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Nella colonia penale
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“E’ una macchina veramente curiosa”, disse l’ufficiale all’esploratore, abbracciando con uno sguardo quasi ammirato la macchina che pure conosceva bene. L’esploratore aveva accettato solo per cortesia l’invito del comandante ad assistere all’esecuzione di un soldato, condannato per indisciplina e oltraggio a un superiore. L’interesse per l’esecuzione non era eccessivo neppure nella colonia penale. Nella valletta profonda e sabbiosa, isolata da ogni parte da brulli pendii scoscesi, oltre all’ufficiale e al viaggiatore si vedeva il condannato, un uomo dall’aria ottusa e dalla bocca larga, spettinato, con la barba incolta; accanto a lui, un soldato teneva la pesante catena, sulla quale si saldavano una rete di catenelle che stringevano le caviglie, i polsi e il collo del condannato. Questi sembrava così bestialmente rassegnato, da poter essere lasciato libero di correre lungo i pendii, bastando solo chiamarlo con un fischio perché tornasse, al momento dell’esecuzione.
L’esploratore non si interessava molto alla macchina e, senza curarsi di nascondere la sua indifferenza, camminava su e in giù dietro al condannato, mentre l’ufficiale compiva gli ultimi preparativi, ora infilandosi sotto l’apparecchio, profondamente piantato nel suolo, ora salendo su una scala a pioli per esaminare le parti superiori. Erano lavori che, forse, si sarebbero potuti lasciare a un meccanico: ma l’ufficiale li eseguiva con grande zelo, sia perché era un appassionato di quella macchina, sia perché non era possibile affidare quel compito ad altri.
“Ora è tutto pronto!” esclamò infine, e scese dalla scala. Era spossato, respirava a bocca spalancata e si era ficcati due fazzolettoni da donna tra la nuca e il colletto. “Queste uniformi sono troppo pesanti per i tropici”, disse l’esploratore invece di chiedere informazioni, come l’ufficiale si aspettava, sulla macchina. “Eh già”, disse l’ufficiale lavandosi le mani sporche d’olio e di grasso in un secchio d’acqua già pronto, “ma significano la patria, e noi non vogliamo dimenticarcene. Ma guardi la macchina”, aggiunse con un cenno, mentre si asciugava le mani. “Prima funzionava a mano, ora fa il suo lavoro da sola”.
L’esploratore assentì, e accolse all’invito dell’ufficiale. Per premunirsi contro ogni possibile incidente, questi disse:
“Naturalmente, possono capitare dei guasti: mi auguro che oggi non avvengano, ma non si sa mai. La macchina deve restare in moto per dodici ore consecutive. Se capita qualche guasto, si tratta, ingegnere, di roba da poco, a cui si rimedia presto”.
“Non si vuole sedere?” chiese poi, porgendo all’esploratore una sedia di vimini tirata fuori da una catasta. L’esploratore non poté rifiutarsi, e si trovò a sedere sull’orlo di una fossa, nella quale gettò un’occhiata. Non era molto profonda. Da un lato era stata ammucchiata la terra scavata, dall’altro c’era la macchina.
“Non so se il comandante”, disse l’ufficiale, “le ha spiegato come funziona l’apparecchio”. Il viaggiatore, per risposta, abbozzò un gesto con la mano: l’ufficiale non chiedeva di meglio, così poteva fornire lui le spiegazioni. “Questa macchina”, disse afferrando una manovella e appoggiandovisi sopra, “è un’invenzione del nostro vecchio comandante. Io ho collaborato ai primi esperimenti e poi presi parte a tutti i lavori, fino alla fine. Il merito dell’invenzione, però, spetta solo a lui. Ha sentito parlare del vecchio comandante? No? Ebbene, non credo di esagerare, affermando che l’organizzazione di tutta la colonia penale è opera sua. Noi i suoi amici, cui è nota la complessa organizzazione della colonia, ci rendemmo conto, alla sua morte, che il successore, anche con mille nuovi piani in testa, per parecchi anni non avrebbe potuto cambiare nulla di ciò che era stato fatto. Le nostre previsioni si sono avverate: il nuovo comandante ha dovuto riconoscerlo. Peccato che lei non abbia conosciuto il vecchio comandante! Ma io chiacchiero”, s’interruppe, “quando la sua macchina ci sta davanti. E’ formata, come vede, da tre parti. Per ogni parte, con il passare del tempo, sono stati coniati nomi, per così dire, popolari. La parte inferiore si chiama il letto, quella superiore è il disegnatore, e quella sospesa in mezzo, l’erpice”.
“L’erpice?” chiese l’esploratore. Non aveva ascoltato con troppa attenzione; il sole batteva violento su quella valle senz’ombra, e era difficile raccogliere le idee. Tanto più ammirevole gli sembrava l’ufficiale che, nell’attillata giubba da parata, carica di spalline e di cordoni, dava con tanto zelo le sue spiegazioni, pur badando a stringere questa o quella vite. Il soldato sembrava trovarsi nelle stesse condizioni dell’esploratore. Dopo essersi avvolto ai polsi la catena del condannato, si era appoggiato al suo fucile e, a testa bassa, non sembrava curarsi di nulla.
L’esploratore non se ne stupì, l’ufficiale parlava in francese e il francese non era capito né dal condannato né dal suo guardiano.
Strano, invece, era vedere come il condannato si sforzasse di seguire le spiegazioni dell’ufficiale. Con una specie di assonnata tenacia, continuava a guardare verso il punto indicato dall’ufficiale, e quando questi era interrotto da una domanda dell’esploratore, anche lui rivolgeva il suo sguardo sull’esploratore.
“Sì, l’erpice”, disse l’ufficiale, “il nome è appropriato. Glia aghi sono disposti come quelli di un erpice e l’insieme funziona come un erpice, anche se da fermo e con molto di più a regola d’arte. Se ne renderà subito conto. Il condannato viene disteso qui, sul letto … mi interrompo, per precisare che prima descriverò la macchina, poi procederò alla sua messa in opera, così potrà seguire meglio. Nel disegnatore, poi, una ruota dentata, ormai vecchia, fa un tale rumore, quand’è in moto, da coprire le voci. Purtroppo i pezzi di ricambio, qui, è difficile procurarseli. Dicevo, dunque, che questo è il letto. E’ completamente ricoperto da uno strato di ovatta, e la ragione la vedremo in seguito. Su questa ovatta viene disteso, nudo, il condannato; queste cinghie sono per tenerlo fermo, per le mani, per i piedi, per il collo. A questa estremità del letto, su cui l’uomo giace con la faccia in giù, c’è un piccolo tampone di feltro, facilmente regolabile, in modo che penetri di misura nella bocca del condannato. Serve a impedire che quello urli e si mozzi la lingua con i denti. L’uomo è costretto a prendere il tampone in bocca, altrimenti le cinghie del collo gli spezzano le vertebre cervicali”.
“Questa è ovatta?” chiese l’esploratore, sporgendosi. “Sì”, rispose con un sorriso l’ufficiale, “provi a toccare”. Prese lamano del viaggiatore e la posò sul letto. “E’ un’ovatta preparata in modo speciale; parlerò dopo del suo scopo”. L’esploratore aveva cominciato a interessarsi alla macchina; facendosi ombra con lamano per proteggere gli occhi dal sole, guardò quanto era alta.
Era un grande apparecchio. Il letto e il disegnatore avevano le stesse dimensioni, e sembravano due cofani dipinti di scuro. Il disegnatore era fissato due metri circa sopra il letto, e i due elementi erano collegati fra loro agli angoli da quattro sbarre di ottone, che sotto il sole lampeggiavano. Tra i due cofani, sostenuto da un nastro d’acciaio, oscillava l’erpice.
Se l’ufficiale prima non aveva fatto caso all’indifferenza dell’esploratore, ora si accorse del suo interesse crescente.
Affinché l’esploratore avesse tempo di guardare ogni cosa, interruppe quindi le sue spiegazioni. Il condannato imitava l’esploratore, strizzando gli occhi poiché non poteva farsi ombra con la mano.
“L’uomo, dunque, è disteso lì”, disse l’esploratore ributtandosi indietro e accavallando le gambe.
“Sì”, disse l’ufficiale spostando un po’ il suo berretto verso la nuca e passandosi la mano sul viso accaldato. “Ora ascolti bene.
Letto e disegnatore sono provvisti di batterie elettriche autonome: il letto ne ha bisogno per sé, il disegnatore per l’erpice. Quando l’uomo è ben legato, il letto viene messo in movimento. Esso vibra rapidamente in senso ondulatorio e sussultorio. Avrà visto apparecchi simili nelle cliniche: ma nel nostro letto tutti i movimenti sono esattamente calcolati, perché si devono svolgere in perfetta sincronia con i movimenti dell’erpice.
All’erpice, in ogni modo, è riservata la vera e propria esecuzione della condanna”.
“Ma cosa dice la condanna?” chiese l’esploratore. “Ma come, non sa nemmeno questo?” disse stupito l’ufficiale, mordendosi le labbra.
“Mi scusi, se le mie spiegazioni possono sembrarle disordinate: le chiedo mille volte scusa.
Prima era il comandante a spiegare tutto, ma il suo successore si è sottratto a questo compito onorifico. Che però non abbia informato un visitatore tanto illustre” – l’esploratore fece un gesto con le mani per respingere l’omaggio, ma l’ufficiale insisté -“un visitatore tanto illustre nemmeno sulla formula della nostra sentenza, ecco un’altra novità che… “E qui stava per uscirsene in un’imprecazione, ma si contenne e disse: “Nessuno mi ha detto nulla, quindi nulla mi si può rimproverare. Io sono particolarmente autorizzato a spiegarle modalità delle nostre sentenze, perché ho qui”, e si batté sulla tasca del petto, “i disegni di mano del vecchio comandante”.
“Disegni dello stesso comandante?” chiese il viaggiatore. “Aveva dunque tante qualità? Soldato, giudice, costruttore, chimico e di segnatore?” “Proprio così”, disse l’ufficiale assentendo, lo sguardo fisso e pensoso. Esaminate le sue mani e visto che non erano abbastanza pulite per toccare i disegni, si avvicinò di nuovo al secchio e le lavò ancora. Poi estrasse una piccola busta di pelle e disse: “La nostra condanna non è severa. Al condannato viene scritto sul corpo il comandamento che ha trasgredito. A questo condannato, per esempio”, e l’ufficiale indicò l’uomo, “verrà scritto sul corpo: ‘Onora il tuo superiore’ “L’esploratore diede un’occhiata all’uomo. Quando l’ufficiale accennò a lui, quello, a testa china, sembrò tendere tutte le forze del suo udito per capire qualche cosa: ma i movimenti della sua bocca imbronciata mostrarono chiaramente che non ci riusciva.
L’esploratore, pur volendo chiedere diverse cose, in presenza dell’uomo, si limitò a domandare: “Conosce la sua condanna?” “No”, disse l’ufficiale; e si accingeva a riprendere le sue spiegazioni, quando l’esploratore lo interruppe: “Non conosce la sua condanna?” “No”, disse ancora l’ufficiale. Aspettò un momento, come se aspettasse dal viaggiatore una motivazione più circostanziata della domanda, poi aggiunse: “Inutile comunicargliela, la conoscerà sul suo stesso corpo”. L’esploratore sarebbe rimasto zitto, ma lo sguardo del condannato, fisso su di lui, sembrò chiedere se approvava quello che aveva sentito. L’esploratore, che già si era appoggiato allo schienale della sedia, si piegò di nuovo in avanti, e chiese: “Ma saprà almeno che è stato condannato!” “Neppure questo”, disse l’ufficiale con un sorriso, come se si aspettasse dall’esploratore altre curiose uscite.
“No!” disse il viaggiatore, passandosi la mano sulla fronte. “Dunque l’uomo non sa neppure com’è stata accolta la sua difesa?” “Non ha avuto nessuna possibilità di difendersi”, disse l’ufficiale guardando da una parte, come se parlasse a se stesso e non volesse umiliare l’esploratore raccontando cose tanto ovvie. “Ma dovrà pur aver avuto modo di difendersi”, disse l’esploratore alzandosi dalla sedia.
L’ufficiale si rese conto che rischiava di rimandare a chissà quando la spiegazione del funzionamento della macchina. Si avvicinò perciò all’esploratore, lo prese sotto braccio e, accennando al condannato, irrigidito sull’attenti sia perché l’attenzione era puntata su di lui in modo così palese, sia perché il soldato aveva pensato di dare uno strappo alla catena, disse:
“La cosa sta così. Nella colonia penale, nonostante la mia giovane età, svolgo le funzioni di giudice, perché ho sempre collaborato col vecchio comandante in tutte le questioni disciplinari, e conosco la macchina meglio di ogni altro. Il principio secondo il quale io giudico, è questo: la colpevolezza è sempre indubbia.
Altri tribunali non possono seguire a questo principio, perché sono composti da diverse persone, e sono sottoposti a istanze superiori. Ciò non avviene qui o almeno non avveniva quando c’era il vecchio comandante. Quello nuovo ha provato a intervenire nella mia attività di giudice, ma finora sono riuscito a tenerlo lontano, e spero di riuscirci anche in seguito. Quanto al caso di oggi, è sempre come gli altri. Un capitano, stamattina, ha denunciato che quest’uomo, assegnatogli come attendente e che dorme davanti alla sua porta, ha dormito durante le ore di servizio. Il suo obbligo è, infatti, quello di alzarsi ad ogni battere d’ora e di salutare davanti alla porta del capitano.
Obbligo non pesante e d’altra parte necessario, al fine di rimanere sveglio per la guardia e
per il servizio. Stanotte il capitano ha voluto controllare se l’attendente faceva il suo dovere: alle due in punto ha aperto la porta e lo ha trovato che dormiva, tutto rannicchiato su se stesso. Prese dunque la sua frusta e lo colpì al viso. Invece di alzarsi e di chiedere perdono, l’uomo afferrò il suo padrone per le gambe, lo scosse e gridò: ‘Butta via quella frusta o ti mangio!’ Questi i fatti. Il capitano, un’ora fa, è venuto da me, io ho messo per iscritto le sue dichiarazioni e subito ho steso la sentenza. Poi ho fatto incatenare l’uomo. Tutto molto semplice. Se l’avessi fatto chiamare e l’avessi interrogato, ne sarebbe nata una gran confusione: avrebbe mentito, se mi fosse riuscito di provare le sue bugie ne avrebbe tirate fuori di altre e così via. Invece oralo tengo e non me lo lascio scappare più. Tutto chiaro, adesso? Mail tempo passa, l’esecuzione sarebbe già dovuta essere cominciata, e non ho ancora finito di spiegare il funzionamento della macchina”. Costrinse l’esploratore a sedere, si avvicinò alla macchina e riprese: “Come vede, l’erpice ha una sagoma umana: questa è la parte per il tronco, questa per le gambe. Per la testa c’è soltanto questo piccolo punteruolo. Tutto chiaro?” E si chinò cortesemente verso l’esploratore, pronto a fornire le descrizioni più circostanziate.
L’esploratore guardò l’erpice, con la fronte aggrottata. I ragguagli sulla procedura non lo avevano soddisfatto. Doveva, tuttavia, riconoscere che si trattava di una colonia penale, che erano necessarie speciali misure, che bisognava procedere in tutto con rigidezza militare. Sperava, inoltre, nel nuovo comandante, che aveva intenzione di introdurre, anche se lentamente, un nuovo procedimento che non riusciva a entrare nella testa dell’ufficiale.
Seguendo questi pensieri, l’esploratore chiese: “Il comandante assisterà all’esecuzione?” “Non è certo”, disse l’ufficiale, contrariato dalla domanda brusca, mentre gli spariva dal viso l’espressione cortese: “per questo dobbiamo fare in fretta. Purtroppo, sono costretto ad abbreviare le mie spiegazioni. Ma domani quando l’apparecchio sarà ripulito -già, è un suo difetto quello di sporcarsi tanto -potrò darle altri particolari. Ora, mi limiterò solo l’indispensabile. Dunque, quando l’uomo è disteso sul letto e questo è in movimento, sia abbassa l’erpice. Esso scende da solo fino a sfiorare il corpo con le punte: raggiunta la posizione voluta, il cavo d’acciaio assume la rigidezza di una sbarra. A questo punto, comincia il gioco. Un profano non nota differenza tra una e l’altra. L’erpice sembra lavorare sempre allo stesso modo: immerge, vibrando, le sue punte nel corpo, che vibra, a sua volta, sul letto. Per consentire a tutti di accertarsi dell’esecuzione della condanna, l’erpice è stato fatto di vetro. La messa in opera degli aghi ha comportato alcune difficoltà tecniche, ma dopo qualche prova ci siamo riusciti. Non ci siamo arresi di fronte a nessuna difficoltà.
Attraverso il vetro, oggi, tutti possono vedere come l’ iscrizione viene eseguita sul corpo.
Non vuole avvicinarsi per vedere glia aghi?” L’esploratore si alzò lentamente, avanzò e si piegò sull’erpice.
“Vede”, disse l’ufficiale, “ci sono due tipi di aghi, disposti in modo diverso: quello lungo è accoppiato a quello corto. L’ago lungo scrive, quello corto sprizza acqua per eliminare il sangue e mantenere chiara l’iscrizione. L’acqua sporca confluisce in canaletti, per finire in questo condotto e quindi nella fossa”.
Con il dito teso, l’ufficiale fece un’esatta descrizione del percorso che l’acqua doveva seguire. Quando, per dare al movimento la massima evidenza, afferrò a due mani l’estremità del tubo discarico, l’esploratore alzò la testa e iniziò a indietreggiare verso la sedia, annaspando, con una mano, dietro la schiena. Con orrore si accorse che il condannato aveva seguito a sua volta, l’invito dell’ufficiale a esaminare da vicino il funzionamento dell’erpice. Aveva tirato per la catena il soldato intontito, e si era piegato anche lui sul vetro. Con aria perplessa, fissava quello che i due signori avevano esaminato, ma inutilmente, perché non aveva avuto spiegazioni. Si chinava da una parte e dall’altra, senza staccare gli occhi dal cristallo. L’esploratore fu tentato di tirarlo indietro, perché si comportava certo in modo non consentito. Ma l’ufficiale lo trattenne con una mano, con l’altra afferrò una zolla di terra dal tumulo vicino e la scagliò contro il soldato.
Questi spalancò gli occhi, vide quello che il condannato si era permesso di fare, lasciò cadere il fucile, piantò i tacchi nella sabbia e diede un tale strappo alla catena, che il condannato crollò a terra; rimanendo poi a guardarlo, mentre si agitava tra un tintinnio d’acciaio. “Rialzalo!” gridò l’ufficiale, che si era accorto che il condannato attirava troppo l’attenzione dell’esploratore. Questi stava chinato sopra l’erpice, solo per vedere ciò che accadeva al condannato.
“Trattalo con riguardo!” gridò ancora l’ufficiale. Quindi girò di corsa intorno alla macchina, afferrò il condannato sotto le ascelle e, con l’aiuto del soldato, dopo non pochi tentativi, riuscì a rimetterlo in piedi.
“Ora so tutto”, disse l’esploratore quando l’ufficiale fu tornato da lui. “Tutto, meno l’essenziale”, disse quello, prendendo il viaggiatore per un braccio e indicando qualcosa in alto. “Nel disegnatore c’è il meccanismo che mette in movimento l’erpice, e questo meccanismo viene regolato secondo il disegno stabilito dalla sentenza. Io uso ancora i disegni del vecchio comandante.
Eccoli”, disse, tirando fuori alcuni fogli dalla busta di pelle. “Non oso farglieli nemmeno toccare, sono la cosa più preziosa che possiedo. Si sieda, glieli mostro da qui, potrà vederli ugualmente”. Di fronte al primo foglio, il viaggiatore avrebbe voluto dire qualche parola di complimento: ma vide solo un ammasso di linee che si incrociavano in ogni senso, così fitte che il fondo bianco quasi non si distingueva più.
“Legga”, disse l’ufficiale. “Non ci riesco”, disse l’esploratore. “E’ molto benfatto”, disse l’esploratore, evasivo, “ma non sono in grado di decifrare nulla”. “Eh sì”, fece l’ufficiale, riponendo di nuovo la busta, “non si tratta di un modello di calligrafia per scolaretti.
Bisogna studiarlo parecchio. Anche lei, alla fine, ci riuscirebbe.
Naturalmente, non possono essere lettere semplici, perché non devono uccidere subito, ma nello spazio di dodici ore circa: il punto culminante, viene calcolato per la sesta ora. Ogni lettera deve essere circondata da una quantità di arabeschi: le lettere disegnano come una fascia sottile intorno al corpo, il resto è destinato agli arabeschi. E’ in grado, ora, di apprezzare il lavoro dell’erpice e di tutta la macchina? Stia attento!” Saltò sulla scala, girò un volante, gridò: “Attenzione, si sposti!” –e tutto si mise in movimento. Non ci fosse stato lo stridio della ruota, sarebbe stato splendido. Come sorpreso da quella ruota molesta, l’ufficiale la minacciò con un pugno, allargò le braccia verso l’esploratore in atto di scusa, e scese in fretta, per sorvegliare i movimenti dal basso. Qualcosa, visibile solo a lui, non andava. Si arrampicò di nuovo in alto, ficcò tutte e due le mani all’interno del disegnatore, e per fare più in fretta ascendere, invece di servirsi della scala, si lasciò scivolare lungo una delle sbarre e infine urlò, con tutte le sue forze, nell’orecchio dell’esploratore, per farsi sentire: “Capisce il funzionamento? L’erpice comincia a scrivere; compiuto il primo tratto d’iscrizione sul dorso, lo strato di ovatta scorre e gira adagio il corpo sul fianco, per offrire nuovo spazio all’erpice.
Intanto le parti trafitte posano sull’ovatta, la quale, grazie auna preparazione speciale, blocca subito l’emorragia, rendendo possibile una nuova e più profonda incisione. Questi denti, lungo l’orlo dell’erpice, strappano l’ovatta dalle ferite quando il corpo viene girato una seconda volta, e la gettano nella fossa, in modo da consentire all’erpice nuovo lavoro. Le lettere vengono incise sempre più profondamente nel corso di dodici ore. Durante le prime sei il condannato vive, più o meno, come prima, pur soffrendo, si capisce. Dopo due ore, il tampone viene rimosso, perché l’uomo non ha più la forza di gridare. Dentro questa ciotola riscaldata elettricamente si versa una pappa di riso calda, che l’uomo può arrivare a sfiorare con la lingua. Nessuno rinuncia a questa possibilità: nessuno, almeno, che io sappia, e la mia esperienza è ampia. Dopo circa sei ore, il condannato non è più attratto dal cibo. Di solito, mi inginocchio lì davanti e studio il fenomeno. Quasi mai l’uomo ingoia l’ultimo boccone, per lo più lo rigira in bocca, e poi lo sputa nella fossa. Devo piegarmi, altrimenti mi arriva in faccia. Come diventa silenzioso, l’uomo, dopo sei ore! Anche ai più ottusi si schiude l’intelligenza. Comincia dagli occhi, e da lì si irradia. E’ una vista che mi fa venire voglia di mettermi sotto l’erpice. Dopo non succede più niente, l’uomo comincia a decifrare l’iscrizione, stringe le labbra e le sporge, come se fosse in ascolto. Non è facile, lei l’ha visto, decifrare l’iscrizione con gli occhi; mail nostro uomo la decifra con le sue ferite. Non è un lavoro da poco: per finirlo, gli ci vogliono sei ore. Alla fine, l’erpice lo trafigge da parte a parte e lo scaraventa nella fossa, dove piomba nell’acqua insanguinata e nell’ovatta. Allora la giustizia ha esaurito il suo compito e noi, io e il soldato, lo seppelliamo”.
L’esploratore tendeva un orecchio verso l’ufficiale e, con le mani in tasca, seguiva il lavoro della macchina. Anche il condannato guardava, ma senza capire. Piegato in avanti, era intento a seguire le vibrazioni degli aghi, quando il soldato, a un cenno dell’ufficiale, con un colpo di coltello gli spaccò camicia e calzoni sul dorso, facendoli cadere a terra: quello provò a raccogliere le vesti cadute e riparare così la sua nudità, ma il soldato lo sollevò dal suolo e gli sfilò di sotto i piedi gli ultimi brandelli. L’ufficiale arrestò la macchina e nel
Silenzio sopraggiunto l’uomo fu adagiato sotto l’erpice. Al posto delle catene, vennero fissate le cinghie; il condannato sembrò quasi sollevato. L’erpice si abbassò ancora, perché l’uomo era magro; quando le punte lo sfiorarono, si vide la sua pelle rabbrividire.
Mentre il soldato gli legava la mano destra, allungò la sinistra, senza rendersene conto, in direzione dell’esploratore. L’ufficiale non abbandonava più l’ospite con lo sguardo, come se cercasse di leggergli in viso l’impressione prodotta dall’esecuzione sommariamente descritta.
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La cinghia destinata al polso si strappò: il soldato doveva averla tirata troppo. Il soldato alzò il pezzo strappato, per far capire che era necessario l’intervento del suo superiore. Ma l’ufficiale si era già mosso e, con il viso rivolto all’esploratore disse: “La macchina è molto complicata, ogni tanto qualche parte si strappa osi spezza; ma questo non può influire sul giudizio complessivo. La cinghia è presto sostituita, userò una catena, pur sapendo che questo pregiudica la leggerezza delle vibrazioni al braccio destro”. Mentre sistemava la catena, disse ancora: “I mezzi per la manutenzione dell’apparecchio sono ora molto limitati.
Al tempo del vecchio comandante, disponevo liberamente di fondi destinati a quest’unico scopo. C’era un magazzino in cui si conservavamo tutti i possibili pezzi di ricambio.
Confesso che quasi ne facevo spreco, intendo dire prima, non adesso, come pretende il nuovo comandante, che si serve di ogni pretesto per combattere le vecchie istituzioni. Ora amministra lui il fondo destinato alla macchina, e quando mando a chiedere una nuova cinghia, si pretende quella strappata come prova, la nuova arriva solo dopo dieci giorni, è di cattiva qualità e non serve molto. Come posso fare a mandare avanti, nel frattempo, la macchina senza cinghie, è cosa che non interessa a nessuno”.
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L’esploratore pensava: è sempre pericoloso mischiarsi nelle faccende degli altri. Lui non era un cittadino né della colonia penale né dello stato al quale questa apparteneva. Se avesse voluto condannare o addirittura impedire l’esecuzione, avrebbero potuto dirgli: sei uno straniero, stai zitto. Lui non avrebbe avuto niente da replicare, al massimo avrebbe potuto dire che non capiva come gli era successo, perché viaggiava per vedere il mondo e non per trasformare le procedure giudiziarie nei vari paesi. In quel caso, però, la tentazione era grande: l’illegalità del procedimento e l’inumanità dell’esecuzione erano indiscutibili.
Nessuno poteva supporre un interesse nell’intervento del viaggiatore: non conosceva il condannato, che non era uomo da attirare la pietà in modo particolare, non era neppure un suo connazionale. Il viaggiatore aveva poi illustri raccomandazioni, era stato accolto con grande cortesia e forse era stato invitato a quell’esecuzione perché ci si aspettava un suo giudizio: il comandante, a quanto aveva sentito, non era un entusiasta di quel procedimento, e nei confronti dell’ufficiale si comportava in modo quasi ostile.
A questo punto, il viaggiatore sentì un urlo di rabbia.
L’ufficiale aveva appena introdotto, non senza fatica, il tampone di feltro nella bocca del condannato, quando questi chiuse gli occhi e, preso da una nausea irresistibile, vomitò.
L’ufficiale si affrettò ad alzargli la testa dal tampone e girarla verso la fossa: troppo tardi, il vomito già colava lungo la macchina.
“Tutta colpa del comandante!” gridò l’ufficiale, scuotendo frenetico le sbarre d’ottone. “Mi riducono l’apparecchio come una stalla!” E con le mani tremanti mostrò al viaggiatore quello che era successo. “Ho impiegato ore per far capire al comandante che il condannato, alla vigilia dell’esecuzione, non deve ingerire nessun cibo. Ma la nuova corrente dei mollaccioni è di un altro parere. Le signore del comandante rimpinzano il condannato di dolciumi prima che sia portato via. Uno che per tutta la vita si è nutrito di pesce marcio, deve mangiare i dolciumi! Ma lasciamo perdere, non è questo che conta: perché non mi danno, piuttosto, un feltro nuovo, quando lo sto chiedendo da tre mesi? Come si può prendere in bocca, senza ripugnanza questo feltro, succhiato e morso da più di cento uomini nell’agonia?” Il condannato aveva lasciato ricadere la testa e sembrava tranquillo, il soldato cercava di ripulire la macchina con la camicia buttata via. L’ufficiale avanzò verso l’esploratore; questi indietreggiò di un passo, come se temesse qualche cosa, ma l’ufficiale gli prese la mano e lo tirò in disparte. “Vorrei dirle una parola in confidenza”, disse.
“Posso?” “Certo”, disse l’esploratore, e si fermò ad ascoltarlo, con gli occhi bassi.
“Il processo e l’esecuzione che lei ha l’occasione di ammirare, non trovano più, nella nostra colonia, un solo aperto sostenitore.
Io sono il loro unico difensore, e insieme l’unico legatario dell’eredità del vecchio comandante. Non posso nemmeno pensare a un ulteriore perfezionamento del processo, mentre mi occorrono tutte le mie forze per mantenere le cose come stanno. Quando viveva il vecchio comandante, la colonia era piena dei suoi partigiani. Io ho una parte della sua facoltà di persuasione, ma non la sua forza: di conseguenza i partigiani sono scomparsi, cioè, ce ne sono parecchi, ma nessuno osa confessarlo. Se lei oggi, giorno di esecuzione, entrasse nel caffè e tendesse l’orecchio, sentirebbe soltanto, forse, parole ambigue. Sono tutti partigiani del sistema; ma con questo comandante e le sue idee, non mi servono a niente. Ora, io le chiedo: è’ possibile che per colpa di questo comandante, e delle donne che lo influenzano,l’opera di una vita” -indicò l’apparecchio -“debba finire in niente? Si può permettere questo, anche se si rimane solo pochi giorni sulla nostra isola?
Non c’è tempo da perdere, stanno tramando contro la mia giurisdizione. Nella sede del comando, si svolgono riunioni alle quali io non sono invitato; persino la sua visita mi sembra che abbia un significato particolare: non avendo il coraggio di fare altro, si manda avanti lei, uno straniero.
Com’erano diverse le esecuzioni di una volta! Già alla vigilia, la valle era piena di gente che veniva a vedere. La mattina di buon’ora arrivava il comandante con le sue signore, le fanfare svegliavano l’intero accampamento, io annunciavo che tutto era pronto, la società nessun funzionario importante poteva mancare-si disponeva intorno alla macchina: quel mucchio di poltroncine è un misero residuo di quei tempi. La macchina, appena finita di pulire, brillava; a ogni esecuzione, quasi, cambiavo dei pezzi.
Sotto centinaia di sguardi – gli spettatori si alzavano sulla punta dei piedi, tutto intorno – il condannato veniva disteso sotto l’erpice dal comandante in persona. Quello che oggi fa un semplice soldato, era allora compito mio, in qualità di presidente di tribunale, e me ne consideravo onorato. A questo punto cominciava l’esecuzione! Non una stonatura disturbava il lavoro della macchina. C’era chi non guardava nemmeno più, preferendo sdraiarsi, a occhi chiusi, sulla sabbia. Tutti sapevano: ora si compie la giustizia.
Nel silenzio si sentivano soltanto i sospiri del condannato, smorzati dal tampone. Oggi l’apparecchio strappa al condannato sospiri che il tampone riesce sempre a soffocare; allora, gli aghi del disegnatore stillavano un liquido corrosivo, di cui poi venne proibito l’impiego.
Lasciamo perdere. Ma cos’era la sesta ora! Impossibile accontentare tutti quelli che volevano vedere più da vicino. Il comandante, nella sua saggezza, aveva disposto che la precedenza venisse data ai bambini; io, in ragione del mio compito, dovevo rimanere sempre lì vicino; spesso mi rannicchiavo con due bambini sulle braccia, uno per parte.
Chcosa provavamo negli istanti in cui, su quel viso martirizzato appariva un’espressione estatica! Come protendevamo le nostre guance al rifulgere di quella giustizia finalmente raggiunta e già svanente! Che tempi, amico!”.
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L’ufficiale sembrava dimenticare chi era la persona che gli stava davanti: aveva abbracciato l’esploratore e aveva posato la testa sulla sua spalla. L’esploratore, imbarazzato al massimo, guardava impaziente davanti a sé. Il soldato aveva finito di pulire e da un barattolo aveva versato la pappa di riso nella ciotola. Non appena il condannato, che sembrava completamente rimesso, se ne accorse, cominciò a tendere la lingua verso la pappa. Il soldato cercava di allontanarlo, la pappa era riservata a più tardi: ma a sua volta cacciava nella ciotola le sue mani sporche e mangiava davanti al condannato bramoso.
L’ufficiale si riprese subito. “Non volevo cercare di convincerla”, disse, “so che è impossibile oggi, far capire quei tempi. Ma l’apparecchio continua a funzionare e parla da solo.
Parla di per sé, anche se è isolato in questa valle. E il cadavere piomba sempre, alla fine, dopo un volo indicibilmente lieve, nella fossa, anche se intorno a questa non sciamano più, come un tempo, centinaia di mosche. Fummo costretti a recintare la fossa con un solido parapetto, ormai divelto da un pezzo”.
L’esploratore, che voleva sottrarre il suo viso allo sguardo dell’ufficiale, si guardava in giro distratto. L’ufficiale credette che considerasse lo squallore della valle; gli prese le mani, e, girandogli intorno per incontrare i suoi occhi, disse:
“Vede che vergogna?” L’esploratore non rispose. L’ufficiale si allontanò da lui; a gambe aperte, le mani sui fianchi, fissava il suolo, senza dire una parola. Poi rivolse all’esploratore un sorriso che voleva essere di incoraggiamento e disse: “Ieri le ero vicino, quando il comandante la invitò. Sentii le parole d’invito. Conosco il comandante, capii subito a cosa mirava. Benché abbia autorità sufficiente per agire contro di me, ancora non ha avuto il coraggio di farlo. Vuole invece sottopormi al suo giudizio, al giudizio di un illustre straniero. Il calcolo è sottile: lei si trova nell’isola da due giorni, non conosceva il vecchio comandante né il suo modo di pensare; ragiona secondo i princìpi europei, magari è un deciso avversario della pena di morte ingenerale e di simili esecuzioni meccaniche in particolare; vedrà che l’esecuzione avviene senza presenza di pubblico, in modo triste, su una macchina malandata… Considerato tutto questo, pensa il comandante, è molto probabile che lei non approvi il mio procedimento. E se non l’approva, continua a pensare il comandante, non passerà la cosa sotto silenzio, perché lei è un uomo che ha il coraggio delle sue opinioni. Ha visto e imparato a rispettare i costumi di molti popoli, non si esprimerà contro questo procedimento con la violenza di cui darebbe prova nel suo Paese: ma il comandante non chiede tanto. Basta lasciarsi andare una parola di sfuggita. Non è necessario che risponda alle sue convinzioni, basta che sembri favorire la sua tesi. Sono sicuro che l’interrogherà ricorrendo ad ogni astuzia. Le sue signore, sedute intorno, tenderanno l’orecchio. Lei dirà, mettiamo: ‘Da noi la procedura è diversa’ oppure ‘Da noi si usa interrogare l’accusato, prima di condannarlo’ oppure ‘Da noi ci sono altre pene oltre a quella di morte’ oppure ‘Da noi le torture sono esistite solo nel medioevo’. Considerazioni, ai suoi occhi, tanto rispondenti a verità quanto naturali, considerazioni inoffensive, che non toccano il mio sistema. Ma come le interpreterà il comandante?
Continua …