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di Gian Carlo Zanon
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Stavo pensando a quanto è complicata la professione del giornalista. Lo è per molte ragioni. La più importante è la responsabilità etica dei propri pensieri che nella scrittura divengono intellegibili. Pensieri che, nel bene e nel male, vanno a formare quella che normalmente viene chiamata ‘opinione pubblica’.
La parola ‘opinione’ ha, come molte altre parole, un significato diacronico, vale a dire che è mutata con il tempo: in Omero la parola ‘doxa’ ha il significato di ‘gloria’; poi, dato che la gloria può essere solamente ‘apparenza’, assunse quel significato, per poi infine, dato che ciò che appare può avere, a secondo dello sguardo soggettivo, un significato particolare, il senso del fonema si trasformò in ‘opinione’. Ad esempio un grande istituto di ricerca sociale, che fa ricerche di opinione si chiama, appunto, Doxa, e, ovviamente ‘indagine doxa’ si traduce immediatamente con ‘indagine di opinione’.
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Quindi il giornalista veicola l’opinione altrui con il proprio pensiero, se tutto va bene o, se tutto va male, con la propria credenza. Se si pensa alle tragedie causate dalla propaganda nazista di un Goebbels si capisce fino a che punto può arrivare una insana percezione indotta dalla propaganda giornalistica.
Purtroppo molti, troppi giornalisti, non avendo una valida onestà intellettuale, né un’etica civile, veicolano, consapevolmente, il lettore o lo spettatore televisivo, verso opinioni alle quali neppure essi credono. Perché lo fanno? Spesso esclusivamente per interessi personali altre volte per intenzionalità inconsce che, in quanto tali, sfuggono a loro controllo cosciente.
Poi ci sono i giornalisti ‘assenti’, cioè quelli che non sono connessi con il proprio pensiero profondo, e quindi fanno del giornalismo un mestiere per tirare a campare, non mettendo mai nulla di proprio in ciò che scrivono. Praticamente non fanno altro che un copia e incolla della realtà circostante reificata dalla loro carenza affettiva. Per capirci sono quelli che “Tizio ha detto quello, caio ha detto quell’altro, il papa ha detto che gli spiace che ci sia stato il tal terremoto in tal posto” ecc. ecc. ecc..
In realtà, pensandoci bene, ci sono tante tipologie di giornalismo quanti sono i giornalisti stessi. E allora, tornando al discorso sull’etica civile del giornalista, possiamo dire che più un giornalista, con la propria realtà identitaria e la propria onestà intellettuale, indaga, approfondisce, ricerca la verità più vera degli accadimenti, più il suo lavoro lo porta a realizzare la propria essenza umana. Realizzazione che non può prescindere da un investimento verso l’altro da sé. Nel caso degli informatori mediatici , questo investimento significa rendere, con le parole, sapiente e intelligente il lettore.
Uso le parole di un grande giornalista, Albert Camus, per chiarire ulteriormente il significato di ‘etica giornalistica’: «Ho cercato in particolare di rispettare le parole che scrivevo, giacché, per mezzo di esse, rispettavo coloro che le potevano leggere e che non volevo ingannare».
Ho fatto questa lunga introduzione, prima di affrontare il problema delle vittime delle cosiddette “esportazioni di democrazia” ovvero le guerre in Afganistan, Iraq e Libia, perché in questo caso esprimere una propria opinione sulla giustezza di queste operazioni belliche è difficilissimo: è giusta questo tipo di guerra? Era meglio lasciare che una parte della popolazione venisse uccisa pensando che solo un popolo sovrano può cambiare la storia del proprio paese? Oppure era giusto intervenire come è stato fatto?
È quasi impossibile assumere un’idea giusta in questo caso e parlarne con la certezza che le parole che scriviamo siano, come scriveva Camus, rispettate. So molto bene che le intenzionalità coscienti ed inconsce degli attori in gioco che decidono le sorti del popolo libico non son certo pulite. Delle intenzioni di coloro che guidano il nostro paese è meglio sorvolare tanto è palese il loro coinvolgimento con le aziende petrolifere, ma sappiamo anche che i potenti degli altri paesi che stanno attaccando Gheddafi e le sue truppe, non lo fanno certamente solo per salvare esseri umani.
Naturalmente parliamo delle vittime di queste guerre per parlare anche di tutte quelle guerre dove le forze di altri paesi invadono un paese sovrano, uccidono i resistenti, mettono al potere persone a loro fedeli ed obbedienti.
Leggiamo anche la nostra Costituzione per trovare eventuali giustificazioni di questa guerra, ma non le troviamo: “
Art. 11 – L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Forse non so leggere ma non mi sembra che ci sia scritto che si può attaccare un paese quando vi è in corso una guerra civile.
E allora, forse, in casi come questi, il giornalista deve saper volgere lo sguardo all’interno di questi drammi umanitari e avvertirne la verità più vera che vada al di là delle parole che sente dire dai politici e dai cosiddetti esperti.
Io vorrei farlo dall’angolazione che caratterizza questa nostra rubrica La malattia invisibile, cioè interpretando approfonditamente gli accadimenti.
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Immediatamente sorge una domanda: perché un essere umano uccide un essere umano? Mi faccio questa domanda perché quasi tutti i media nella guerra contro la Libia hanno fatto una differenza tra le ‘vittime’ civili e i ‘morti’ che indossano la divisa delle truppe fedeli a Gheddafi.
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Abbiamo messo le virgolette sulle parole ‘vittime’ e ‘morti’, perché è in questo modo che vengono nominati gli esseri umani deceduti in questo conflitto. Questa modalità di scrittura dà un diverso peso umano alle persone senza vita che si vedono nei telegiornali e sulle foto dei giornali. Possiamo fare l’errore di pensare che tutti coloro che stavano dalla parte del dittatore libico fossero i cattivi e quelli che stanno dall’atra parte fossero i buoni? Evidentemente non possiamo essere così ciechi. Quindi se pensiamo che i morti delle due fazioni siano stati tutti ‘vittime’, dobbiamo anche pensare che coloro che li hanno assassinati siano stati tutti carnefici. E quindi dobbiamo tornare alla domanda iniziale che chiedeva perché un essere umano uccide un essere umano.
Mettendo da parte un attimo la tragedia degli esseri umani che moriranno perché le ‘bombe intelligenti’ falliranno i bersagli, e che, per nascondere l’orrore, verranno chiamate non vittime ma “effetti collaterali”, vorrei parlare invece dei morti uccisi coscientemente dalle truppe che si fronteggiano.
Se un essere umano, premendo un pulsante, sa di uccidere esseri umani, a meno che non lo faccia per difendere la propria vita, è un omicida perché uccide uomini. Ma, come sappiamo, per gli aviatori che premono i pulsanti fatali sui cieli libici, quelli che debbono colpire non sono ‘esseri umani’ ma ‘bersagli’. Coloro che guidano i caccia e i bombardieri, o che sparano con i cannoni, hanno fatto esperienza bellica davanti a computer che riproducono come in una fiction la realtà della guerra. E per loro la guerra, quella vera, non è altro che un adrenalinico war games, e le vittime dei loro atti omicidi sono mere rappresentazioni elettroniche.
Un fulgido esempio di giornalismo
Ecco come si può uccidere un essere umano come se niente fosse: prima si deve necessariamente cambiare semanticamente la sua realtà umana. Il pensiero delirante, che altera la percezione, è “Colui che io uccido appare come un essere umano, sembra un essere umano, ma in effetti non lo è, perché in realtà è un nemico, è un bersaglio, è una sagoma inanimata”.
Anche i nazisti non parlavano di campi di concentramento ma usavano eufemismi tipo, ‘campi di lavoro’. E non parlavano di sterminio degli ebrei ma di ‘soluzione finale’. Tra dieci o vent’anni ci troveremo anche noi come i tedeschi a chiederci per anni “come è potuto accadere’ e qualcuno ci dirà ancora che la violenza è insita nella natura umana magari parlando in modo delirante di peccato originale e di natura umana geneticamente perversa.
Ora, dato che sono i moventi psichici non coscienti che spingono gli esseri umani ai comportamenti, noi dobbiamo capire quali sono e perché essi fanno certe cose e non ne fanno delle altre. Ad esempio moltissimi italiani votano Berlusconi perché credono che egli è una specie di salvatore della patria. Ho usato il verbo ‘credere’ e non ‘pensare’ non a caso perché il pensare è una forma attiva del pensiero mentre il credere è una forma passiva: il pensiero non è tale se non possiede un movimento che indaga la realtà per cercare la verità sempre più profonda e invisibile, ovvero il contenuto del contenuto; la credenza invece si ferma all’apparenza e paralizza il movimento del pensiero il quale non può che produrre che forme ritualizzate e cristallizzando in questo modo il tempo umano.
Nel paragrafo precedente ho utilizzato un’espressione verbale appartenente al lessico psichiatrico, pensiero delirante, perché, per conoscere le motivazioni inconsce che spingono all’omicidio, dobbiamo scomodare la psichiatria e parlare di percezione delirante e di ‘pulsione di annullamento’.
Per cercare di spiegare il significato di questi due concetti, che insieme a ‘Fantasia di sparizione’ sono i cardini della Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, proviamo a leggere un suo articolo, pubblicato nel ‘62 e ripubblicato, nel 2009, nella rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla.
La percezione delirante che altera non l’oggetto percepito ma il senso che noi diamo all’oggetto è una:
«Percezione nuova per: a) aumento di significati secondari per aggiunta di quelli deliranti che b) vengono percepiti nella vivezza immediata in cui la percezione è vissuta».
Ci rendiamo conto che ciò che stiamo scrivendo potrebbe non essere molto chiaro per i non addetti ai lavori, però se applichiamo questi concetti a ciò che sta accadendo in Libia forse riusciamo a farci intendere. I militari della Nato che uccidono con le bombe i militari libici, percepiscono questi esseri umani in modo delirante in quanto, nell’istante della percezione, danno “significati secondari” al loro omicidio, altrimenti non potrebbero uccidere un essere umano. Tutto questo accade ne
«l’immediatezza sincretica della percezione con coscienza del significato” ; vale a dire che la visione viene alterata da un pensiero delirante che si forma nell’istante della percezione: “l’immediatezza sincretica».
Tutto questo, pur non essendo natura umana ma un disturbo del pensiero, diventa congruo in questa nostra società e viene legittimato dalle leggi costruite appositamente dai nostri novelli Creonti.
In questi giorni è stato pubblicato in Germania, in lingua tedesca, il capolavoro teorico di Massimo Fagioli Istinto di morte e conoscenza. In questo suo primo libro, pubblicato la prima volta in Italia nel 1970, egli ha svelato l’origine della malattia mentale: la pulsione di annullamento. Secondo la psichiatra tedesca Hannelore Homberg, la scoperta della pulsione di annullamento da:
«risposte inedite ai tanti che in Germania fanno ancora i conti con l’enorme problema del nazismo. Le radici pulsionali dell’anaffettività scoperte da Fagioli potrebbero dare una risposta estremamente importante e innovativa alla loro domanda ‘come è potuto accadere’, evitando però – conclude la psichiatra – ogni pessimismo su una natura umana sempre pensata come necessariamente malvagia ed aggressiva».
La dottoressa Homberg quindi afferma che i tragici avvenimenti della shoah, che continuano a segnare intere generazioni di tedeschi, ancora angosciati dai sensi di colpa e dal terrore di un “eterno ritorno” di tanta violenza distruttiva, possono essere spiegati solo se si utilizza come chiave ciò che Fagioli ha chiamato “pulsione d’annullamento” e che descrive come “un far sparire l’altro interiormente”, come fanno i bambini quando chiudono gli occhi per far sparire qualcuno, facendo un “uso negativo delle capacità visive.”
Ci sembra, a questo punto, abbastanza chiaro che, per poter far violenza o uccidere l’altro da sé lo si debba prima spogliare del senso dell’umano e attribuirgli attraverso la percezione delirante un altro significato. Sappiamo che i tedeschi percepivano gli ebrei come esseri deformi. Solo in questo modo si può fare la differenza tra vittime e morti: percependoli in modo diverso.
Io non so so se questa guerra può essere giustificata. Da giornalista, che non si ferma alla superficie delle cose, ma tenta di dare un senso reale a questa vicenda drammatica, posso informarvi che, nonostante ciò che ci viene detto dai media, i libici, governativi e ribelli sono tutti esseri umani, e se divengono vittime significa che c’è un carnefice che non si può nascondere dietro una divisa che togliendogli l’identità umana lo deresponsabilizza dei suoi atti: anche i nazisti al processo di Norimberga affermarono che, essendo militari, avevano semplicemente eseguito degli ordini. E sono stati condannati.
A Gheddafi hanno più volte cambiato il significato del suo essere: divinizzato dagli occidentali come un papa – tanto che qualcuno è arrivato a baciargli la mano – poi è diventato il nemico pubblico numero uno e percepito come tale.
Per me e per coloro che non cambiano in modo delinquenziale e con furbizia opinione ogni giorno a secondo come tira il vento, e non hanno la cataratta della percezione delirante, Gheddafi è sempre stato un criminale protetto dalle industrie petrolifere e dai loro complici politici. Il governo italiano, principale alleato di questo criminale megalomane e pazzo – parliamo di Gheddafi – lo pagava per impedire gli imbarchi, e continuava a pagarlo anche dopo che erano stati documentati i metodi disumani e criminali che venivano impiegati con coloro che venivano respinti dalle nostre leggi razziste.
Bastava guardare e pensare anziché annullare e credere … in modo delirante.
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29 marzo 2011
Ultima modifica 4 febbraio 2014
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