dalla Redazione
Abbiamo ricevuto questa lettera che pubblichiamo molto volentieri
Questo significa essere “choosy” in Italia?
Vi racconto l’ultima impresa paradossale di Silvia, 32enne disoccupata perché “choosy”. In Italia siamo famosi per reinventare l’inglese, quindi con questo termine – solo contestualmente a questo paese – si definisce una persona che si permette il lusso di lasciare il vecchio lavoro perché in preda ad un esaurimento, considerati:
- lo sfruttamento “concordato” e non rivendicabile da un contratto a progetto;
- la costante insoddisfazione del datore verso gli ottimi risultati prodotti;
- la versatilità richiesta per ricoprire più di un ruolo in ufficio;
- la costrizione per il dipendente ad ignorare fino all’ultimo il possibile rinnovo di un contratto.
Silvia, laureata con lode in filosofia, esce dopo 3 anni dal settore della promozione teatrale per dedicarsi a quello della promozione del turismo responsabile, sua inclinazione negli ultimi anni. Risponde ad un annuncio di lavoro (tramite un sito internet affidabile) che sembra rispecchiare esattamente le sue aspettative. Si sveglia alle 6 del mattino per raggiungere la sede dove farà il colloquio – dall’altra parte della città rispetto a dove abita – e lo supera brillantemente. Dopo due settimane svolge quella che viene ormai definita una “prova”: 3 mezze giornate di puro lavoro non retribuito. Con il fine di promuovere un festival previsto a Febbraio, a Silvia viene richiesto di:
– cercare il maggior numero possibile di contatti mirati (risultato: ben 586 contatti, sistemati in un file Word salvato nel pc di quest’associazione);
– formulare un’email di richiesta partnership a questi enti (con la scusa della valutazione di una scrittura efficace e formale) per ufficializzare uno scambio commerciale;
– inviare concretamente questa email a tutti i contatti trovati il primo giorno per avviare le trattative;
– fare un “recall” (con lo stesso fine dello scambio commerciale) ad una lista di centri trovati e già una volta contattai dalla precedente candidata.
Alla fine del breve periodo, Silvia presenta un resoconto alla responsabile con i dati alla mano. Quest’ultima si dichiara felice all’idea di saper che lavorerà per la sua associazione, invitandola a cominciare dopo pochi giorni. Le motivazioni della selezione sono: mole di materiale accumulato in pochi giorni con efficacia e rapidità, entusiasmo nel perseguire lo scopo dell’associazione e capacità di svolgere vari compiti in completa autonomia. L’unica incognita rimane esclusivamente il compenso economico, da discutere con il presidente. A Silvia viene proposto di richiamare la settimana successiva per conoscere telefonicamente i termini e le condizioni del contratto, quando il rapporto lavorativo sembra verbalmente sancito con una stretta di mano e un “Arrivederci, a presto”.
Poi ecco che si aprono inaspettatamente le danze delle scuse inventate della segretaria per negare la presenza della responsabile in ufficio.
Dopo 4 tentativi di contatto diretto e con il dubbio ormai che si fosse trattato soltanto di un sogno, Silvia riesce finalmente ad estorcere una breve email contenente scuse e una presunta garanzia che il giorno dopo la responsabile l’avrebbe richiamata. Ovviamente si tratta di un barlume di umanità durato il tempo di poche parole digitate sul pc e servito a tamponare eventuali ulteriori scocciature e insistenze, perché quella telefonata non si è mai avverata.
A 3 settimane da questa confusione (e nel frattempo incerta se accettare altre proposte lavorative), l’unica risposta chiara che rimbomba nella testa di Silvia è un silenzio inspiegabile. L’ipocrisia e la codardia sembrano essersi trasformate oggi in “qualità” necessarie per salvaguardare la cruda realtà di ambienti di lavoro sempre più simili a fabbriche di sfruttamento e illusioni. Questa associazione sta attualmente facendo a meno di un’ulteriore risorsa (inizialmente spacciata come “necessaria” e ancora fintamente ricercata in un annuncio su internet che ho provveduto a far rimuovere!) sfruttando le poche interne che ha già e lavorando grazie al materiale accumulato da Silvia e dagli altri candidati che, come lei, sono stati in buona fede ingannati e probabilmente tutti ugualmente illusi su una collaborazione futura. La nuova frontiera degli abusi sui lavoratori sembra essere proprio questa: reale reclutamento di personale qualificato dietro la falsa speranza di un’assunzione. Una premeditazione tale è diabolica e degna di essere resa pubblica per far sì che altri “aspiranti occupati” se ne possano tutelare. L’aggravante è che l’ente in questione persegue uno scopo nobile e benefico, per cui si dà per scontato di trovare un ambiente spontaneamente incline alla serietà, al rispetto e alla considerazione dei rapporti umani.
Viene il sospetto che esista una scuola clandestina e segreta per la formazione dei datori di lavoro, visto che ultimamente si seguono ovunque schemi di comportamento ben precisi e stranamente comuni.
Se essere “choosy” in Italia significa non potersi permettere, nonostante qualifiche ed esperienze, di coltivare le proprie ambizioni: viene spontaneo voler togliere il disturbo da questo paese, in cui si ha la presunzione di interpretare liberamente anche le lingue (oltre alle leggi).
Ah.. Silvia è testarda e, non scoraggiata, continuerà ad inseguire i suoi obiettivi. E’ attualmente in attesa di una risposta dopo la presentazione di ben 4 progetti europei sul turismo responsabile. Il colmo è aver incentrato il suo futuro lavoro sull’interesse attivo al miglioramento di altri paesi nel mondo, ignorando volutamente di migliorare dall’interno quello in cui è nata e cresciuta, visti gli amari risultati dei suoi vani tentativi.