dalla Redazione
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Quello scivolone su Goldman Sachs era troppo facilmente evitabile
Jacopo Barigazzi – 11 agosto 2012
Raccontava David Nussbaum, un anziano banchiere inglese di origine rumena, come la calata delle grandi banche di investimento americane sulla City agli inizi degli anni ’80 fosse stato un piccolo shock. Il Big Bang, la deregolamentazione dei servizi finanziari voluta dalla Thatcher, ridiede vita a Londra che sembrava destinata ad un sonnacchioso futuro declinante, ma sconvolse anche le pratiche degli stessi intermediari finanziari della City. Molti affari fino a quel momento erano siglati sulla base di gentlemen agreement , erano fatti al telefono senza firmare nulla, un po’ come avviene ancora nel mercato dei diamanti di Anversa. Raccontava David Nussbaum di ricordare ancora un anziano capo di una sala trading piangere, ancora imbottonato nel suo panciotto d’ordinanza, dopo essere stato “fregato” da un giovane rampante banker di Merrill Lynch che non aveva mantenuto i patti: «Erano arrivati i barbari ma vestiti da white shoe [le “scarpe bianche” il termine utilizzato negli anni ’30 per descrivere i banchieri d’investimento appartenenenti all’élite wasp] e con loro cambiò anche il linguaggio, passando dal CitySpeak allo StreetSpeak».
L’Italia in realtà in quel mondo si era saputa muovere bene e non solo per la tradizione dei banchieri fiorentini e dei commercianti brianzoli che diedero il nome a Lombard Street, tutt’ora una delle arterie principali della City: il mercato degli Eurobond corporate nel distretto finanziario londinese fu aperto dalla società che costruì l’Autostrada del Sole che, nel 1963, diede il mandato alla S.G. Warburg, la boutique fondata dall’esule Siegmund Warburg e che fu poi acquisita da Ubs.
La vicenda di Golman Sachs che, selezionata dal Tesoro per la valutazione delle partecipazioni statali in Fintecna, Sace e Simest in vista della cessione alla Cdp, ha ridotto del 92% i bond italiani che aveva in portafoglio, portandoli a quota 191 milioni di dollari (155,2 milioni di euro) dai precedenti 2,51 miliardi di dollari (2,04 miliardi di euro) di fine marzo, lascia davvero di stucco soprattutto perché è capitata al governo Monti, un esecutivo che di mercati, di finanza e dei suoi meccanismi dovrebbe saperne ben più del precedente: trovare una boutique finanziaria internazionale che poteva fare un lavoro di advisory senza essere in un conflitto di interessi perché esposta sul nostro mercato obbligazionario, non sarebbe stato così complicato. Anzi. Invece ci si è andati a esporre a uno scivolone che era assolutamente evitabile. In una vicenda che finisce con l’esporre una mancanza di criteri prudenziali nell’affidare un mandato simile a una banca come Goldman Sachs. Come dicono i marinai, «se vai per quei mari, peschi quei pesci» ma in un momento così delicato per le casse pubbliche e la tenuta del Paese, colpisce la facilità con cui ci si esposti al rischio di avere un advisor che manda agli investitori un tale segnale di sfiducia nei confronti del Paese.
Le “scarpe bianche” di Goldman sono fra l’altro le stesse che hanno preso a prestito circa 800 miliardi di dollari dal cosidetto “sportello Fed”, l’Emergency liquidity programme della banca centrale Usa messo in piedi nel 2008 per stabilizzare i mercati finanziari. Se vogliamo, un altro classico del filone “profitti privati ma debiti rigorosamente pubblici”. Insomma, non è un problema di nostalgia per i Lombard, o per quando aprivamo strade nuove nella City. No, non è questo. È un problema di insipienza politico-finanziaria. Che da un governo come questo non ci si sarebbe aspettati.
26 novembre 2012