di Giulia De Baudi
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Sono qui a parlare di Shoah. «Di quell’esperienza non si dirà né si scriverà mai abbastanza, perché è inesprimibile» scriveva la scrittrice ungherese Edith Bruck scampata al forno crematorio che l’attendeva.
Ma prima vorrei narrare una storia che mi riguarda:
Una donna nata sul finire dell’ottocento a Nuoro, cammina sotto il sole nordafricano con una bambina di etnia berbero/tunisina in braccio. La bambina ha una ferita infetta e la donna la sta portando all’infermeria del villaggio.
La figlia, una ragazzina, avrà si e no dodici anni, osserva la madre che si allontana sotto il sole con la bambina fra le braccia e … prova vergogna per ciò che vede. La dodicenne è una pies noire, così venivano chiamati i figli degli europei che nascevano nel nord africa colonizzato dai francesi. La ragazzina, nata nel nord africa, non sa che pensare a coloro che hanno un’altra lingua e una sfumatura diversa del colore delle pelle come a degli esseri subumani è un’orrenda negazione dell’umano; lei ha dodici anni e sin dalle elementari, nelle scuole francesi, le hanno insegnato che gli arabi non sono esseri umani come loro, loro, che li hanno colonizzati per esportare quell’eguaglianza che hanno avuto in eredità dalla rivoluzione francese. Quell’eguaglianza il cui significato, loro, i francesi, dovrebbero ben conoscere.
Alla ragazzina hanno insegnato gli ideali della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fratellanza, ma le hanno anche insegnato che per essere liberi, uguali e fratelli si deve appartenere a ciò che essi chiamano “la razza bianca”. Lei non sa che cose come il colore della pelle un po’ più annerita dal sole, i capelli un po’ più crespi, parlare stentatamente la lingua dei colonialisti, non possono qualificare un essere umano come inferiore.
A lei a scuola le hanno insegnato che gli arabi non sono esseri umani come loro: sono infidi, stupidi, possono solo fare i servi, fare i mestieri umili. Le hanno insegnato che con quella gente non si possono avere rapporti come tra eguali, non si può tenere in braccio una bambina araba , anche se è ammalata e deve essere portata all’infermeria del villaggio perché potrebbe morire. Non si può, è un’onta.
La mamma, che arranca con la bimba sotto un sole inclemente, è analfabeta, non è andata a scuola, nessuno gli ha insegnato che gli arabi appartengono alla razza degli schiavi. A lei sembra naturale prendere in braccio una bambina ammalata e portarla dal medico, anche se ha la pelle un po’ più scura della sua, anche se ha i capelli un po’ più crespi dei suoi.
Sono passati settanta anni, quella che fu la dodicenne pies noire, vergognandosi finalmente della sua vergogna di allora, racconta questa storia alla figlia: la figlia sono io, colei che ricorda quel fatto è mia madre, la giovane donna con in braccio la bambina araba è mia nonna. Non so perché, ora, in una sera d’inverno, mia madre racconti a me questa storia.
Forse ha recuperato questo ricordo per mondarsi dall’inumano, forse, ora che viviamo in una società multietnica, ha potuto capire. Forse avrà fatto un sogno o avrà sentito un suono che ha trasformato il senso di quella memoria. Qualsiasi cosa sia successo, il senso di colpa che gravava sulla sua immagine interna, la sua erinni, si è acquietata.
Ho voluto narrare questo episodio per introdurre un argomento spinoso: le Erinni della Shoah , vale a dire il senso di colpa che grava su molti sopravvissuti allo sterminio. Non solo ebrei ovviamente.
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Polizia ebraica del ghetto di Varsavia
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I sensi di colpa più laceranti non venivano certamente vissuti da chi era entrato nei Sonderkomandos ebraici, che aiutavano i tedeschi a scovare i loro correligionari nascosti, né dalle persone che facendo parte del Consiglio degli anziani, avevano collaborato con le Ss, compilando di volta in volta le liste delle deportazioni a loro discrezione. Entrambe queste categorie di persone alla fine della guerra sfuggirono dalle accuse di collaborazionismo perché, come scrisse Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male, avevano commesso quei delitti “al fine di salvarsi dal pericolo immediato di morte” o “ perché speravano di sventare conseguenze più gravi di quelle concretamente verificatesi”.
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Foto: Krakow, polizia ebraica del ghetto. 1941
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Non è questo fenomeno che vorrei indagare perché si riferisce solo a fatti palesi facilmente giudicabili. Vorrei parlare dei sensi di colpa presenti nel profondo dell’Io di molti sopravvissuti per aver tradito se stessi.
Sappiamo che i sensi di colpa scaturiscono per due ragioni fondamentali: o per aver fatto qualcosa che non si doveva fare, o per non aver fatto qualcosa che si doveva fare.
«Perché mi sono salvato io e non i miei cari, e perché i sei milioni?» Si domandava spesso Schulim Vogelmann salvatosi per varie circostanze convergenti. Certo la sua conoscenza del tedesco e del polacco, la sua abilità di tipografo, e il suo nome inserito nella Schindler’s list erano stati elementi importanti per la sua salvezza. Ma questo è solo un pensiero razionale che non aiuta a capire.
Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura nel 2002, salvatosi miracolosamente dalla morte nel campo di concentramento di Buchenwald, sostiene che «Il valore principale nei Gulag e nei Lager era sopravvivere. Ma per sopravvivere bisognava collaborare. Perciò i superstiti hanno dovuto dimenticare se stessi».
Aver collaborato all’inumano, per chi è sopravvissuto, significa aver perduto l’identità umana, o una parte importante di essa. Per chi si è salvato, sapere che “ha dimenticato se stesso” perché doveva salvare la propria esistenza, non è sufficiente per attenuare quel sentimento che rende inconciliabile l’esistenza fisica con la profonda ferita inferta al proprio essere. I suicidi di molti sopravvissuti alla Shoah parlano di un piaga insanabile, che ritorna a sanguinare persino nei sogni.
Aver tradito la promessa primaria che vincola l’essere che nasce all’umano*, è una ferita che difficilmente si rimargina. Senza la nostra realtà umana più profonda noi esistiamo ma non siamo.
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«L’ordine che era stato pronunciato con voce tranquilla, di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico con voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto del messaggio. Se qualcuno esitava ( esitavano tutti perché non capivano ed erano terrorizzati) arrivavano i colpi ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso linguaggio(…) Era un segnale : per quegli altri, uomini non eravamo più: con noi, come per le vacche o i muli, non c’era una differenza sostanziale tra l’urlo e il pugno».
Questo paragrafo, estratto dal libro di Primo Levi I sommersi e i salvati, spiega molto bene come i prigionieri dei Konzentrationslager venissero spinti a credere di non appartenere al genere umano. Per sopravvivere si doveva forzatamente aderire alle percezione delirante che gli aguzzini agivano nei confronti delle loro vittime impotenti. Percezione delirante che relegava gli ebrei alla stato animale. La propria mutazione mostruosa dal genere umano all’animale, fu il prezzo che molti pagarono per salvarsi la vita senza riuscire, come scrisse Albert Camus in una delle Lettere ad un amico tedesco scritte tra il ‘43 e il ’44, a «conservare nel cuore il ricordo di un mare placido, di una collina indimenticabile, il sorriso di un volto caro. » Certamente lo scrittore francese non visse gli orrori dei campi di concentramento. Egli sfidò la sorte entrando nelle file della Resistenza. Non aspettò che venissero a prenderlo per trasformarlo in un animale da macello. Si ribellò.
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1944 – Resistenza armata nelle vie di Parigi
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C’è una domanda a cui non so dare una risposta: “perché sei milioni di ebrei, – tranne che in qualche caso isolato – non si ribellarono? Mi sono data anche risposte molto razionali. So ad esempio che la Shoah ebraica non fu percepita dalle vittime immediatamente come tale. Se milioni di persone avessero saputo che per loro si preparava la “soluzione finale” qualcosa avrebbero fatto. Invece come scrive Hannah Arendt li presero poco alla volta, prima gli apolidi, poi i poveri, poi le classi meno abbienti, e via così fino a che non arrivarono anche a coloro che preparavano le liste di deportazione. Nel processo che lo vide imputato, Karl Adolf Heichmann raccontò, con dovizia di particolari, il disegno lucido e criminale pensato da Hitler ed eseguito dai suoi solerti camerati che facevano a gara a chi ne ammazzava di più in meno tempo. Se si guardano gli accadimenti solo dal punto di vista storico, attingendo solo alle, per altro preziosissime, fonti documentarie, non si giunge a capire fino in fondo i motivi della non ribellione della stragrande maggioranza di loro.
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Karl Adolf Heichmann durante il processo
che finì con la sua condanna a morte
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Dopo il Kristallnacht ovvero il pogrom condotto dalle Ss della notte tra il 9-10 novembre del 1938 fu chiaro che la vita degli ebrei non aveva nessun valore per i nazisti in particolare e per il popolo in generale. In quella notte fatale, in Germania in Austria e in Cecoslovacchia vennero distrutti circa 10.000 negozi ebraici, quasi tutte le sinagoghe furono incendiate o distrutte, centinaia di persone vennero percosse mortalmente e ben trentamila ebrei furono deportati nei campi di concentramento dai quali la maggior parte furono liberati nei mesi successivi, ma solo dopo esser stati privati della maggior parte dei loro beni.
In quei mesi invece di armarsi, fuggire, ribellarsi ad una morte disumana, moltissimi di loro si suicidarono. Perché? Morire per morire era meglio morire difendendosi anche solo con un coltello. O no?
Fu forse perché la campagna propagandistica martellante aveva convinto anche loro che la “razza” ebraica era un’anomalia della specie da eliminare?
Qualcuno mi può rispondere?
Molte troppe domande sulla Shoah rimangono inevase, e ciò ineluttabilmente imprigiona il pensiero. Non vorrei però che le Erinni, le antiche guardiane della giustizia, si trasformassero in pacificate Eumenidi che fanno dimenticare i crimini commessi trasformando le vittime in carnefici.
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Gli effetti del Kristallnacht
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Vorrei finire con le domande che Hannah Arendt si pose durante il processo al nazista Heichmann che ella seguì come corrispondente del The New Yorker.
«La giustizia vuole che l’imputato sia processato, difeso e giudicato, e che tutte le altre questioni, anche le più importanti: “come è potuto accadere”; “perché è accaduto?”; “perché gli ebrei?”; “perché i tedeschi?”; “quale è stato il ruolo delle altre nazioni?”; “fino a che punto gli Alleati sono da considerarsi corresponsabili?”; “ come hanno potuto i capi ebraici contribuire allo sterminio degli ebrei?”; “perché gli ebrei andavano alla morte come agnelli al macello?” ».
Perché non si è mai voluto andare fino in fondo al cuore di quella tenebra? Se lo si fosse fatto, forse ora non ci sarebbe una questione palestinese.
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*Mi riferisco alla Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli espressa nelle sue opere. Leggi QUI e QUI
21 Gennaio 2013
Gli altri articoli sulla Shoah li potete leggere qui
Leggi anche Israele e i sensi di colpa dell’occidente cristiano
Fabio DP
22 Gennaio 2013 @ 10:55
Di nuovo complimenti per i tuoi scritti.
Molte delle domande che ti poni, qui come in altri articoli, sono naturalmente al limite – ancora – del ‘senza risposta’, ma questo credo che anche tu lo sappia.
Per ora (mi riservo di rileggere meglio il tuo scritto) ho un solo appunto da fare a quello che scrivi: la Kristallnacht non fu niente di nuovo nella storia ebraica; un pogrom come ce n’erano stati a centinaia nella storia e a decine solo nell’ultimo mezzo secolo, con centinaia di morti in particolare nell’est europeo.
Niente di nuovo, a cui perciò non c’era da replicare in un modo “nuovo” rispetto al passato. Da duemila anni la prassi consolidata era piegarsi senza opporsi, quindi resistenza passiva, “come un giunco all’arrivo della piena”: cito a memoria, e forse mi sbaglio, ma mi sembra di ricordare un detto ebraico che più o meno dice così. Perciò la ‘resistenza armata’ della cui mancanza ti stupisci, è logica tradizionalmente “non ebraica” che risale addirittura alla seconda delle guerre giudaiche contro i romani.
Solo durante e dopo l’olocausto, cioè dopo che fu chiaro che erano davanti ad un “nuovo” tipo di aggressione non al solito pogrom, si è fatta strada nella mentalità dei ‘nuovi’ ebrei l’idea della resistenza attiva (che forse ha contribuito alla lunga a determinare la questione palestinese – insieme alle politiche arabe naturalmente – ben più che non l’inazione precedente).
Ma per venti secoli, per tanti motivi, non ne ha fatto parte. Nel 1938 non potevano sapere naturalmente che il pogrom non era uno dei ‘soliti’ pogrom, ma che dietro di esso si muoveva una teorizzazione sterminatoria assolutamente nuova e imprevedibile (infatti Hitler non approvò la Kristalnacht proprio per le caratteristiche turbolente e poco “razionali” del pogrom).
Non sottovalutiamo inoltre che gli ebrei non erano e non potevano opporre – come altri popoli – un ‘fronte compatto’ alla persecuzione. Erano perlopiù famiglie o piccoli nuclei disseminati all’interno di un mare ostile di “ariani”, in gran parte di Europa (da cui fra l’altro non potevano fuggire). Difficile resistere in quelle condizioni. Solo nei ghetti e nei campi ci furono episodi di resistenza, proprio perché lì c’era una “massa critica” concentrata di ebrei.
Da cui l’ultimo appunto: la frase “morire per morire era meglio morire difendendosi anche solo con un coltello” mi sembra davvero un po’ troppo romantica per la questione di cui parli.
Ciao, Fabio