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30 Gennaio 2024 10:01
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di Gian Carlo Zanon
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«Con i suoi miti e le sue passioni la tragedia produce quell’inganno in rapporto al quale chi inganna è più onesto di chi non inganna e chi è ingannato è più saggio di chi non si fa ingannare ».
Platone, Gorgia
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«Per Aristotele la tragedia, come ogni forma d’arte, è una forma di conoscenza legata all’imitazione “che è connaturata agli uomini fin dall’infanzia”». Così scrive Franco Rella nella sua introduzione a Le Baccanti di Euripide; Feltrinelli editore, gennaio 1993.
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Ciò che afferma Rella è indubbiamente vero: l’impianto filosofico dello stagirita non gli permetteva di andare oltre il concetto di mimesis inteso come “imitazione”. Per Aristotele tutta l’arte è imitazione, ma anche il sapere è imitazione: i bambini sono delle tavolette di cera senza identità che assorbono il sapere supremo imitando i loro maestri, che il più delle volte sono violenti pederasti.
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Anche se apparentemente Aristotele si allontana dal pensiero platonico che considerava l’arte imitazione di una imitazione e il pathos della rappresentazione scenica come un veleno che “dissecca l’anima”, in realtà ciò che propone è solo catarsi , parola che solitamente viene tradotta come “purificazione” ma, in questo caso, dovrebbe essere ‘tradotta’, in senso lato naturalmente, con “consolazione”.
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Qui apriamo una parentesi perché la mia amica, studiosa di storia e arte antica, Rita De Petra, (che ha fatto un’’editing molto accurato di questo mio lavoro) mi ha contestato questo passaggio scrivendomi;
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Rita De Petra : (questa è una tua illazione non suffragata da alcun ragionamento, nel testo troviamo: katarsis ton patema ton, che può intendersi sia come purificazione delle passioni che come purificazione dalle passioni, non vedo la consolazione.)
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In effetti leggendo alla lettera la poetica di Aristotele la sua frase, katarsis ton patema ton, non si può che tradurre nel modo suggeritemi da Rita De Petra.
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Ma se voglio dare un senso alla parola ‘purificazione’ non posso che pensare ad una parola che contenga il concetto di “consolazione”. Non penso che la psiche umana si possa “purificare”. Si può casomai curare un individuo ammalato di depressione, o di altre malattie di cui di solito si occupa la psichiatria. Lo spettatore della tragedia non veniva ‘curato’ ma condotto verso la Sophrosyne/temperanza – che io traduco in annullamento del proprio ‘sentire’ – attraverso una codificazione mistificatoria dei contenuti del mito e dell’epica.
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Al cittadino greco che, secondo Aristotele, assistendo alla tragedia veniva ‘purificato dalle passioni’, in realtà veniva detto, surrettiziamente, che egli non si poteva opporre al fato. Certo lo poteva fare, come Edipo che volendo sfuggire ai vaticini della Pizia delfica finisce nelle grinfie del destino, o come Antigone che sfida le leggi patriarcali che annullano l’etica interiore, ma avrebbe pagato a caro prezzo la sua ribellione. I protagonisti della tragedia pagano sempre la loro “ybris/tracotanza”, pagano sempre la loro ribellione.
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Non vorrei certo banalizzare e, come mi fa notare Rita De Petra, nel suo successivo intervento il senso della tragedia non si esaurisce certamente nella persuasione, più o meno consapevole da parte degli autori, dello spettatore. Ma anche questo è un aspetto da considerare.
Lo spettatore quindi, secondo il mio modesto parere, assistendo ad una tragedia che in qualche modo gli diceva “la vita è questa, non ci si può ribellare né alle leggi della polis né al fato”, veniva “purificato dalle passioni” dal punto di vista del pensiero dominante che vedeva la passione come una malattia da espellere dal pensiero, ma dal mio punto di vista veniva ‘consolato’.
E per “consolato” non intendo quella ‘consolazione cristiana’ che i greci del V secolo non avevano, ma un ‘alleviare’ quella sofferenza interna che sentivano e alla quale non sapevano dare un nome né un volto.
Possiamo pensare che questi uomini di cui stiamo parlando avessero le stesse nostre domande esistenziali. Il sistema filosofico cristiano ha ‘risolto’ la “crisi della presenza” annullando l’essere terreno e rimandando a dopo la morte la completa realizzazione umana. I greci del V secolo avevano scelto la ragione che annullava l’identità umana irrazionale. Quell’irrazionale che i tragediografi facevano emergere nelle loro tragedie, dicendo però che per “essere” senza scissioni tra pensiero irrazionale e atto, bisogna pagare. Questo perché in fondo anche per Sofocle, Eschilo ed Euripide nell’en kai pan , cioè nel voler “essere totalmente”, c’è una colpa.
Come dirò più avanti, la tragedia Baccanti si scosta notevolmente da questo pensiero filosofico castrante e pervasivo.
Inoltre non possiamo pensare che Aristotele potesse nemmeno lontanamente stravolgere un pensiero filosofico così radicato e commisto con politica e potere. Per lui la “purificazione dalle passioni” andava legittimata. D’altronde lo stagirita aveva idee molto confuse anche sulla nascita della tragedia per non parlare dell’arte in generale che egli pensava come mera mimesis, vale a dire come pura imitazione del reale.
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Quindi Aristotele non si sbaglia quando parla di katarsi, perché la tragedia nel quarto secolo (la tragedia per noi resta legata al nome dei tre tragici e il suo ciclo si considera concluso con il quinto secolo, praticamente con le Baccanti, nei secoli successivi, quando Aristotele scrive La Poetica, conduce un’analisi su di una produzione ormai esaurita) aveva proprio lo scopo di addomesticare il cittadino alla σοφροσύνη, cioè alla temperanza. Sophrosyne/temperanza che stava a indicare la moderazione e il retto comportamento dell’uomo che, consapevole della propria inferiorità rispetto agli dei, deve accettare i fatali decreti con rassegnazione.
Il problema sta nel decidere cosa si voleva che fosse in realtà un politiycos, cioè un abitante della polis; forse un uomo che pensava, come suggerotogli da Aristotele, che la donna fosse “un’anomalia della specie umana”?
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Quindi il cittadino maschio della polis* doveva rassegnarsi alle ferite del fato e conseguentemente anche alle leggi e alle gerarchie, specchio del potere divino**, che mutavano nel tempo. La tragedia attica, che raggiunge il suo apice nel V secolo a.C. aveva lo scopo di ‘aiutare’ il cittadino nell’accettazione delle trasformazioni etiche espresse nelle nuove leggi. Mutazioni etiche che venivano proposte di volta in volta dal basileus, o dal tiranno, o da un gruppo oligarchico.
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La tragedia in poche parole era, anche, uno strumento raffinato di persuasione occulta in mano al potere. I tragediografi attingevano sì dal mito ma, senza snaturarlo troppo, lo plasmavano (forse senza rendersene conto per una specie di censura interna) a secondo delle ‘necessità’ politiche contingenti.
Nel periodo dei Pisistrati, tiranni in quanto sovvertitori del potere dinastico precedente, i miti omerici erano funzionali al loro potere: sono loro che secondo la tradizione fanno raccogliere i canti che narrano della guerra di Troia in quanto l’individualità eroica dell’Iliade doveva essere celebrata perché apportatrice di un nuovo cosmos che aveva la funzione di squilibrare l’ordine gerarchico preesistente e ricostruire sulle sue ceneri un nuovo modello di società.
Come racconta Mario Vegetti, nel suo importante lavoro, L’etica degli antichi, ogni volta che un ordine politico cadeva per fare spazio ad un altro, anche il mito doveva essere riplasmato in funzione di quel cambiamento. L’epica cantata dagli aedi e poi la tragedia del V secolo a. C. avevano questa funzione.
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Rita De Petra: (questa interpretazione mi sembra molto riduttiva! Bisogna tener conto che si va verso la disgregazione della polis, non solo ma che siamo di fronte ad un originale “intreccio di arte e politica” Canfora, Storia della letteratura greca, pag 137, mentre lo stesso Vegetti mette in guardia da due errori fondamentali: considerare l’autorappresentazione ideale della città coincidente con la realtà storica della stessa e l’universo culturale della polis come un tutto coeso ed omogeneo intorno ai valori fondanti, ignorando così le voci critiche, pag 55)
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Naturalmente concordo con quanto dice Rita. Forse a volte sono troppo tranchant
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Il cittadino greco, del V secolo a.C. teme il caos. Lo teme perché crede che la propria origine animale sia ancora ben presente in lui. Nonostante egli alieni la propria ‘animalità’ nell’altro da sé – animalità che, secondo la cultura vigente, non corrisponde esattamente al modello dell’uomo adulto, cioè nella donna, nel bambino, nel barbaro e nello schiavo – egli ‘sa’, glielo hanno insegnato i filosofi, che solo la ragione controlla ed impedisce il ritorno allo stato ferino. L’animalità per il maschio adulto della polis è presente in queste categorie subumane, che non hanno ancora raggiunto – il bambino maschio – o che non raggiungeranno mai, – la donna – la completa umanità che solo le caratteristiche fisiche e la ragione possono dare.
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Nonostante questo pensiero, indotto dai sistemi filosofici che si susseguono senza mai cambiare l’idea pessimistica sulla realtà umana, l’uomo greco ‘sente’ i moti irrazionali della psiche. Non è così ‘psichicamente morto’ come lo vorrebbero filosofi e governanti che furbescamente hanno capito che le leggi da sole non bastano a tenere a freno le istanze e le naturali esigenze umane del cittadino. E allora, come ora, il potere costituito cerca attraverso la cultura di indirizzare il pensiero traducendo i moti irrazionali in patologia da controllare con il farmacos della ragione. Tutto ciò che è irrazionale è una malattia che si può tenere a freno concedendo al cittadino riti, feste, giochi catartici. Riti, feste e giochi istituzionalizzati che divengono delle vere e proprie valvole di sfogo che hanno lo scopo di ‘purificare’ da quei pensieri inconsci molesti che sono solo un inciampo per una società tanto ‘temperata’ quanto anaffettiva auspicata da Platone ne La Repubblica.
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Se è vero, come dice Rella, che nel tragico “le contraddizioni si affrontano senza mai risolversi” è anche vero che ogni tragedia propone una sua ‘verità’. Una ‘verità’ non esplicitata, subliminale, ma proprio per questo molto più pericolosa in quanto accede, attraverso la rappresentazione, direttamente all’inconscio. Proprio per questo è ‘consolatoria’ e induce alla rassegnazione depressiva. Ci si può opporre e anche ribellarsi ad una legge ingiusta … molto più difficile fermare un’opera di persuasione quando questa percorre i sentieri sotterranei della psiche.
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Le Baccanti di Euripide in qualche modo, anche se non completamente, sfuggono a tutto questo. Come scrive Nietzsche, molto si deve far perdonare l’autore che, destrutturando il senso mitico della tragedia, l’ha di fatto uccisa. Il filosofo tedesco ne La nascita della tragedia, esprime una dura condanna e attribuisce al tragediografo greco la decadenza e la morte della tragedia. Morte causata dal suo eccessivo razionalismo. La ‘contaminazione filosofica’ che Euripide subì da Socrate, suo amico, non fu buona consigliera.
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Ma con questa sua opera tarda (postuma), 403 a. C., il tragediografo che aveva spalancato completamente le porte al deus ex machina risolutore – già parzialmente aperte da Eschilo con l’Orestea – appannando la responsabilità individuale, si riscatta. La scelta di proporre Dióniso come protagonista è coraggiosa. Non è più l’irrazionale ad essere pericoloso ma al contrario il pericolo viene dall’eccesso di ragione che vuole eliminare ciò che ragione non è.
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Ne Le Baccanti Il caos non è causato dal sovvertimento del cosmos e delle leggi del basileus, ma al contrario è originato dell’’ordine sociale’ voluto da Penteo, re di Tebe.
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Il dionisiaco, tanto temuto, si trasforma in farmakos, che purifica la polis dal finto perbenismo facendo emergere il latente. Penteo paga il suo voyeurismo; la madre Agave l’ odio inconscio che aveva portato la sorella Semele, madre di Dióniso, alla morte
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Colpe non punibili per legge. Nessuna legge può punire una psicopatologia come il voyeurismo del re di Tebe o l’odio sotterraneo di Agave che spinge con parole subdole Semele a chiedere al dio portatore di fulmini di mostrarsi in tutta la sua potenza decretandone così la morte. Dióniso non fa altro che rendere visibile la malattia inconscia di Penteo e della madre Agave che resa folle dal dio, non riconosce più il proprio figlio, che delirantemente vedrà trasformato in cucciolo di leone, e gli mozzerà la testa.
La malattia inconscia di Penteo e Agave rappresenta quella dissociazione psichica che è, anche oggi, la struttura portante delle società fondate sul culto della ragione in cui l’irrazionale viene vissuto culturalmente come ‘male’ originario.
Dicevamo del sovvertimento di alcune ‘regole’ drammaturgiche in questa opera di Euripe: mentre nelle tragedie antecedenti la colpa sta sempre nelle dismisura degli atti dei protagonisti, – vedi soprattutto Edipo Tiranno di Sofocle e Prometeo incatenato di Eschilo – nelle Baccanti la colpa sta nella ‘normale’ perversione inconscia dei protagonisti. Per Penteo e la madre Agave la causa prima della loro rovina non sta in un atto palesemente smisurato – invidia mortale e voyeurismo non sono atti palesi percepibili – ma nella loro latente intenzionalità inconscia che Dióniso fa emergere sino alle drammatiche conseguenze finali.
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Euripide da duemila e cinquecento anni ci suggerisce che non è il dionisismo, ovvero l’irrazionale, la causa del caos, ma un inconscio malato celato sotto la maschera del perbenismo che usa la ragione per contenere una pericolosa dissociazione interna.
Dióniso nelle Baccanti è la divinità che svela la dissociazione interiore di chi con il proprio raziocinio copre in verità l’impossibilità di poter accedere a quella zona dell’irrazionale perché malata.
In questa tragedia non è il figlio di Zeus e Semele ad essere uno straniero fuorilegge, anomos, senza legge, ma Penteo, il re che vuole impedire l’eudaimonia, la felicità, da non confondere con la pazzia del furor bacchico che domina le Baccanti sul monte Citerone: una finta libertà che non dà la felicità ma, come scrive Rella, offre “soltanto l’insensibilità di fronte all’infelicità”. Insensibilità e cecità anaffettiva che porteranno alla tragedia finale.
Come abbiamo scritto precedentemente, Dióniso è una antichissima divinità tellurica che solo tra il VI e il V secolo a. C. ottiene, spodestando Estia dea del focolare domestico, un posto sull’Olimpo.
Come se fosse un barbaro lo si tenne a lungo fuori dalle mura delle polis perché il suo essere indefinito turbava il quieto vivere dei cittadini. Poi lo si inglobò istituzionalizzandone il culto fino a renderlo irriconoscibile. Il grande scranno vuoto posto liturgicamente al centro della cavea del teatro sul quale Dióniso ‘assisteva’ alle rappresentazioni, in verità denunciava l’assenza del dio due volte nato al quale è impossibile mettere i ceppi rituali delle istituzioni.
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becoming an electrician
12 Aprile 2013 @ 17:09
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