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di Nora Helmer
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“Voglio dire che a le donne, benché talvolta non bastino gli onori ed ossequi divini, non perciò se gli denno onori ed ossequi divini. Voglio dire che le donne siano cossì onorate ed amate, come denno esser amate ed onorate le donne”
Giordano Bruno, Dialoghi italiani
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Sappiamo che tra le date incerte a cui si fa risalire la fine del medioevo c’è quella della scoperta del Nuovo mondo da parte di Cristoforo Colombo. Sappiamo anche che sono sempre esistiti esseri umani di genio, individui intatti, preservati dalla normalità, i quali senza dubbio intuirono subito la caduta delle certezze che rendevano l’uomo pago, “sentirono” sulla pelle lo spazio che si dilatava, il finito che diventava infinito. Questi eroi della conoscenza pensarono che si potesse porre fine alle credenze pseudo scientifiche e accolsero questi echi lontani e li trasformarono in immagini.
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Altri come Gmor della Storia infinita cercarono di annullare ogni suono e raffigurazione di nuove realtà e ricreare il nulla con dogmi religiosi e credenze deliranti.
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In ogni modo, la scoperta di Colombo, fu senza dubbio un spartiacque che fece vacillare gli antichi legami con i limiti oggettivi e soggettivi. Ancor prima, l’umanesimo, aveva separato l’uomo dall’animale in quanto unico essere esistente in grado di scegliere la propria condizione; unico essere capace di trasformarsi in ciò che ha progettato di essere.
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Nel Oratio de dignitate hominis Pico mette l’uomo al centro del mondo. L’essere umano è “da nessun limite costretto” libero e artefice della propria vita.: “potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti nelle cose superiori che sono divine” . L’individuo non è più rinchiuso nella casta in cui è stato generato ma può divenire o regredire, può auto-costruire la propria identità umana o distruggerla.
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L’Orlando furioso dell’Ariosto si inscrive dunque in un contesto socio-culturale e storico molto importante. In qui decenni un’aria nuova sembra dar vigore e libertà alla civiltà rinascimentale, e particolarmente nella corte ferrarese degli Estensi. L’Ariosto, non è un poeta staccato dal contingente, e proprio per questo può riflettere sulla vera natura dell’uomo e proporre un modello di essere umano aderente alla realtà del suo tempo.
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Nonostante le premesse del prologo, dove emerge il timore della donna che ha la capacità di far perdere il senno: “che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima”, nella sua opera scaturiscono figure di uomini e donne coinvolti in rapporti passionali che non portano sempre alla pazzia. Nel mondo letterario del poema l’amore non è un devoto e manierato servizio cavalleresco, e non vie è la solita scissione tra eros e psychè, tra corpo e pensiero.
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Ariosto è il cantore con “l’orecchio all’erta e il cuore in soprassalto”, in questo modo si autodefinisce in una lettera a Ludovico Gonzaga datata 1512, dando di sé l’immagine di uomo interessato sia alla realtà materiale sia alle passioni che travolgono gli individui umani.
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Come in ogni grande opera artistica, e forse al di là dell’apparente volontà dell’autore, che nella defezione della ragione sembra intravedere solo la pazzia, le passioni dei personaggi prendono il sopravvento facendo perder loro il dominio razionale di sé: il lettore può respirare ancora l’afrore che pervade i luoghi ove Angelica e Medoro si sono amati e questa fisicità naturale umana, apparentemente così lontana, ancora ci appartiene.
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Della vera follia, rappresentata dall’impazzimento di Orlando “eroe perfetto e invulnerabile”, l’Ariosto da un quadro nosografico sorprendente: nel XXIX canto emerge l’insania che dalla negazione della realtà, che per il Paladino è uno stimolo eccessivo, passa allo stupor catatonico per poi trasformarsi in furor distruttivo.
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In un articolo, apparso nel 1998 sulla rivista di psichiatria Il sogno della farfalla, Rosanna Santangelo fa un accurato esame dal punto di vista psicoanalitico del Furioso. Da questa ricerca emerge il carattere ossessivo della follia di Orlando; il furor – dice la psichiatra, non è legato alla scoperta dell’amore tra Angelica e Medoro – che potrebbe essere semmai solo la causa scatenante – la vera eziopatogenesi del furor è proprio la visione di un tipo di rapporto uomo-donna che per Orlando rappresenta il “male” da cui egli è sempre scappato negando la propria realtà sessuale. Questa visione perturbante scalfisce la sua corazza costruita dalla ragione onnipotente.
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Ma in realtà i sintomi della crisi psicotica di Orlando emergono molto prima, quando, dopo essere entrato nel palazzo di Atlante, inseguendo i fantasmi delle sue fantasticherie deliranti, perde se stesso: “e sì come era uscito da se stesso / uscì di strada” (XXII – 86) .
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Orlando si era dunque “smarrito” ( in termini psichiatrici dissociato) molto prima dell’impazzimento che lo coglierà alla scoperta dell’amore tra Angelica e il suo amante. Per il Paladino il desiderio erotico è un fantasma perturbante, egli non vive ma fantastica il rapporto con l’altro sesso, lo idealizza sino ad alterarne il senso; onanisticamente crea con la ragione un delirio che sfocia in allucinazione e furor. Non “per amor venne furioso e matto” ma per aver fantasticato alterandola un’immagine femminile che non aderisce al suo delirio; Angelica è una femmina, non è la Beatrice di Dante acorporea e angelicata.
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L’Ariosto viveva ogni giorno l’affettazione dei cortigiani, copia sbiadita dei primi cavalieri delle saghe arturiane o dei paladini di Carlo Magno. I pseudo cavalieri dei primi decenni del Cinquecento si muovono nelle corti principesche istruiti dai precetti del Cortegiano, completamente scissi dal rapporto con il reale, tentando di cristallizzare la storia con riti vacui.
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Il personaggio di Orlando è inoltre legato ai codici culturali del Dolce Stil Novo, movimento poetico che se da un lato fa apparire un’ immagine femminile dall’altro la sublima, la altera divinizzandola e rendendola inaccessibile al rapporto con l’altro sesso. Questa forma mentis esclude un percorso di conoscenza in quanto l’altro da sé è per definizione inconoscibile.
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Pensare la donna in questi termini potrebbe essere percezione delirante, ed è difficile stabilire , anche tenendo conto dei tempi storici, quando questa rappresentazione dell’immagine femminile è raffigurazione poetica e quando è alterazione patologica della realtà interna dell’altro diverso da sé.
Nel poema Angelica non è certamente angelicata e non è nemmeno una passiva pastorella, l’unica che si poteva amare carnalmente secondo i generi poetici minori della Pastorella e dell’Alba, poemetti molto in voga che in piccola parte riequilibravano la falsità dell’amor platonico. L’Angelica immaginata da Ariosto è invece un’immagine femminile che dà vitalità e concretezza al rapporto tra i due sessi e separa, stimolandole e facendole emergere, la malattia mentale dalla sanità.
La pazzia di Orlando è la credenza di una mente onnipotente, governata dalla ragione, che entra nei palazzi di Atlante creati sulle fondamenta del nulla. Un difetto di pensiero che crede, costruendo fantasticherie, di prevenire gli eventi. Ma la realtà è soggetta a cambiamenti repentini, l’anello di Angelica, che dovrebbe servire da talismano per conservare il senso della misura, “non tiene”. La catena dei pensieri deliranti si spezza liberando il furore di chi, fidandosi di pensiero alterato, si incatena per mantenere un comportamento ineccepibile che altro non è che un movimento innaturale e manierato.
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È ovvio chiedersi il perché dei continui richiami alla pazzia, creata dalle passioni amorose, se poi molti personaggi del Furioso vivono una vita propria fuori dalle regole della ragione. Naturalmente viene da chiedersi se il contesto storico permettesse all’autore di esprimere il proprio vero pensiero. Non dimentichiamo che l’Ariosto fu al servizio del Cardinale Ippolito e in seguito ricoprì incarichi politici e militari. È naturale chiedersi se egli pensasse al rapporto con l’altro sesso come deleterio per l’uomo, o se invece utilizzò irriverenze invisibili nascondendosi dietro la maschera del fool per poter dar vita a ciò che non poteva tenere dentro di sé, per non rinnegare se stesso.
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Gli artisti hanno da sempre cercato il modo per salvare la propria fantasia interna da chi ti permette di sopravvivere purché la tua opera sia castrata dalla norma. Troppo spesso l’inchino ossequioso al committente genera false rappresentazioni; già nell’Odissea Femio, un aedo di Itaca , costretto dai Proci, distorce il mito degli eroi achei calunniando Odisseo e i suoi compagni.
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Sappiamo quanto può essere pericoloso far emergere la fantasia inconscia in determinati periodi storici. Nei primi anni del XIII secolo, nelle corti catare della Francia meridionale, l’immagine femminile era riapparsa. Le donne apparivano al fianco degli uomini dopo duemila anni di storia patriarcale; tanto era passato dalla distruzione voluta da Roma della cultura etrusca, l’ultima civiltà in cui la donna non veniva relegata nel gineceo o venerata come matrona come nella società greco-romana. La poesia provenzale trobadorica cantò l’immagine femminile dando vita, in seguito, ai canti d’amore della scuola siciliana, dove, forse per la prima volta, in una lingua proto-volgare, il poeta Iacopo da Lentini scrisse di sé e di una donna la cui “ figura porto dentro il mio cuore”. La poesia siciliana delle corti di Federico II, nonostante anatemi e scomuniche,avrebbe influenzato in seguito il Dolce stil novo … che in parte ne uccise la carica vitale.
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Nelle corti catare ci troviamo di fronte ad un fenomeno culturale e letterario unico nel suo genere: accanto alla Chanson de geste viene alla luce la poesia provenzale dei trovadori che canta il rapporto uomo donna. Ci vorrà la crociata anti-catara, voluta da Innocenzo III , la sola di cui la storia si è in parte “dimenticata”, per distruggere quella cultura che cantava l’immagine femminile. La crociata voluta dal dio di Innocenzo III al grido di “Dio lo vuole” travolse e distrusse con ferocia le città della Linguadoca. La civiltà provenzale, con la sua splendida lingua musicale, che aveva dato vita al canto d’amore cortese, fu annientata, e forse la sua unica colpa fu quella di tentare un pensiero che pensasse all’atto sessuale separato dal concepimento, unico modo per dare senso al rapporto eterosessuale.
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Purtroppo l’Orlando Furioso è il canto del cigno del rinascimento, la ragione riprenderà il sopravvento, la percezione del reale sarà mediata da uno sguardo diaccio, la razionalità si affermerà come visione esatta, oggettiva negando il mistero dell’ignoto mondo interno degli esseri umani.
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Molto tempo dopo il concilio di Trento darà vita alla Controriforma che annullerà tutti i fermenti che fecero del Rinascimento un periodo di ricerca sull’essenza umana. La credenza dogmatica fu restaurata e codificata e controllata capillarmente dai componenti della Compagnia di Gesù. Il difetto di pensiero e la percezione delirante vennero legittimati dalla teologia che si era inserita nel pensiero filosofico come una metastasi cancrenosa di cui continuiamo a vedere gli effetti. Non ci fu più ricerca della verità, ma creazione, con la logica razionale, delle concordanze tra fede e ragione che legittimassero il delirio religioso. Verrà annichilito quel filo di pensiero che reagiva agli stimoli. L’ossessione del controllo creerà un ordine e un credo, assurto a sistema filosofico, per calmare l’angoscia del movimento.
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Era il 1532 e Ludovico Ariosto rese pubblico l’edizione definitiva dell’Orlando Furioso. Sono passati quasi cinquecento anni e quel moto interno che faceva scaturire le immagini dalla mente di un poeta del sedicesimo secolo vive ancora nelle opere degli artisti e dei poeti. Esiste, inutile negarlo, qualcosa di indefinito che muove le mani di chi crea nuove immagini. Esiste un pàthos che li unisce a chi prima di loro ha varcato le porte dell’invisibile. Gli artisti di ogni tempo sono “obbligati” a creare senza che un pensiero cosciente guidi la loro fantasia. Devono fare come negli amori urgenti, come se un daimon li costringesse a mostrare ad altri le immagini che urgono nella mente, nelle mani.
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È l’affermazione di una imperiosa, insopprimibile esigenza di esprimere la propria visione interna. Non renderla manifesta significa non aver il coraggio delle proprie immagini o aver un difetto di vitalità. Le immagini interne e le intuizioni, restano esposte al rischio di crisi se l’artista non ha cuore per dar loro una visibilità materiale o formare un pensiero verbale da donare a tutti.
Esiste una dissomiglianza tra ideare immagini con le parole e usare le mani per dare forma a segni indefiniti: il poeta, anche dopo averla resa pubblica, teoricamente, può rimaneggiare la propria opera all’infinito, l’Ariosto lo fece incupendo sempre più il poema. Chi crea immagini materiche non le può più trasformare; le forme appena nate sono esposte come figli senza nome, avranno una vita propria negli occhi di sconosciuti e saranno immortali se il loro linguaggio avrà suoni universali.
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Per noi “mortali” c’è una parte dell’esistenza in cui la ragione deve cedere il passo all’intuizione e alla sensazione; l’artista deve sempre abbandonarsi all’irrazionale, abbattere il muro tra realtà e illusione, dare contorni all’invisibile., dare forma a quella parte della natura umana non conosciuta, non definita che è quella da dove provengono le pulsioni e le immagini. Immagini che devono essere rappresentate. Senza immagini interne non ci può essere rappresentazione, si può solo imitare l’esterno identificandosi, o raffigurare memorie coscienti, magari alterandole quel tanto che basta, creando effetti ed affetti artificiali, per ingannare ed ingannarsi sull’essenza dell’artista.
È nei primi mesi di vita che ci si misura col senso delle immagini: affetti e percezioni ancora indistinte vengono immaginate per mesi dai neonati. In quel periodo, così importante per il nostro Io, l’odio e l’amore sono così certi che non ci si può equivocare sul senso di quelle immagini. L’essere umano che avrà conservato gli affetti e la fantasia interna dei primi istanti e poi mesi di vita, potrà essere artista. Sarà libero di creare attingendo alle proprie immagini inconsce. Al contrario l’alterazione degli affetti lo porterà ad identificarsi con immagini coscienti ripristinando il concetto aristotelico di mimesis che grava da sempre sull’arte occidentale.
L’opera dell’artista non può essere mimesis intesa come copia di un’originale. L’arte è magia, nel senso rinascimentale: un processo alchemico-creativo che trasforma la materia data in un’altra più nobile, e irriconoscibile dai sensi.
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L’arte, quando è tale, non è, come ci viene insegnato da una cultura egemone, consolatoria e pacificante. L’arte, nelle sue varie forme, evoca immagini della memoria inconscia pervase da una forza che le possiede donando loro una spina dorsale invisibile e coerente, che rivendica quel “sano narcisismo di chi non ha perduto l’integrità della propria nascita”.(Massimo Fagioli)
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A Eleusi, prima che il patriarcato normalizzasse i riti, è esistita una sapienza arcaica aspra e fremente alla quale solo le donne potevano accedere. La tracotanza di conoscere le portava a creare le sensazioni di quel luogo “ove il tempo non è ancora cominciato” (Giorgio Colli).
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20 maggio 2015