• Enciclopedia del crimine – Storia della Mafia

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    dalla Redazione

    Storia della Mafia

    Piaga criminale e sociale in Italia e negli Stati Uniti. Misteriosa, invincibile e invisibile almeno fino a che esisteranno legami e collusioni tra essa e il potere costituito

    Informare dell’esistenza della mafia è superfluo: tutti sanno che c’è ma, nello stesso tempo, nessuno saprebbe dire con esattezza di che cosa si tratti. Sembra impossibile circoscriverla, coglierla e analizzarla in maniera soddisfacente, o definitiva: la mafia rimane un mistero.

    Il nome stesso è indefinibile L’origine della stessa parola mafia suscita subito un problema. La prima traccia scritta la troviamo nel 1862, nel titolo di un’opera di Giuseppe Rizzotto che riscosse un notevole successo: I mafiosi di Vicaría. (La Vicaría era allora la Prigione di Palermo)

    Alcuni anni dopo, nel 1868, la parola figurò nel piccolo dizionario del dialetto siciliano del Traina, che la definì così: arditezza, spacconata, boria. Ma nessun cenno veniva fatto sulla sua origine. Più di cento anni dopo, la sua origine rimane misteriosa. Gli specialisti sono perplessi e si accontentano di avanzare diverse ipotesi, tra le quali nessuna è più convincente dell’altra. Una soprattutto è la più sfruttata: che la parola derivasse etimologicamente dall’arabo.

    I Mori, che hanno occupato la Sicilia dall’827 al 1060, hanno lasciato impronte profonde nella parte occidentale dell’isola, là dove la parola mafia è stata usata per la prima volta. Nella sua ,Storia della mafia, difendendo questa ipotesi, Gaetano Falzone, scrive che probabilmente la scelta è tra la parola  màhfal che significa  assemblea, riunione di parecchie persone, e mahyàs che significa riparare, aiutare qualcuno in qualche cosa, da dove deriva il termine  mu’afàh , privilegio, immunità, liberazione, protezione, salvaguardia. Falzone cita anche la testimonianza di un altro storico palermitano, Giuseppe Pitré, che nel suo libro Gli usi e costumi, le credenze e i pregiudizi del popolo siciliano racconta di aver scoperto la parola mafia in un quartiere di Palermo, detto il Borgo, dove era usata con il significato di bellezza, grandezza, perfezione, ardore e coraggio.

    Altri storici avanzano l’ipotesi che la parola sia nata più tardi, alla fine del XIII secolo, durante i Vespri Siciliani che portarono, il lunedì di Pasqua 1282, i palermitani a rivoltarsi contro i francesi che occupavano l’isola, al grido di “Morte ai Francesi Italia Anela”. Un’altra ipotesi suppergiù dello stesso genere afferma che si tratta delle iniziali del grido a raccolta in uso da una setta di rivoluzionari del XIX secolo, che diceva: “Mazzini Autorizza Furti Incendi Awelenamenti”. Da parte sua, Avolio (1875) è incerto tra l’etimologia latina della parola vafer, che significa furbo, e l’etimologia francese dell’antico vocabolo  meffler, derivato dal termine maufe (il Dio del male) che Loiseleur  cita a proposito dei Templari.

    Quanto a Mortillaro di Villarena (1876), egli vi vede solo una traduzione piemontese, una specie di equivalente della parola camorra.

    Qualunque sia la spiegazione che si preferisce, appare evidente che la parola mafia non ebbe, all’inizio, e per parecchio tempo, il senso spregiativo che noi le diamo oggi. Bisogna giungere alla fine del secolo scorso perché essa cominci a indicare, soprattutto nei rapporti di polizia, “un’associazione a delinquere”. Per questa ragione, si può dire che la mafia vera e propria, quella di cui si parla generalmente, è entrata a far parte della storia con l’arrivo di Garibaldi in Sicilia. Ma, prima di giungere a questo, è necessario dare un nome alle fate, buone o cattive, che sono state presenti alla sua nascita e che ne hanno seguìto i primi passi.

    Origini della mafia

    Oggi tutti sono d’accordo sul fatto che la mafia sia nata in Sicilia. Ma il mistero sulle sue origini rimane. Alcuni, come abbiamo già detto, avanzano l’ipotesi che la mafia sia sorta nel X o nell’XI secolo, durante l’occupazione saracena. Dominati dai loro nuovi padroni, che portavano con loro una religione, una lingua c una civiltà completamente diverse, i siciliani non avrebbero avuto altro mezzo di sopravvivenza che creare una specie di società parallela, di contro-società. Insomma, la prima forma di mafia sarebbe stata un movimento di resistenza organizzata.

    Questa ipotesi sarebbe anche accettabile, se i Mori fossero stati i primi invasori dell’isola. Ma, quando essi vi giunsero, la Sicilia era già occupata da almeno mille anni. Questa disgrazia di veder sfilare a casa propria tutti i popoli d’Europa, si spiega in parte con la posizione geografica della Sicilia. Situata alla congiunzione dei due grandi bacini del Mediterraneo, essa separa e nel contempo unisce Europa, Africa e Asia. Ecco perché le grandi potenze hanno voluto, a turno, assicurarsene il controllo.

    Si dice che i siciliani a volte se la intesero bene con alcuni dei loro invasori, ma un fatto importante rimane: essi non furono mai completamente assimilati. In questa immutabilità della Sicilia è da vedere, con ogni probabilità, l’origine dello spirito mafioso. Esso avrebbe preceduto di secoli la creazione della mafia vera e propria, e spiegherebbe sia l’originalità, sia l’ambiguità, sia l’immortalità della mafia.

    Da questo punto di vista, le radici storiche della mafia sono innumerevoli, e non è possibile citarle tutte. Bisogna tuttavia menzionarne due, particolarmente interessanti: gli eroi popolari e le confraternite. La storia ci ha tramandato il nome del capopopolo che diresse i famosi Vespri Siciliani nel 1282, Giovanni da Procida. Nella lunga lista di eroi popolari della Sicilia, che va fino a Salvatore Giuliano, Io si può tranquillamente mettere in testa. Le prime tracce sicure delle confraternite, o fratellanze, sono più recenti. Gli storici citano la confraternita dei Beati Paoli, fondata a Palermo nel 1670. Essa annoverava una dozzina di nobili che si definivano nobili illuminati e il cui obiettivo era di difendere soprattutto gli interessi della loro casta.

    La confraternita dei Beati Paoli osservava i diritti propri di ogni setta segreta e si riuniva di solito in una grotta vicino alla chiesa di San Rocco. Altre fratellanze si formarono fuori Palermo, a Bagheria, a Monreale, a Caltanissetta, ed è probabile che ne esistessero molte altre. Se tutte non avevano sempre i medesimi obiettivi, tuttavia funzionavano allo stesso modo. Per evidenti ragioni di sicurezza, una fratellanza non accettava più di dieci membri.

    Essa veniva guidata dal capo di decina. A volte, la banda era divisa in due gruppi, ciascuno chiamato mano.

    Lo spirito che animava questi eroi popolari, che gli invasori consideravano banditi, ma che il popolo siciliano teneva in conto di uomini d’onore, e lo spirito che era all’origine delle fratellanze, senza dubbio avevano dei punti comuni. Prima di tutto, si trattava di lottare contro la legge e l’autorità dell’invasore, chiunque esso fosse. Per raggiungere un tale scopo, tuttii sistemi erano buoni. Bastava che fossero efficaci. Il celebre motto: “il fine giustifica i mezzi” era l’unica regola.

    Gli eroi popolari, come le fratellanze, avevano già uno spirito mafioso. Ai mafiosi non piace il termine mafia. Essi si rifiutano perfino di usarlo. A questa parola, che essi giudicano spregiativa, preferiscono il termine Onorata Società.

    L’Onorata Società

    Gli storici dell’Onorata Società hanno cercato di definirne la struttura interna e il suo sistema di funzionamento. Sfortunatamente, non hanno ancora avuto la possibilità di ricevere le rivelazioni di un Valachi siciliano, e le conclusioni dei loro studi sono spesso divergenti. Tra l’altro non si sono ancora messi d’accordo su come definire la famiglia in rapporto alla cosca. In genere, il termine famiglia ha un senso molto lato. La famiglia comprende non solo i parenti di un medesimo ceppo familiare, ma anche gli amici. La parola cosca ha un significato molto simile. In linguaggio comune, vuol dire sedano, carciofo o lattuga. In linguaggio mafioso, significa un gruppo i cui diversi componenti sono legati fra loro, come le foglie del sedano sono legate allo stesso gambo.

    Ciò di cui non si è certi è se una famiglia è formata da diverse cosche oppure se, al contrario, una cosca è l’unione di un certo numero di famiglie. Oppure ancora, se questi due termini sono sinonimi. La sola cosa di cui si è sicuri, è che numerose cosche, o numerose famiglie, formano una consorteria.

    Ciò che conosciamo meglio è come si compone una famiglia, o una cosca. In cima alla piramide c’è il capo, che viene chiamato, a seconda del grado di familiarità che si ha con lui, don oppure zio.

    Alla base vi sono i picciotti, veri e propri scagnozzi del capo, al quale devono obbedienza assoluta, e sui quali il don ha diritto di vita e di morte. Tra il capo e i picciotti c’è il luogotenente o i luogotenenti: i cosiddetti capi-regime. Questo ruolo, molto importante nella mafia americana, è tuttavia quasi inesistente in Sicilia. Sembra piuttosto che, in testa alla gerarchia della mafia. siciliana ci sia il capo dei capi, un arbitro supremo e, al di sotto di lui, un grandissimo numero di capi, più o meno importanti, che accettano la sua alleanza, a condizione che egli non si intrometta troppo nel loro dominio.

    Don Vito Cascio Ferro

    Si è cercato spesso di tratteggiare il ritratto del mafioso ideale. Per fare ciò, ci si è serviti di tre grandi figure della mafia siciliana, i tre don: Vito Cascio Ferro, Calogero Vizzini e Genco Russo che, a turno, nello spazio di mezzo secolo, sono stati i veri sovrani dell’isola. Ognuno aveva un proprio carattere e ha contraddistinto il periodo del proprio regno in modo originale, ma è possibile per tutti e tre trovare un gran numero di punti in comune e, per mezzo di questi, giungere a stabilire una specie di identikit del mafioso.

    La prima impressione è che il mafioso sia quasi sempre originario di un ambiente molto povero, in genere contadino, spesso ignorante. Il certificato penale del malioso è caratteristico. A prima vista, esso sembra molto sporco, ma se lo si studia con attenzione, ci si rende conto che la giustizia non ha gran che da rimproverargli. Se egliè stato arrestato numerose volte per furto, malversazione, magari anche per omicidio, quasi sempre è stato assolto per insufficienza di prove.

    Giuseppe Genco Russo

    Ciò che inoltre caratterizza il mafioso è che egli non si nasconde, non si dà alla macchia, come un volgare delinquente. Egli tiene molto ad avere una copertura onorevole che gli assicuri il rispetto dei concittadini e la possibilità di ricevere alla sua mensa gente importante.

    In genere, il mafioso ormai arrivato non è molto giovane. La sua età deve essere garanzia di esperienza. Il fatto che sia sopravvissuto dà prova della sua abilità. Più questa sua abilità è diventata leggendaria, più è notevole. Tuttavia, i suoi principi sono molto semplici. Egli è impietoso con i deboli e sa manovrare con destrezza i potenti. Senza dubbio, per essere più libero nei movimenti, il mafioso evita la politica. Ciò non vuol dire che egli se ne disinteressi. Anzi. Ma solamente il tornaconto personale guida le sue scelte. Egli può far votare per un partito alle elezioni legislative, e per un altro a quelle comunali.

    In genere, il mafioso parla poco, di rado s’impegna, mai promette. Evita il più possibile di urtarsi con la polizia o con l’amministrazione pubblica. Preferisce, quando è possibile  ‘comperare’ i funzionari. Ha un debole per le armi individuali ed è disposto a pagare carissimo il permesso di portarne una. Non è per nulla religioso, ma ci tiene ad avere buone relazioni con la chiesa, e il curato della parrocchia è spesso suo amico. Il suo fine principale è di raggiungere il potere. Il solo mezzo per raggiungerlo, secondo lui, è il denaro. Per procurarselo, non va tanto per il sottile.

    Tutti i mezzi sono buoni, basta che si rivelino fruttuosi: furto, ricatto, racket, assassinio, sottomissione degli altri, mantenimento o provocazione della miseria. Questo compito gli è facilitato enormemente perché egli disprezza la debolezza e se ne infischia dello Stato e delle sue leggi.

    Don Calogero Vizzini

    Il mafioso ha una sua morale ben precisa, che si concreta in un certo numero di massime siciliane:

    “Cu avi dinari e amicizia teni nculu la giustizia” (Chi ha quattrini e amicizia se ne infischia della giustizia),

    “La furca è pri lu poviru, la giustizia pri lu fissa”'(Il patibolo è per i poveri, la giustizia per i fessi);

    “A cu ti leva lu pani, levacci la vita” (A chi ti porta via il pane, tu porta via la vita);

    “Vali cchiù n’amicu nchiazza ca cent’unzi ntasca”  (Vale di più un amico influente, che cento onze in tasca).

    La mafia deve gran parte della sua forza e della sua coesione all’obbedienza incondizionata che ognuno dei suoi membri ha nei confronti dei capi. Essa deve la sua forza anche al rispetto dei suoi accoliti, per le regole che ha saputo dar loro. Queste regole costituiscono un vero e proprio codice d’onore al quale ogni neofita giura obbedienza al momento dell’iniziazione.

    La legge del silenzio

    Dopo le rivelazioni di Valachi, nel 1963, la cerimonia dell’iniziazione che Cosa Nostra impone a ognuno dei suoi accoliti mafiosi ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro.

    Non si sa se essa venga praticata anche in Sicilia. Poiché la mafia, nell’isola, è un po’ come una grande famiglia, possiamo dubitarne. Una semplice promessa d’alleanza al capo locale vale ogni sorta di giuramenti.

    In compenso, negli Stati Uniti, le condizioni sono molto diverse. Il reclutamento dei futuri soldati è più delicato ed esige una maggiore prudenza. Non c’è dunque motivo di mettere in dubbio il racconto che fece Valachi a Peter Maas a proposito del suo ingresso nella  famiglia di Maranzano, nel 1930.

    «Direi che a quel tavolo ci stavano seduti una quarantina di ragazzi e, quando entrai, si alzarono tutti. I castellammaresi e quelli di Tom Gagliano Stavano mischiati (…) Dopo, mister Maranzano mi dice di sedermi a un posto vuoto alla sua destra. Quando mi siedo, si siede anche tutta la tavolata. Qualcuno mi mette davanti sul tavolo una pistola e un coltello. Maranzano si volta dalla mia parte e, in italiano, parla del coltello e della pistola. “Questo significa che tu campi di pistola e di coltello” dice e che muori di pistola e di coltello.” Poi mi chiede: “Con quale dito spari?” Dico: “Questo qui”, e mostro l’indice destro.

    Mi stavo ancora chiedendo che cosa voleva significare, quando lui mi dice di fare una coppa con le mani. Poi ci mette dentro un pezzo di carta e l’accende con un fiammifero e mi dice di ripetere con lui, mentre muovo il pezzo di carta su e giù: “È così che morirò se tradisco il segreto di Cosa Nostra”. (…) Dopo di questo, mister Maranzano dice: “Ecco le tue cose più importanti che voi tutti vi dovete ricordare, ficcatevele bene in testa. La prima è che tradire i segreti di Cosa Nostra significa morte senza processo. Secondo, che prendersi la moglie di qualsiasi altro membro significa morte senza processo.”»

    In seguito, Maranzano tirò a sorte per designare fra i presenti quello che sarebbe stato il padrino di Valachi. Toccò a Joe Bonanno, detto anche Joe Bananas. Costui chiese a Valachi di porgergli il dito che gli serviva per sparare, poi lo punse con uno spillo, finché venne fuori il sangue. Allora Maranzano disse: “Questo sangue significa che ora noi siamo una sola famiglia”.

    Joe Valachi

    È chiaro che, se una simile cerimonia aveva un valore simbolico, essa era concepita soprattutto per impressionare il neofita e obbligarlo a impegnarsi davanti a un gran numero di testimoni. Il neofita, inoltre, doveva rendersi conto che il suo arruolamento era definitivo. Quando uno ‘sposa’ la mafia, lo fa per la vita. L’unico divorzio autorizzato è la morte. Entrando a far parte dell’Onorata Società, il picciotto siciliano, o il soldato americano, promette di obbedire suppergiù al medesimo codice d’onore. Questo codice, secondo Martin W. Duyzings, è condensato nelle cinque importanti regole seguenti:

    l. I membri della mafia si aiutano l’un con l’altro, qualunque sia il genere d’aiuto richiesto.

    2. Si impegnano a obbedire ciecamente ai loro superiori.

    3. Qualunque attentato contro un membro della mafia, di qualsiasi genere esso sia, è un attentato contro tutti; esso deve essere vendicato a ogni costo.

    4. Quando bisogna fare giustizia, i membri della mafia non si rivolgono alle autorità civili, ma alla mafia stessa. È lei che giudica. È lei che emette la sentenza. È lei che fa eseguire quest’ultima.

    5. Chiunque, per qualunque ragione riveli il nome dei membri dell’organizzazione, può essere ucciso da uno qualsiasi dell’organizzazione stessa, in qualsiasi momento; la vendetta non raggiungerà solo lui, ma anche tutta la sua famiglia.

    Questo quinto ‘comandamento’ è senza dubbio il più importante. A questo punto, bisogna parlare di due cose importanti che fanno parte dello spirito mafioso: l’omertà e la vendetta.

    È all’omertà, alla legge del silenzio, che la mafia deve probabilmente la sua prodigiosa longevità. Sembra che un tale concetto sia molto anteriore alla mafia vera e propria. In ogni caso, senza l’omertà, la mafia non sarebbe mai potuta esistere.

    Questo rifiuto di parlare e di cercare la protezione delle autorità deriva sicuramente dal fatto che le leggi alle quali si chiedeva ai siciliani di obbedire non erano mai le loro, ma quelle dell’invasore. Erano leggi imposte. Rispettarle, sottomettervisi, era come tradire i propri fratelli. Questo modo di comportarsi-è divenuto un’abitudine così radicata in lui, che il mafioso, il quale sceglie volontariamente la cittadinanza americana, non per questo smette di rifiutare le leggi della sua nuova patria. Che sia siciliano o americano, non importa, la legge è solo per lu fissa, per i fessi.

    Battaglia-

    Da sempre, l’omertà è ciò che probabilmente si insegna a ogni siciliano, fin da piccolo. Oggi, ci si rende conto che il famoso  “muro del silenzio” ha giovato molto più alla mafia, che al popolo siciliano.

    Riparandosi dietro di esso, la mafia ha potuto impunemente forgiare la propria potenza e ammassare ricchezze, mentre il popolo ha conosciuto solo miseria e asservimento. In Sicilia, il silenzio è d’oro solo per pochi.

    Beninteso, se combatte la legge ufficiale, la mafia tuttavia instaura una sua propria legge. E di fronte a questa non c’è possibilità di ribellione. Per far rispettare l’omertà, la mafia creò la vendetta. In poche parole: chi non obbedisce alla mafia deve morire, Se l’unico fine della vendetta è la morte, il suo compimento dà luogo a variazioni infinite. Nel 1921, il procuratore di Palermo la descriveva così:

    «La vendetta si esegue in modo barbaro, selvaggio, a tradimento, in una imboscata, servendosi di rasoi, di roncole, di armi, di veleno, di decapitazione, di strangolamento, al quale si aggiunge un marchio d’infamia sui cadaveri: li si cosparge di benzina e gli si dà fuoco, oppure li si mutila, oppure se ne fa un orribile scempio perché non ci siano dubbi sulla terribile potenza della mafia».

    Il solo merito della vendetta è di essere una legge facile da comprendere. La sua definizione non è per nulla ambigua: “chiunque contravvenga alla legge dell’omertà è passibile di vendetta”.

    E non bisogna credere che i marchi d’infamia o le mutilazioni siano gratuite. Esse assumono un significato preciso che i siciliani conoscono benissimo. Così, secondo Michele Pantaleone, un sasso nella bocca della vittima significa che essa ha parlato troppo. Se la sua mano, troncata dal braccio, è posata sul petto, vuol dire che la vittima era un ladro. Non importa che cosa abbia rubato: se si fosse limitato a rubare agli ‘altri’, nessuno gli avrebbe fatto niente, ma derubare o fregare un mafioso è un delitto imperdonabile. Gli organi genitali appesi al collo indicano che il loro possessore ha abusato, o ha solo cercato di farlo, della moglie di un mafioso. A qualcuno vengono strappati gli occhi e glieli ficcano nei pugni chiusi: non si tratta né di uno che ha parlato troppo, né di un ladro, ma semplicemente di un buon tiratore al servizio di una cattiva causa. E così via… Ma, il più delle volte, la mafia non si dà neppure pena di spiegare le sue esecuzioni. Le basta che si sappia che le sue sentenze sono inappellabili e che nessun protettore, nessuna protezione, neppure quella delle spesse mura del carcere, può impedire l’esecuzione di queste sentenze.

     Un campiere della fine del XIX secolo,

    un personaggio mafioso generalmente di seconda importanza.

    Come tutte le società segrete, la mafia ha finito col creare un proprio linguaggio, che le permette di parlare in pubblico senza che gli altri capiscano. Per esempio, il ‘tufa’ (il tuffo) significa revolver; il ‘gaddu’ (il gallo) vuol dire carabiniere; il ‘grasciu’ (la sporcizia) vuol dire, curiosamente, oro eccetera. Altre espressioni sono diventate celebri: ‘u pizzù’, e ‘l’amicu di l’amici’.

    ‘U pizzù’ è un vocabolo siciliano che vuol dire il becco dell’uccello. Lo si ritrova nell’espressione “ bagnare il becco” che vuol dire “ungere le ruote” o “dare una mancia”. Nel linguaggio del mafioso, ‘u pizzù’ ha preso il significato di “tangente”, quella che il don esige dal contadino, dal nobile o dal commerciante per assicurar loro protezione. ‘U pizzù’, è stato per lungo tempo la principale risorsa economica della mafia, in Sicilia come negli Stati Uniti, dove esso si chiama racket.

    L’espressione ‘l’amicu di l’amici’ (l’amico degli amici), ha anch’essa fatto parlare parecchio di sé. Nel suo libro Malia e droga, Michele Pantaleone lo definisce come l’uomo politico, il rappresentante di una professione liberale, l’impiegato, il funzionario, che hanno dato prove di attaccamento, di solidarietà alla mafia. È il deputato che interviene presso un ministro, presso il prefetto, il capo della polizia, il capo dei carabinieri, che fa trasferire un subordinato troppo zelante o un giudice troppo curioso. È il giurato che,. nel momento in cui si deve deliberare, riesce a ottenere l’assolvimento per insufficienza di prove. È il medico che cura clandestinamente.

    È l’avvocato che si è fatto maestro nell’arte di confondere i testimoni e la pubblica accusa. E così via. È chiaro che la lista degli amici è lunga, e soprattutto che la rete di complicità di cui la mafia ha bisogno è enorme e deve costarle parecchio.

    Il suo sistema, a quanto si è visto, è estremamente semplice: terrorizzando gli uni, essa ottiene ‘u pizzù’, grazie al quale può pagare gli altri, gli ‘amici’, servitori docili e indispensabili.

    Tuttavia. alle parole, la mafia preferisce ancora il silenzio. Essa dispone di una grande varietà di gesti, e due mafiosi che si incontrano, anche in privato, non hanno bisogno di parlare molto per prendere le decisioni più importanti o più gravi. Un abbraccio, un sorriso, un certo modo per accendere il sigaro, un semplice silenzio in risposta a una domanda insignificante, ma che ha un preciso senso nascosto, sono sufficienti per sigillare un patto o impartire l’ordine di una condanna a morte. Lo scopo evidente di un tal modo di fare è di lasciarsi dietro di sé il minor numero di tracce possibili. Questa ossessione di lasciar tracce dietro di sé è tipicamente mafiosa.

    Perciò, non è affatto raro che i don siciliani o i boss americani si rifiutino di rispondere personalmente al telefono. Ma simili to i baroni avessero saputo fare per molto prudenze sono inutili. Il loro linguaggio è a tal punto incomprensibile e ridotto ai minimi termini che se anche i muri delle case fossero imbottiti di microfoni, si riuscirebbe a raccogliere nulla di compromettente. È facile immaginare, fino a che punto questo muro protezione, unito al famoso muro del silenzio renda difficile il compito della polizia, e, a maggior ragione, quello della giustizia. La mancanza sia di testimoni, sia di prove permette al mafioso di essere quasi invulnerabile.

    Nello stesso modo in cui rinforza la difesa di se stessa con il silenzio, la mafia preferisce agire nell’ombra, anziché in piena luce. Da qualche anno a questa parte, grazie soprattutto alle rivelazioni di Joe Valachi, ma anche alle inchieste della polizia, alle ricerche svolte dalle commissioni antimafia, conosciamo un po’meglio i metodi adottati dall’Onorata Società, senza che ciò, tuttavia, abbia minimamente contrastato la sua ascesa. Qualcuno ha paragonato la mafia a un’enorme tela di ragno, tanto fragile in apparenza, ma tanto resistente in realtà. Qualche volta si riesce a distruggerne una parte, ma essa subito si riforma. La sua fragilità le deriva dall’estensione e dalla varietà instabile dei campi che essa controlla. La sua resistenzala deve all’omertà, all’immensa corte di amici che è stata capace di allevare e di conservare, ma anche alla sua disciplina interna.

    let batt

    Padrona della Sicilia

    Prima di nascere ufficialmente, tra il 1814 e il 1870, si può dire che la mafia sia quasi unicamente un fenomeno legato alla campagna. Per secoli, la Sicilia conobbe uno dei più lunghi regimi feudali in tutta la storia d’Europa. La lontananza dal potere centrale e l’estensione spesso considerevole di questi feudi posero senza dubbio gravi problemi ai loro proprietari, i grandi baroni. La piaga più grande alla quale essi dovevano soprattutto far fronte era il brigantaggio, che si manifestava soprattutto con rapimenti a scopo di riscatto, oppure con furti di bestiame. Come tutta risposta, i proprietari erano obbligati a scendere a patti con l’unica forza che fosse capace di mantenere una parvenza d’ordine, cioè con la mafia.

    Questa non tardò a rendersi conto di quale profitto poteva trarre da una simile situazione. Per questo, doveva operare su due fronti. Da una parte, impose un freno ai banditi (ma guardandosi bene dal ridurli all’impotenza), dall’altra cercò di appropriarsi dei feudi.

    Fu ciò che suppergiù avvenne. Sempre più isolati e minacciati, i baroni si ritirarono in. città, dopo aver affidato i loro feudi a dei facenti funzione, i gabellotti, incaricati di mantenere l’ordine e di incassare gli affitti dei poderi. Naturalmente, questi gabellotti sono la. maggior parte delle volte mafiosi, o lo diventano per forza di cose. Nell’ottocento, ormai, la mafia impone il proprio dominio sulle campagne, imponendo un proprio ordine, ma anche il terrore, e spremendo i contadini molto più di quanto i baroni avessero saputo fare per molto tempo.

    Qualcuno dice che la mafia, durante il Risorgimento, si mutò in movimento patriottico, e che, senza il suo aiuto, Garibaldi non sarebbe riuscito nei suoi intenti.

    Qualcuno aggiunge che, nel 1943,la mafia facilitò lo sbarco degli alleati in Sicilia. Per la verità la mafia sceglie questo o quel partito politico al solo fine di rafforzare il proprio potere e di proteggere i propri interessi. Dal 1812, gli interessi appunto della mafia sono minacciati. quell’anno, la costituzione siciliana proclamò l’abolizione del regime feudale. ln apparenza, una tale innovazione danneggiava solo la nobiltà terriera, ma in verità, lo smacco più grande lo riceveva la mafia, che, aveva quasi preso il posto di quella nobiltà o che stava per farlo. La mafia decise allora che era giunto il momento di sbarazzarsi dei Borboni, dei quali fino allora si era data ben poca pena, e non si lasciò scappare la prima occasione che si presentava, per giungere a un tale scopo, cioè l’arrivo di Garibaldi. Per le identiche ragioni, alcuni anni dopo, nel 1866, quando Casa Savoia si rivelò un occupante al pari degli altri, la mafia partecipò alle sollevazioni di Palermo contro i piemontesi.

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    La mafia si comporta patriotticamente solo quando ha interesse a fare così. per essere più precisi, al solo fine di essere padrona il più possibile in casa sua, essa è separatista; separatista non nel senso di rendere il popolo siciliano indipendente e responsabile del proprio destino, ma sempre per il suo tornaconto personale.

    Ma il governo era decisissimo a mantenere lisola unita al resto d’Italia. La mafia, lucida e realista come il suo solito, si accontentò di prenderne atto. poiché i piemontesi erano i nuovi padroni, e le speranze di buttarli fuori dall’isola erano ben poche, tanto valeva mettersi d’accordo con loro. Fedele alla sua politica, che consiste nel conciliarsi i più forti, piuttosto che opporsi a essi, la mafia, una volta ancora si adattò e si organizzò secondo questo principio.

    E in quattro e quattr’otto, tutto sembrò procedere per il meglio. Nel giugno1873, rivolgendosi ai deputati, il procuratore generale Diego Tayani poteva dire. senza paura di esagerare:

    «Nella regione di Monreale lavorano non meno di sei capimafia. È impossibile agire contro di essi. Sapete che mestiere fanno? Uno è il comandante locale della polizia, gli altri cinque sono ufficiali della Guardia Nazionale. A Monreale. non si uccide nessuno. non si commette alcun reato, senza la loro autorizzazione, per non dire senza il loro ordine».

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    Continua …

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    Storia della mafia seconda parte leggi qui

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    Tratto da Enciclopedia del crimine

     ©Fratelli Fabbri Editori, 1974

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