haiku basho
Articolo copiato da Spogli del Blog Segnalazioni del 18 ottobre 2012
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La natura degli Haiku secondo Zanzotto
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A un anno esatto dalla scomparsa del poeta esce una raccolta negli Usa e in Inghilterra
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di Franco Marcoaldi
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Nella prefazione del 1982 alla raccolta 100 haiku, curata da Irene Iarocci e pubblicata da Longanesi, Andrea Zanzotto non nasconde gli elementi di oggettiva distanza da quei brevi componimenti poetici giapponesi (in termini culturali, logici, linguistici, immaginativi), ma dichiara anche di esserne attratto in modo irresistibile. Quello «sfarfallio di logos», quei versi sospesi e privi di soggettività che «saettano come smussate freccioline che ci vengono da un mondo simile a quello di Alice», finiscono inevitabilmente per incrociarsi con chi da tempo va in cerca dello stesso «ammiccante moto di palpebra», lavorando con frammenti esistenziali e linguistici, con detriti di ogni genere capaci però di creare nuove scintille e dunque una nuova, possibile germinazione vitale.
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Per il poeta di Pieve di Soligo, la prima e più naturale occasione di cortocircuito è offerta dalla diglossia in cui è cresciuto, dal continuo confronto tra lingua italiana e dialetto, quella lingua materna e pre -logica che «monta come un latte». Zanzotto lo scriverà in nota a Filò, nato sotto l’impulso di Federico Fellini e del suo film Casanova, libro che l’editore Einaudi ripubblica molto opportunamente proprio ora, con un bel saggio introduttivo di Giuliano Scabia, in occasione del primo anniversario della morte del poeta solighese.
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Ma in questi stessi giorni esce anche in America e in Inghilterra, per la University of Chicago Press e la cura di Anna Secco e Patrick Barron, un altro e nuovo libro (Haiku. For a season/ per una stagione), che dà conto di un’ulteriore avventura poetica-linguistica, se possibile ancor più radicale.
È la metà degli anni ottanta quando Zanzotto decide di misurarsi direttamente con gli haiku, con quei cristalli di apparente non-senso così ricchi di senso occulto e indefinibile, nella convinzione che il modo migliore per cercare di dar vita ad un’analoga struttura «scandita su un primordiale bioritmo», si affidi all’azzardo di scriverli in una lingua straniera, l’inglese. Traducendoli in italiano soltanto dopo, in un secondo momento. L’esito di quell’azzardo è ora sotto i nostri occhi ed è luminoso. Gli haiku hanno al loro centro la natura. E il primo libro di Andrea si intitolava Dietro il paesaggio. Parafrasando quel titolo, si potrebbe dire che qui, in questi «pseudo-haiku», lo sforzo sia di cercare cosa si cela ‘dietro il linguaggio’, tenendo sempre, come bussola, la natura.
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E in particolare una natura che trova come suo privilegiato oggetto d’attenzione il fiore più umile e fragile e tenace: il papavero. Ecco così che in mezzo a tanti «petali soffioni filamenti» e «lanuginose incertezze », il posto d’onore ce l’ha lui: il poppy, il papavero. Che se ne sta, «certo di sé, quando/gocce incerte pettinando passano». Il vento e la tempesta hanno inginocchiato il frumento, hanno «arruffato e derubato» il ciliegio, ma lui resiste. Ai bordi dei sentieri, nelle faglie, nelle forre. Chissà, forse «anche sotto il becco di spettegolanti galline».
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Come è buona norma negli haiku, l’io del poeta anche in questo caso si ritira, scompare. Al più, può farsi occhio. Ma non è affatto casuale che quell’occhio affidi i suoi barlumi di vitalità, i suoi «mini-discorsi spezzettati », il suo travestimento esistenziale, proprio ai papaveri, che gli appaiono come «resurrezioni che l’innocenza inventa».
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Repubblica 18.10.12
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