• Archetipi letterari e leggende culturali

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    di Gian Carlo Zanon

    Prefazione

     

    Invitato, nell’estate del 2012, dalla libreria Amore e Psyche di Roma a partecipare ad una manifestazione (No libri? Non Party!) che aveva l’intento di informare i lettori sulle letture adatte per vivere una vacanza letteraria (anche letteraria), mi trovai, obtorto collo, a presentare alcuni libri di genere fantastico. Per giungere preparato all’appuntamento con i lettori,  rilessi Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde di Stevenson e Frankenstein, o il Prometeo moderno di Mary Wollstonecraft Godwin, meglio conosciuta come Mary Shelley.

     

    Ricordavo vagamente il racconto che nel romanzo della Shelley la Creatura fa dell’istante della propria nascita. Andai a rileggere: «…una luce sempre più forte sollecitò i miei nervi fino a costringermi a chiudere gli occhi. Caddi nell’oscurità e questo mi turbò». Geniale. Geniale anche l’interpretazione che Mary Shelley da della nascita umana: una nascita naturalmente buona. Proseguendo nel racconto l’autrice rappresenta la Creatura come un essere nato buono che, solo in seguito, perché deluso, offeso e percosso da uomini, che non sapevano vedere oltre il suo pur spaventevole aspetto fisico, diventerà un mostro criminale e maledirà la propria nascita e il proprio creatore. «Sono malvagio perché sono infelice», dirà la Creatura a Victor Frankenstein, il medico che gli da la vita biologica ma che, nel momento stesso della nascita della Creatura, si assenta abbandonandolo.

     

     

    La rilettura del celeberrimo libro di Stevenson mi sorprese ancor più perché nelle precedenti letture, seguendo più la vulgata culturale che il testo dello scrittore, avevo percepito la realtà umana del protagonista del libro in modo errato. Cerco di spiegarmi: non esiste nel libro un dottor Jekyll buono che suo malgrado si trasforma in un mister Hyde perverso ed assassino. Jekyll non fa altro che creare una maschera di carne ed ossa per poter agire la propria malvagità senza che la propria immagine pubblica di gentiluomo venga intaccata.

     

    Vi leggo alcun brani del decimo capitolo, cioè la lettera che il dottor Jekyll scrive al suo amico Utterson:

     

    «… il peggiore dei miei difetti è stato l’irrequietezza di temperamento che mi era molto difficile conciliare con l’imperioso desiderio di mettermi in vista e di assumere davanti al pubblico un contegno più grave del consueto. Da questa ragione fui indotto a celare i miei gusti e, quando giunsi all’età della riflessione e principiai a guardarmi intorno ed a tener conto del mio progresso e della mia posizione nel mondo, mi trovavo già avvezzo ad una profonda duplicità nella vita. (…) Nonostante la profonda diversità di questi due aspetti, io non ero affatto un ipocrita; ambedue i lati in me erano sincerissimi; ero ugualmente io quando, posto da un lato ogni umano ritegno, mi immergevo nella vergogna, come quando mi adoperavo, alla luce del giorno per il progresso della scienza … (…) Fu nel campo morale che imparai a conoscere, nella mia stessa persona, la completa e radicale dualità dell’uomo; e vidi che, sebbene si potesse con ragione affermare che io era tanto una che l’altra delle due nature che lottavano nel campo della mia coscienza, era solo perché io ero radicalmente duplice; e da tempo molto remoto, anche prima che il susseguirsi delle mie scoperte scientifiche avesse cominciato a suggerirmi la mera possibilità di un simile miracolo. (…)  Mi dicevo che se fosse stato possibile inquadrare ognuno di essi in entità separate, la vita ne sarebbe stata alleviata da tutto ciò che essa ha di insopportabile; il malvagio avrebbe avuto il suo sfogo, non più compresso dalle aspirazioni e dai rimorsi del gemello più onesto; e questi a sua volta avrebbe potuto ascendere pel suo sentiero con fermezza e sicurezza senza correre il rischio di dover scontare e sopportare le conseguenze di un estraneo. (…)  »

     

    Al contrario di quando viene interpretato e divulgato dalla leggenda culturale, Jekyll non diventa perverso perché assume la maschera di Hyde; egli lo è già «ero radicalmente duplice; e da tempo molto remoto, anche prima che il susseguirsi delle mie scoperte scientifiche».

     

     

    Jekyll non fa altro che perseguire  lucidamente una strada che lo deve portare alla realizzazione della propria patologica scissione. Il dottor Jekyll vuole creare in Hyde un superuomo anaffettivo che faccia tacere per sempre quel rimasuglio di umanità ancora presente in se stesso. In altre parole egli vuole realizzare ciò che Heidegger poi chiamerà “autenticità dell’essere” che è “essere per la morte” … degli altri.

    Jekyll, onnipotentemente, (come hanno sempre fatto coloro che hanno parlato di realtà umana perversa prendendo se stessi ad esempio) si prende a modello dell’umanità intera. Il ragionamento di Jekyll è più o meno questo: “Se io sono perverso tutta l’umanità è perversa; e siccome la mia perversione deve essere tenuta nascosta perché danneggerebbe la mia figura di gentiluomo mi costruisco una maschera che nessuno può togliermi dal volto”. Infatti crea mister Hyde, una maschera perfetta: un “estraneo”.

     

    «Quindi sebbene possedessi in tal modo due caratteri e due figure, l’una era interamente cattiva, l’altra era sempre il vecchio il vecchio Henry Jekyll. (…) Anche allora (prima della scoperta della pozione N.d.R.) non ero riuscito a vincere la mia avversione per l’aridità della vita di studio. Di tanto in tanto avevo la testa ai divertimenti: e, siccome i miei piaceri erano (a dir poco) indegni, ed oltre ad essere ben conosciuto e altamente stimato, mi avviavo a divenire una persona attempata, questa incoerenza nella mia vita diventava ogni giorno meno opportuna. (…) non avevo che da bere la coppa, e liberarmi d’un colpo del corpo del noto professore, ed assumere come uno spesso mantello quello di Edward Hyde».

     

    Contrariamente a ciò che vuole la vulgata non esiste un Jekyll buono ma sempre il vecchio il vecchio Henry Jekyll”, vale a dire quello che già si adoperava in “piaceri – che – erano (a dir poco) indegni”. Piaceri di qui non provava vergogna ma che erano soltanto “poco opportuni” per sua ‘impeccabile’ immagine pubblica.

     

     

    Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde di Stevenson è un archetipo letterario. Tracce di esso si possono trovare nel mito giudaico di Caino e Abele (di cui parlerò nei prossimi articoli) ma anche in quello romano di Romolo e Remo, e in molti altri.

    Di questi archetipi letterari si è nutrita la cultura dando vita al tema del doppio: il romanzo di Stevenson di cui stiamo parlando, Il William Wilson di E. A. Poe, Il compagno segreto di Conrad, Il ritratto di Dorian Gray di O. Wilde, non sono altro che rivisitazioni, più o meno consapevoli, di miti antichi che propongono la favola culturale della dualità primaria dell’essere umano tenuta in equilibrio sommario dalla religione o dalla ragione. Per la nostra cultura occidentale, buono e cattivo, diavolo e angelo, fedele ed eretico, perverso e puro, sono costituzionalmente presenti già dalla nascita. Il “peccato originale”, di matrice giudaico-cristiana, il concetto freudiano di “bambino polimorfo perverso” sono due facce della stessa medaglia e sono i cardini su cui si appoggia tutta la nostra cultura e di conseguenza la nostra società civile. In realtà non esistono due entità all’interno dell’essere umnao in costante lota tra loro; esiste la realtà umana che all’inizio della vita è sana e atta all’incontro con l’altro da sé, ma se, sottoposta dall’ambiente umano che la circonda a vissuto deludenti,  può ammalarsi più o meno gravemente.

     

     

    Due parole, per non generare confusione nel lettore,  anche sul termine archetipo, parola abusata da molti pensatori  tra cui Jung (il ‘grande pensatore’ che si vestiva con la divisa delle SS e affermava  l’esistenza di un inconscio ariano) che definì l’archetipo come un coacervo universale di idee innate e contenuti affettivi ereditari presenti nella fisiologia i quali condizionerebbero, consciamente e inconsciamente, i nostri pensieri e conseguentemente il nostro comportamento. In soldoni: se Caino ha ucciso Abele noi continueremo a voler uccidere nostro fratello se questi sarà più bravo e dotato di noi. Questa per Carl Gustav Jung è la realtà umana, un destino determinato nella notte dei tempi. E dato che egli era nazista, l’autenticità della realtà umana è il pensiero nazista, che è “essere per la morte dell’altro”.

     

    In realtà la parola archetipo significa ben altro. Leggiamo da Wikipedia:

     

    La parola archetipo deriva dal greco antico ὰρχέτῦπος col significato di immagine: tipos (“modello”, “marchio”, “esemplare”) e arché (“originale”); è utilizzata per la prima volta da Filone di Alessandria e, successivamente, da Dionigi di Alicarnasso e Luciano di Samosata.

     

    Ed è in questo modo voglio utilizzare la parola archetipo, cioè per indicare un idea, un pensiero, una norma sociale, un racconto, originatosi nell’antichità e rimasto nella cultura mutando la forma espressiva e a volte, purtroppo, anche il contenuto originario. Quindi l’archetipo letterario indica un’idea/immagine presente fin dalla sua prima rappresentazione orale o letteraria. Nonostante siano stati spesso snaturati già nell’antichità, questi archetipi letterari hanno solcato il mare del tempo e sono giunti fino a noi nella loro potente essenza primitiva.

     

    Da queste premesse vorrei partire per cercare quegli archetipi letterari che sono, nel bene e nel male, la sostanza primaria della nostra cultura ed anche per demistificare quelle leggende culturali che hanno distorto il senso di quei miti, di quelle parole, di quelle idee che fondano la conoscenza della realtà umana, che come narra la Shelley non è malvagia, né malata, né tantomeno contaminata da un peccato originario.

     

    Nel prossimo articolo continuerò a parlare dell’archetipo del doppio e del suo farsi nei secoli. Poi continuerò con il tema della ribellione nel mito: Prometeo, Edipo, Antigone e le sue sventurate epigoni letterarie trasormate in femme fatale: Salambò M.me Bovary, Moll Flanders, Manon Lascaut, Lulù, Nanà … ; poi ci sarebbe il tema della nascita; Ercole, Dioniso, Mosé, la Creatura di Frankenstein, Kaspar Hauser ecc…

     

     

    Il tema degli archetipi letterari deteriorati dalle leggende culturali è pressoché infinito, basti pensare a Don Quijote che nella cultura è sinonimo di pazzo…

     

    Un altro mito largamente rimaneggiato, in negativo, è quello di Eros e Psyké … vedremo …

     

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