• Il senso delle parole: “cultura”

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    di Gian Carlo Zanon

     

    Cultura [lat. cultūra(m) da cultūs culto]  Complesso di cognizioni, tradizioni, procedimenti tecnici, tipi di comportamento trasmessi e usati sistematicamente da un dato gruppo sociale, o da un popolo, o da vari popoli, o dall’intera umanità.

     

    Culto [lat. cŭltu(m) da cŏlere coltivare]  Complesso delle usanze e degli atti attraverso i quali si esprime il sentimento religioso.

     

    Coltivare [lat. medioevale cultivare da cŏlere coltivare]  Lavorare il terreno perché produca frutti.

     

    Cultŭs, coltivato, lavorato. Ager cultissimus, campo .

     

    Cultŭs, il coltivare materialmente o spiritualmente. Coltivazione, cultura, cura, ossequio, culto. Nutrimento e tenore di vita (coltivare se stessi, divenire colti, aver cultura); (Cultŭs stidiorum liberalium cura, perfezione negli studi; litterarum cultis, cultura letteraria.

     

    Colere,  coltivare, curare, aver cura.

     

    Come si può vedere il termine si riallaccia a Cura:  aver cura di sé , coltivarsi.

     

    Abitare, frequentare: colunt discreti ac diversi, abitano isolati e sparpagliati

     

    Trattare con riguardo, onorare, venerare gli dei, aver cura di loro, coltivare dentro di sé il sentimento religioso: sacra religiones colere, celebrare i sacrifici, i culti.

     

     

    Come ti metti ti metti… sta cultura… forse sarà perché, quando si parla di cultura, si intende sempre cultura dominante che, come abbiamo già visto, è legata alle abitudini sociali , alla forma mentis della norma sociale fondata sulle consuetudini.  Norme sociali legate alle usanze routinarie, alla “saggezza” «che consiste non già nella soddisfazione ma nell’annullamento del desiderio» scriveva Samuel Beckett in un suo saggio giovanile su Proust. E diceva inoltre: «L’abitudine è un compromesso fra individuo e l’ambiente che lo circonda,(…) L’abitudine è il ceppo che incatena il cane al suo vomito; quando (l’essere umano, “il normale”) si trova di fronte ad un fenomeno che non è in grado di ridurre alla condizione di concetto familiare e utile, (l’abitudine) viene meno alla fiducia che gli si concede, nella sua qualità di paravento che deve risparmiare alla sua vittima lo spettacolo della nuova realtà…».

     

     

    Vale a dire che, per la cultura dominante – che è intollerante alla novità come stimolo eccessivo – tutto ciò che è nuovo è Das Unheimliche, (il perturbante), cioè il metafisico che diviene fenomeno percepibile. Il fenomeno che insorge inaspettato vanifica ogni presunta difesa messa a baluardo della normalità che, per la stragrande maggioranza degli individui, è rassicurante.

     

     

     

    E si ritorna sempre al tema della sicurezza, intesa come protezione dell’Io, e alla cultura della sicurezza che deve preservare il già conosciuto a spese dello sconosciuto perturbante.

     

    Le leggi razziali degli anni che vanno dal 2002 all’aprile 2009 (Legge Bossi-Fini – 30 luglio 2002, n. 189) (Primo decreto Maroni sulla sicurezza del 20 maggio 2008) ( Secondo decreto Maroni sulla sicurezza del 23 aprile 2003) non hanno fatto altro che legittimare, e indurre ulteriormente, una ‘patologia sociale’ che ha la sua eziopatogenesi nella pulsione annullamento verso l’altro da sé vissuto come un nuovo perturbante.

    5 dicembre 2012

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