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a cura di Gian Carlo Zanon
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Nel 1946 la collaborazione di Camus a Combat è rappresentata solo da otto articoli della serie Né vittime né carnefici /“Ni victimes, ni bourreaux”.
Questi articoli vennero scritti dallo scrittore francese per rispondere a due problemi che lo inquietavano. La prima risposta, di ordine pratico, fu quella di dare una mano al giornale Combat che stava rischiando la chiusura; la seconda, nobile, fu quella di lanciare un grido di allarme e di protesta contro il dominio del terrore che si stava instaurando nel mondo e contro la legittimazione dell’omicidio che lo sottendeva.
Né vittime né carnefici disegna le urgenze etiche di Albert Camus in quel periodo storico in cui le speranze di pace e di un rinnovamento radicale della società dell’immediato dopoguerra si andavano via via appannando.
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Gli articoli scritti da Camus nell’autunno del 1946, oltre ad essere assolutamente attuali, rivelano le fonti della crisi sistemica che stiamo vivendo.
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Verso il dialogo
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Sì, si dovrà alzare la voce. Mi sono ben guardato, fino ad ora, dal fare appello alle mozioni degli affetti. Quello che ci fa a brandelli, oggi, è una logica della storia che abbiamo creato noi di sana pianta, i cui nodi finiranno per soffocarci. Non sono certo i sentimenti a poter tranciare i nodi di una logica insensata, vi potrà riuscire soltanto una ragione che ragioni nei limiti a essa consentiti. Ma, non vorrei, in definitiva, lasciar credere che il futuro del mondo possa fare a meno della forza della nostra indignazione e del nostro amore. So bene che all’umanità sono indispensabili grandi motivazioni per mettersi in marcia, e che è difficile mobilitarsi per una lotta i cui obbiettivi sono tanto limitati e i margini di speranza sono poco credibili. Ma non è questione, qui, di trascinare con sé l’umanità. L’essenziale, anzi, è che non si senta affatto trascinata e sappia bene ciò che sta facendo.
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Salvare quanto può essere ancora salvato, per rendere il futuro quantomeno credibile, ecco la grande motivazione, la passione e il sacrificio richiesti. Il che esige soltanto che ci vi si rifletta e si decida chiaramente se vale la pena aggiungere dell’altro al dolore umano per scopi sempre meno definibili, se vale la pena accettare che il mondo si riempia di armi e che il fratello uccida di nuovo il fratello, o se vale la pena invece, demandare ad altre generazioni, armate meglio di noi, l’opportunità che si presenteranno loro.
Per parte mia, credo di essere quasi sicuro della mia scelta. E, proprio perché ho scelto, mi è sembrato giusto parlare, dire che non mi schiererei mai in alcun modo con chi, chiunque sia, sposi la logica dell’omicidio, e trarne le necessarie conseguenze. La cosa è decisa e quindi, per oggi, mi fermerò. Ma prima vorrei che si capisse bene qual è lo spirito che mi ha fatto parlare fin qui.
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Ci si chiede di amare o di detestare questo o quel paese, questo o quel popolo. Ma siamo in tanti ad avvertire anche troppo bene le nostre somiglianze con l’umanità intera per accettare questa scelta. Il modo giusto per amare il popolo russo, riconoscendo quello che non ha mai cessato di essere, vale a dire il lievito del mondo di cui parlano Tolstoj e Gorki, non è augurargli imprese degne di tale potenza: è fare in modo di risparmiargli, dopo tutte le prove attraversate, un nuovo e terribile tributo di sangue. E la stessa cosa vale per il popolo americano e per l’infelice Europa. È questo il tipo di verità elementare da non dimenticare nella furia delle nostre giornate.
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Sì, oggi vanno combattuti la paura e il silenzio, e con essi la separazione delle persone e delle anime che quelli comportano. Vanno difesi anche il dialogo e la comunicazione universale e reciproca fra gli uomini. La subalternità, l’ingiustizia e la menzogna sono i flagelli che ostacolano la comunicazione universale e proibiscono il dialogo. Ecco perché dobbiamo respingerle. Sennonché quei flagelli sono oggi la sostanza stessa della storia e, pertanto, molti li considerano come mali necessari. È vero, infatti, che non possiamo sfuggire alla storia, poiché vi siamo immersi fino al collo, ma è anche vero che possiamo tentare di lottare, all’interno della storia, per preservare quel fattore umano che sembra non appartenerle. Ecco tutto quello che volevo dire. E, in ogni caso, vedrò di puntualizzare il mio modo di pensare e il senso di questa serie di articoli con un ragionamento sul quale, prima di concludere, vorrei che si riflettesse con spirito di lealtà.
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Una grande esperienza subordina tutte le nazioni del mondo agli imperativi della potenza e del dominio. Non dirò che bisogna impedire o incoraggiare questa esperienza. Non ha certo bisogno che l’assecondiamo e, d’altra parte, essa si disinteressa del fatto che si tenti di ostacolarla. L’esperienza quindi continuerà. Porrò semplicemente una domanda: che cosa accadrà se l’esperienza fallisce, se viene smentita la logica della storia alla quale molte persone si lasciano comunque andare? Cosa succederà se, malgrado due o tre guerre, malgrado il sacrificio di alcune generazioni e di non pochi valori, i nostri nipoti, ammesso che esistano, si troveranno isolati dalla società universale? Accadrà che i sopravvissuti a quell’esperienza non avranno nemmeno più la forza di essere i testimoni della loro stessa agonia.
Dato che dunque l’esperienza continua, ed è inevitabile che continui ancora, non sarà male che un certo numero di persone si prendano il compito di salvaguardare , nel corso della vicenda apocalittica che ci attende, quella modesta proprietà razionale che, senza pretendere di risolvere tutto, sarà sempre in grado, in qualunque momento, di dare un senso alla vita di tutti i giorni. L’essenziale è che questi uomini valutino bene, e una volta per tutte, il prezzo che dovranno pagare.
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E adesso posso davvero concludere. In un momento simile, la cosa che mi sembra più auspicabile è che in un mondo devastato dal crimine si cominci a riflettere sul crimine stesso e a fare delle scelte.
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Nel qual caso ci divideremmo fra chi accetta a rigore di far lega con i criminali o con il loro complici, e chi si ribella con tutte le suo forze ad un’idea del genere. E, dato che la terribile divisione esiste, sarà comunque un passo avanti portarla alla luce. Attraverso i cinque continenti, negli anni a venire, verrà ingaggiata un’interminabile lotta senza quartiere fra la violenza e la parola. È vero che le possibilità della prima sono mille volte superiori rispetto a quelle della seconda. Ma ho sempre pensato che se chi spera nella condizione umana è un pazzo, chi dispera negli eventi è un vile.
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E ormai, l’unico motivo d’onore sarà ingaggiare questa formidabile scommessa che deciderà, una buona volta, se le parole sono più forti delle pallottole.
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Albert Camus
30 novembre 1946
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