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di Giulia De Baudi
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È da molto tempo – forse da quando sono nata? – che di fronte a certe interpretazioni della realtà che partono da assunti astratti mi si contrae lo stomaco. Molto tempo fa, quando ancora credevo nell’egemonia di un pensiero staccato dal corpo, subentrava quel senso di impotenza ben rappresentato da Gaber nella sua canzone Il corpo stupido in cuisi racconta di un incontro di un uomo con una donna «colta e piuttosto impegnata su certi argomenti» ma che non ispirava una gran sessualità: «Dopo un po’ si è sdraiata sul letto e parlava di orgasmi/ ho rivisto la nostra serata con molto entusiasmo/ma quel libro che lei mi ha citato/che mi indica dove toccarla/mi ha un po’ bloccato/non ho più avuto voglia di spogliarla/… Com’è corretto il suo intervento/Com’è ignorante l’arrapamento/.» ovviamente il protagonista si incolpa per questa sua impotenza: «Io purtroppo non riesco a istruire il mio tatto/non riesco a politicizzare l’olfatto/. Se insegno qualcosa al mio sesso diventa tiepido./C’ho il corpo stupido».
Anch’io pensavo di avere dei “problemi cognitivi” a causa dei quali non solo il mio corpo non reagiva “positivamente” assecondando il pensiero astratto condiviso dalla cultura egemone, ma si ritraeva, si contraeva… si inquietava.
Ora quando avverto queste stonature, semplicemente le rifiuto rivendicando il mio “allarme” fisiologico grazie al quale il mio corpo reagisce se stimolato da una non verità imbellettata con discorsi filosofici e/o impropriamente avvalorata da una auctoritas sempre interpretata per avvalorare una specifica tesi assurda. Il mio “corpo stupido”, non più scisso dal pensiero, si è trasformato nella mia soggettiva cartina tornasole e quindi uno strumento con cui interpretare la realtà. Il sintomo, la sensazione sono i fenomeni attraverso i quali si manifesta la realtà invisibile dell’oggetto con cui entro in rapporto. La “stonatura” avvertita è il campanello d’allarme che risuona in me e che rivendico come paradigma conoscitivo.
«Se leggo un libro che mi gela tutta, così che nessun fuoco possa riscaldarmi, so che è poesia. È l’unico modo che ho di conoscerla». Scriveva Emily Dickinson ad un’amica rivendicando il suo sentire, e già Sapphō parlava delle sensazioni corporee che avvertiva nel momento in cui un avvenimento la inquietava: «Basta che ti getti uno sguardo e mi si spezza la voce,/ la lingua s’inceppa, subito un fuoco sottile corre sotto la pelle,/ gli occhi non vedono più, le orecchie rombano,/ un freddo sudore mi scorre, un tremore tutta mi afferra,/ sono più verde dell’erba,/e poco manca che muoia…»
Poi questa sapienza, legata alla fusione tra pensiero e corporeità, ovvero a quel “conosci te stesso” (gnōthi seautón) per poter conoscere il mondo, si è frantumata contro le scogliere del paradigma platonico per il quale la realtà vera e immodificabile è composta da realtà ideali residenti nell’Intermundia e concepite come eterni modelli delle transeunti realtà sensibili.
E siamo così giunti a identificare la realtà nelle variopinte teorie e nei lussureggianti paradigmi offerti dai maître à penser contemporanei: ognuno sceglie il proprio paradigma ideale, ne introietta gli assunti, e con questi strumenti, che la nostra cultura gli dona, interpreta la realtà materiale e umana attraverso una cornice cognitiva resa congrua e condivisa da un pensiero “alto” ed egemone. Ovviamente chi non si adegua a un dato modello interpretativo viene scansato con la supponenza di chi possiede la “verità certificata” da un pezzo di carta istituzionale.
Albert Camus nei suoi taccuini scriveva: «Vivere è verificare». E verificare significa passare continuamente dal macrocosmo sapienziale al microcosmo dell’esperienza empirica soggettiva ovvero a quel “conosci te stesso” di cui si è persa traccia. E conoscere se stesso significa, anche, mettersi in contatto totale con la realtà umana altrui perché è solo nella dialettica con l’altro da sé che puoi prendere “le misure” e sapere chi sei.
Purtroppo spesso ci si trova di fronte a persone con un alto profilo istruttivo la cui struttura del pensiero si è formata non sulla propria identità e originalità umana ma sulla assunzione pedissequa di schemi, di modelli, di teorie assimilate senza essere filtrate dalla griglia del proprio pensiero critico. Schemi, modelli, teorie che vengono applicate alla realtà umana prescindendo dalla dialettica interumana. In questo modo l’interpretazione della realtà prima umana e poi sociale si scinde dall’esperienza empirica. Il soggetto in questione vive solo all’interno di un orizzonte cognitivo, più o meno ampio, che gli preclude la possibilità di stabilire un reale contatto con la realtà umana che viene “percepita” unicamente attraverso interpretazioni classificatorie.
Questo orizzonte conoscitivo alla Truman Show, oltre il quale la realtà “non esiste”, se non classificata all’interno di modelli monolitici, intrasformabili come le eterne idee platoniche, si basa su un pensiero verbale “gergale” in cui il vocabolo che rappresenta un oggetto o un concetto, perde il significato comune, ma è condiviso all’interno di una “comunità” intellettuale che ha assunto la stessa serie di modelli conoscitivi che presuppongono anche un determinato linguaggio. Per esempio il termine “paradigma” che in prima istanza significa modello, esempio – per esempio il paradigma grammaticale che è uno schema linguistico condiviso da una comunità linguistica – nell’epistemologia contemporanea assume un altro significato e viene inteso come un insieme di pratiche, di regole metodologiche, di ipotesi euristiche e di modelli esplicativi che orientano la ricerca scientifica in una data epoca. Ma attenzione anche in questo caso non si deve intendere, come spesso viene inteso, come metodo eterno e immutabile né come regola assoluta esente da critiche. Tant’è vero che le cosiddette rivoluzioni scientifiche, vengono definite anche “mutamenti di paradigma”.
Purtroppo, forse per una carenza di vitalità e di onestà intellettuale di coloro che le usano, le parole, oltraggiate, perdono la loro significanza originaria e vengono utilizzate senza tener conto né della loro etimologia né dei loro legami semantici. La parola “resilienza” per esempio, che viene usata a abusata continuamente, nasce come termine tecnologico e afferisce alla materia inerte: nella tecnologia dei materiali, la parola resilienza è la cifra della resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di resilienza.; valore di resilienza, il cui inverso è l’indice di fragilità. Questo termine nato per definire la resistenza di un materiale inerte viene ormai abitualmente usato per definire la capacità di resistenza della realtà psichica di un individuo. Ma la realtà umana non è materia inerte e allora, come ha suggerito la psichiatra Alice Masillo in un suo intervento nell’ambito della presentazione del libro Materia Energia Pensiero di Massimo Fagioli, sarebbe meglio chiamare la capacità di resistere alle delusioni Vitalità. La «Vitalità, – ha affermato la psichiatra – è qualcosa che non è geneticamente determinato e immutabile, (….) ma è qualcosa che è presente alla nascita di ogni essere umano e che se fortemente diminuito o addirittura perso in rapporti deludenti e violenti soprattutto nel primo anno di vita, può essere ritrovato e aumentato da grandi in un rapporto interumano valido. Una vitalità ritrovata o aumentata è quella sonda che ci permette di sentire sempre di più ciò che nell’uomo è disumano, al di là di una maschera cosciente di perbenismo e correttezza.»
Ecco io uso quella «sonda» che mi «permette di sentire sempre di più ciò che nell’uomo è disumano, al di là di una maschera cosciente di perbenismo e correttezza.» La Vitalità quindi è il mio strumento conoscitivo.
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4 Aprile 2022