erano due ferite, sotto la scapola sinistra; altri fori si trovavano sulla mano e sul braccio destro e sul corpo, proprio accanto al gomito destro. Eppure, data la posizione in cui il corpo era stato trovato steso nel cortile, il sangue che aveva inzuppato la camiciola non poteva essere sgorgato da una di queste ferite ».
In serata si venne a sapere che Maria si era recata a trovare il sindaco di Palermo per supplicarlo che gli venisse reso il corpo del figlio.
«Ora appartiene solo a me – aveva detto la donna al sindaco – Voi non avete più niente a che fare con lui».
Le autorità in un primo momento si rifiutarono di consegnare il corpo, con il pretesto che il limite di tempo ufficiale era scaduto e che il cadavere doveva essere seppellito a Castelvetrano.
Ma nel giro di quattro giorni, Maria finì per spuntarla e il corpo fu trasportato a Montelepre in una suntuosa cassa di ebano e rame.
Io ho assassinato Giuliano
I giornalisti non avevano aspettato che Giuliano venisse seppellito per manifestare il loro scetticismo riguardo la versione ufficiale sui fatti accaduti a Castelvetrano.
Non era occorsa molta fatica per scoprire che «i fatti non si erano svolti come il capitano Perenze li aveva raccontati»
Secondo tutte le testimonianze degne di fede che i giornalisti erano riusciti a raccogliere, appariva evidente che non erano stati sparati più di cinque o sei colpi di pistola, colpi tutti esplosi nel cortile. Erano state udite anche due raffiche di mitra, molto vicine e molto brevi. Alcuni contadini di Castelvetrano, abitanti proprio nelle stradine che erano state teatro della tragedia, non avevano udito il minimo rumore che potesse somigliare a una caccia all’uomo.
Secondo la loro testimonianza, tutto era accaduto nella casa dell’avvocato, in un lasso di tempo brevissimo. La stampa, sempre più insistentemente ripeteva la parola che Maria aveva lanciato alla folla: tradimento. Questa spiegazione sembrava sempre più plausibile a tutti: se Giuliano era morto, era perché qualcuno l’aveva tradito. E chi avrebbe potuto tradirlo se non qualcuno che gli era vicino? Venne fatta la lista di coloro che ancora erano in libertà. Ce n’erano sette: Gaspare Pisciotta, Mannino, Badalamenti, Passatempo, Madonia, Zito e Vitale. Tutti in genere escludevano Gaspare Pisciotta.
Si sapeva che era il cugino e l’amico del cuore di Giuliano. L’uomo che invece con più frequenza veniva indicato era Frank Mannino.
La stampa arzigogolava su mille ipotesi, quando scoppiò una nuova bomba: Luca annunciò l’arresto di Badalamenti, Madonia, Zito, Vitale e Mannino. In un primo momento, si credette che il sensazionale arresto risalisse alle ultime ore, poi invece si venne a sapere con sorpresa che i cinque uomini erano stati catturati prima della morte del loro capo. Si sparse la voce che la sensazionale cattura era dovuta alla mafia.
Di tutti i banditi che avevano fatto tremare la Sicilia intera, ne restavano solo due in libertà: Passatempo e Pisciotta.
A sua volta, quest’ultimo sarebbe stato ben presto catturato. La gloria di tale arresto non fu dei carabinieri di Luca, ma dei poliziotti dell’ispettore Marziano, il successore di Verdiani.
Si era in dicembre, un po’prima di Natale. Incatenato e guardato a vista come se fosse stato una tigre, Gaspare Pisciotta raggiunse i compagni a Viterbo, dove ben presto sarebbe cominciato un processo alquanto noioso, ma al quale una sola rivelazione del nuovo e illustre accusato diede improvvisamente un tale interesse da appassionare l’opinione pubblica.
«Io, Gaspare Pisciotta, ho assassinato Giuliano durante il sonno. Questo avvenne dietro accordo personale con il signor Scelba, ministro degli Interni».
Gaspare: l’assassino di Turiddu… Giovanni che diventava Giuda! C’era da non crederci.
Il processo di Viterbo
Fu un Gaspare Pisciotta pallido e teso, ma più elegante, più bello e provocante che mai, che si presentò sul banco degli imputati. Giuliano morto, toccava a lui, adesso, vendicarsi. Pisciotta parve averne coscienza e sembrò volersi mostrare degno di questo ruolo. Come se desiderasse dare un tono nuovo al processo, cominciò col fare una professione di fede:
«Io non ho venduto la mia anima, anche se mi hanno offerto milioni! Io sono venuto qui a testimoniare di mia spontanea volontà, e nessuno mi ha catturato. Vengo a veder fatta giustizia».
Gli venne chiesto di parlare innanzitutto di Portella della Ginestra, poiché quel massacro era ufficialmente l’oggetto del processo.
«Rigetto con disprezzo – disse – l’accusa di aver preso parte a quel macello. Io non sono un bandito che uccide o che ruba. Facevo parte della banda a causa dell’EVIS ed ero agli ordini di Giuliano come generale politico. Abbiamo combattuto agli ordini di Finocchiaro Aprile, del duca di Carcaci, del barone Stefano La Motta e di Gallo. Gallo ha ammazzato otto carabinieri, e ora lo chiamano ‘onorevole’.»
Pisciotta parlò poi delle proposte fatte a Giuliano dai partiti, in seguito al successo del Blocco Popolare alle elezioni del 1947.
«Lo avvisai di non fidarsi di quella gente, perché alcuni lo avevano già tradito e di certo lo avrebbero tradito ancora, ma lui non volle darmi ascolto».
Confermò poi che i democratici cristiani avevano promesso l’amnistia a Giuliano, se avessero vinto le elezioni, o almeno un rifugio in Brasile in caso di smacco. Ma ancora una volta non avevano tenuto fede alla parola data.
«Ogni volta Scelba si è rimangiato la parola. Mattarella e Cusumano andarono a Roma a chiedere per noi amnistia completa, ma Scelba rinnegò le sue promesse».
A proposito della misteriosa lettera recapitata a Giuliano, alcuni giorni prima del massacro di Portella della Ginestra, Pisciotta rispose che lui non l’aveva letta, ma che il suo amico Giuliano gliene aveva rivelato il contenuto. Essa diceva, press’a poco così:
«Mio caro Giuliano, siamo alla vigilia della caduta del comunismo. Coi nostri sforzi uniti possiamo distruggerlo definitivamente, poi la vittoria sarà nostra, e voi avrete immunità completa».
Era firmata, sempre secondo Pisciotta: Mario Scelba.
Non si potevano prendere tutte le dichiarazioni di Pisciotta per oro colato; ma esse erano una manna per i giornalisti, mentre aggravavano le tensioni già esistenti nel governo. Scelba stesso faticava a nascondere il proprio imbarazzo.
Non essendosi un giorno potuto recare a una riunione ministeriale, per ragioni di salute, un settimanale milanese definì l’indisposizione di Scelba come una «leggera pisciottite… »
Ma Pisciotta non aveva ancora finito con le sue dichiarazioni, e quanto disse in seguito a proposito del colonnello Luca e dell’ispettore Verdiani ebbe lo stesso effetto di soffiare sul fuoco. Pisciotta raccontò di aver proposto a Verdiani di consegnarli Giuliano. Ora, non solo l’ispettore aveva rifiutato il suo aiuto, ma l’aveva addirittura minacciato di fargli la pelle se avesse tentato una qualsiasi azione contro il bandito. Aggiunse addirittura che Verdiani progettava di far assassinare Luca, ma che lui, Pisciotta, era riuscito a evitare in tempo il progetto.
Infine, affermò che Luca, per mezzo del suo avvocato, gli aveva proposto da parte di Scelba un assegno di cinquanta milioni purché, durante il processo, tenesse la bocca chiusa.
Una domanda ancora non era stata fatta a Pisciotta, eppure era sulla bocca di tutti, fin dall’inizio: perché e come, dal momento che lui stesso si accusava di aver ucciso Giuliano, aveva deciso di compiere quel delitto, aveva deciso di uccidere un uomo che così a lungo gli era stato amico e fratello d’armi?
La prima parte della risposta di Pisciotta sembrò quasi una dichiarazione di odio e di accusa nei confronti dei suoi giudici.
«Ho ucciso Giuliano perché voi me lo avete fatto uccidere, perché non osavate lasciarlo in vita!»
Poi cercò di spiegare il suo comportamento, cercò di giustificarsi.
«Con mio profondo dispiacere, sono stato obbligato a ucciderlo per metter fine a tutti quegli ammazzamenti e perché, altrimenti, Giuliano ci avrebbe annientati tutti.
Dopo questa confessione, a Pisciotta passò la voglia di parlare e fu molto difficile ottenere da lui una versione dei fatti. A un certo punto, fu avanzata l’ipotesi che Pisciotta avesse somministrato un sonnifero a Giuliano e che poi l’avesse ucciso nel sonno, cosa questa abbastanza verosimile, perché i due dormivano sovente nello stesso letto. Pisciotta sembrò ridestarsi dal suo torpore solo quando il colonnello Luca venne chiamato a deporre.
«Bisogna porgli le seguenti domande, Vostro Onore – gridò. – È stato o no in contatto con me? Mi ha chiesto o no di procurargli il memoriale di Giuliano riguardante Portella della Ginestra, promettendomi una ricompensa di due milioni? Sono stato io o no quello che l’ha informato degli accordi intercorsi tra Giuliano e Verdiani?»
La deposizione di Luca non fu di grande aiuto per chiarire i fatti. E tuttavia egli fornì una versione plausibile del suo incontro con Pisciotta. Tutto era cominciato con l’arresto di Mannino e di Madonia, arresto facilitato da un mafioso di Monreale, Ignazio Miceli.
Essendo venuto a conoscenza della verità Giuliano fece rapire Miceli, poi incaricò Pisciotta di farlo fuori. Ma invece di obbedire, Pisciotta propose al prigioniero uno scambio: la sua vita contro un abboccamento con il colonnello Luca. Miceli diede la propria parola e l’incontro ebbe luogo qualche tempo dopo nella casa del mafioso. Fu un Pisciotta nervoso, febbricitante, tormentato da accessi di tosse, che si offrì di aiutare il colonnello a sbarazzarsi di Giuliano. In cambio della sua collaborazione, gli chiese la promessa di intervenire personalmente in suo favore nel caso che fosse stato catturato, e una lettera, firmata di suo proprio pugno da Scelba, con la quale gli veniva garantita l’amnistia completa. Luca accettò.
Trascorse ancora qualche tempo, poi il colonnello fece avere a Pisciotta il documento richiesto.
Beninteso, si trattava di un falso. Dopo la deposizione di Luca, il processo fu insabbiato, e si comprese ormai che la verità non sarebbe saltata fuori. A cominciare da Pisciotta, per finire con Luca, era evidente che tutti avevano deposto il falso. A un certo punto, sorse il dubbio che Pisciotta non avesse nemmeno ucciso di sua propria mano il cugino Giuliano.
Una tale azione sembrava impossibile. Non era infatti Pisciotta trasalito violentemente quando Marotta fece la sua deposizione?
Marotta era un amico di Maria Giuliano l in lui si poteva riporre una certa fiducia.
Era inoltre stato una delle ultime persone ad incontrarsi con Giuliano.
L’11 luglio era stata recapitata a Giuliano una lettera urgente di Verdiani. Il bandito aprì la missiva in presenza di Marotta, poi esclamò: «Tutti mi hanno tradito, ma non crederò mai che anche Gaspare Pisciotta… mai!».
La figura di Giuliano uscì ingrandita dal processo di Viterbo. Lo stesso pubblico ministero ebbe parole di elogio per il bandito, perché non aveva voluto rivelare i nomi dei compagni presenti a Portella della Ginestra. Invece riservò a Pisciotta una requisitoria finale durissima. E il cugino di Giuliano, nonostante l’intervento di Luca in suo favore, fu condannato ai lavori forzati a vita.
Il nero e il bianco
Il sipario era calato su quell’inglorioso processo e tutto sembrava finito. Ma non fu così. Uno dopo l’altro, tutti i testimoni che sapevano qualcosa, e soprattutto quelli che avevano minacciato di parlare, furono soppressi.
Il primo al quale toccò una simile sorte fu Passatempo: il suo cadavere venne rinvenuto sulla strada di Montelepre, crivellato di pallottole. Poi si venne a sapere della morte di Verdiani. Qual era stata la causa del decesso? Crisi cardiaca? Suicidio? Avvelenamento? Non lo si seppe mai con precisione, era un mistero.
Luca e Perenze riuscirono a cavarsela … con una promozione.
Rimaneva solo un testimone importante. Il più pericoloso: Gaspare Pisciotta, rinchiuso nel carcere dell’Ucciardone a Palermo.
Pisciotta sembrava voler farsi dimenticare. Si era dedicato a lavori di tappezzeria ed eseguiva dei bellissimi ricami. Ma, all’improvviso, nel dicembre 1953, corse voce che aveva deciso di vuotare il sacco.
Proprio per questa ragione, aveva inoltrato domanda per essere ammesso a un colloquio con il procuratore di Palermo. Ma, come è noto, la giustizia italiana va per le lunghe e fece aspettare Pisciotta.
L’8 febbraio 1954, a Roma, Mario Scelba veniva eletto Presidente del Consiglio.
Il giorno dopo, Pisciotta, mentre stava in compagnia del padre e di una guardia carceraria
bevve una tazza di caffè. Pochi istanti dopo, fu colto da violenti dolori allo stomaco e si rotolò per terra, gridando che era stato avvelenato. Non fu possibile salvarlo. Un’ora dopo, era già cadavere.
L’autopsia rivelò che aveva ingerito una forte dose di stricnina, sufficiente ad ammazzare 40 cani.
Fu accusato il padre, che divideva la stessa cella, di aver assassinato Gaspare, dietro ordine della mafia. L’anziano uomo fu condannato in prima istanza a trent’anni di reclusione, ma, nel processo d’appello, la precedente sentenza venne annullata per insufficienza di prove.
L’inchiesta così ebbe fine.
Oggi, ad anni di distanza, quando ormai quasi tutti gli interpreti del dramma sono scomparsi dalla scena, adesso che Giuliano ha raggiunto, nelle ballate popolari, gli eroi della sua infanzia, Carlo Magno e i suoi paladini, ancora la verità su alcuni episodi della sua vita non è stata accertata,
e neppure le circostanze esatte della sua morte. Se Gaspare Pisciotta rimane, e nella leggenda e nei libri che trattano del caso Giuliano, come il principale colpevole, i siciliani, in genere, sono restii nell’accordargli questo privilegio. Senza dubbio, Pisciotta era un uomo invidioso, tormentato e debole, ma non poteva uccidere l’amico e cugino con il quale aveva stretto un patto di sangue. Tutto ciò di cui oggi possiamo essere abbastanza certi è che Giuliano non fu ucciso il 14 luglio a Castelvetrano, ma probabilmente due giorni prima, a Monreale. Occorsero dunque quarant’otto ore prima che gli assassini si mettessero d’accordo con i loro clienti e che questi ultimi imbastissero la messinscena adatta.
Oggi, il piccolo e polveroso cimitero di Montelepre è divenuto un luogo di pellegrinaggio.
Ci si reca là ad ammirare la splendida tomba di marmo bianco dell’ultimo eroe siciliano. Non lontano da questa tomba, c’è anche quella di Pisciotta, di marmo nero. Il bianco e il nero, il Bene e il Male. Questo dualismo, indispensabile alla leggenda, non è affatto soddisfacente per lo spirito della verità.
FINE
Il mito di Salvatore Giuliano cantato dal cantastorie
Massimo Galetta
25 Settembre 2019 @ 07:19
Vorrei risalire ai nomi e cognomi dei componenti della banda Giuliano.grazie
Dalla Redazione
27 Settembre 2019 @ 17:13
Non sono riuscito ancora ad avere gli atti del processo Ho trovato questo documento https://www.misteriditalia.it/giuliano/strage-portella/documentiprocessuali/Doc.%2017%20(Procedimento%20contro%20Provenzano%20e%20altri).pdf in cui ci sono i nomi della banda Giuliano. Tenga conto che nella banda sono transistati moltissimi individui e quindi si hanno i nomi solo di chi è stato processato. La vicenda Giuliano è molto complessa…
Spero di averla aiutata
Gian Carlo Zanon