I testi sono stati copiati dalla rubrica Spogli del sito Segnalazioni
il Fatto e The Independent 16.9.12
Sabra e Chatila
Entrai in quel campo, ecco ciò che vidi – Puzza di morte: è l’orrore della Storia
di Robert Fisk
Quei ricordi, ovviamente, non si cancellano. Lo sa bene l’uomo che aveva perso la sua famiglia in un precedente massacro e poi vide, impotente, i giovani di Chatila costretti a mettersi in fila e a marciare verso la morte. Ma il tanfo dell’ingiustizia soffoca ancora i campi profughi nei quali esattamente 30 anni fa furono massacrati 1700 palestinesi. Nessuno è stato processato e tanto meno condannato per quel massacro, che persino uno scrittore israeliano paragonò all’assassinio dei partigiani jugoslavi ad opera dei simpatizzanti nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Sabra e Chatila sono un monumento eretto ai criminali che l’hanno fatta franca.
KHAKED ABU Noor era un adolescente, un futuro miliziano ed era partito per le montagne poco prima che i falangisti alleati di Israele facessero irruzione. Si sente in colpa per non aver potuto combattere contro i violentatori e gli assassini? “Il sentimento che ci accomuna è la depressione”, mi risponde. “Abbiamo chiesto giustizia, abbiamo invocato processi internazionali, ma nulla è accaduto. Nemmeno una sola persona è stata ritenuta colpevole di quell’orrore. Nessuno è finito dinanzi ad un tribunale. Forse per questo abbiamo dovuto soffrire ancora nella guerra del 1986 (per mano dei libanesi sciiti) e forse per questo gli israeliani hanno potuto massacrare moltissimi palestinesi nel 2008-2009 durante l’invasione di Gaza. Se i responsabili del massacro di trenta anni fa fossero stati processati, non ci sarebbero stati i morti di Gaza”. Ha le sue ragioni per pensarla a questo modo. L’11 settembre a Manhattan decine di presidenti e primi ministri hanno fatto la fila per commemorare le vittime dell’attentato criminale al World Trade Center, ma nemmeno un leader occidentale ha avuto il coraggio di far visita alle fosse comuni sudice e spoglie di Sabra e Chatila. Ad onor del vero, va detto che in trenta anni nemmeno un solo leader arabo si è preso la briga di visitare il luogo in cui riposano almeno 600 delle 1700 vittime. I potenti del mondo arabo piangono, a parole, per la sorte dei palestinesi massacrati nei campi, ma nessuno ha voluto affrontare un breve volo per rendere omaggio a questi morti dimenticati.
E poi chi se la sente di offendere gli israeliani o gli americani? Per ironia – ma significativa – del destino, il solo Paese che ha svolto una seria indagine ufficiale, pur finita in un nulla di fatto, è stato Israele. L’esercito israeliano lasciò entrare gli assassini nei campi e rimase a guardare senza intervenire mentre le atrocità si consumavano.
La testimonianza più significati-va è quella fornita dal sottotenente israeliano Avi Grabowsky. La Commissione Kahan ritenne l’allora ministro della Difesa di Israele, Ariel Sharon, personal-mente responsabile per aver consentito ai sanguinari falangisti anti-palestinesi di fare irruzione nei campi “per ripulirli dai terroristi” – rivelatisi inesistenti come le armi di distruzione di massa dell’Iraq 21 anni dopo. Sharon fu costretto a dimettersi, ma in seguito divenne primo ministro fin quando fu colpito da un ictus. Elie Hobeika, il leader della milizia cristiana libanese che guidò gli uomini nei campi – dopo che Sharon aveva detto ai falangisti che i palestinesi avevano appena assassinato il loro capo Bashir Gemayel – fu assassinato qualche anno dopo nella zona est di Beirut. I suoi nemici dissero che era stato ucciso dai siriani, i suoi amici incolparono gli israeliani. Hobeika, che aveva stretto una alleanza con i siriani, aveva appena annunciato che avrebbe “detto tutto” sulle atrocità di Sabra e Chatila dinanzi ad un tribunale belga che voleva processare Sharon.
Naturalmente quanti di noi entrarono nei campi il terzo e ultimo giorno del massacro – il 18 settembre 1982 – hanno i loro ricordi. Io ricordo il vecchio in pigiama disteso a terra supino nella strada principale del campo con accanto il suo innocente bastone da passeggio, le due donne e il bambino uccisi accanto a un cavallo morto, la casa privata nella quale mi nascosi dagli assassini insieme al collega del Washington Post, Loren Jenkins. Nel cortile della casa trovammo il cadavere di una giovane. Alcune donne erano state stuprate prima di essere uccise. Ricordo anche la nuvola di mosche, l’odore penetrante della decomposizione. Queste cose le ricordo bene.
ABU MAHER ha 65 anni. La sua famiglia era fuggita da Safad, oggi Israele, e abitava nel campo profughi nei giorni del massacro. Sulle prime non voleva credere alle donne e ai bambini che gli dicevano di scappare. “Una vicina di casa cominciò ad urlare, guardai fuori e vidi mentre la uccisero con un colpo di arma da fuoco alla testa. La figlia tentò di fuggire; gli assassini la inseguirono gridando ‘Ammazziamola, ammazziamola, non ce la lasciamo sfuggire! ’. Lanciò un grido verso di me, ma io non potevo fare nulla. Ma riuscì a salvarsi”. Le ripetute visite ai campi, anno dopo anno, hanno creato una sorta di narrazione ricca di stupefacenti particolari. Le indagini condotte da Karsten Tveit della Radio norvegese e da me hanno provato che molti uomini, proprio quelli che Abu Maher vide marciare ancora vivi dopo il massacro iniziale, in seguito furono consegnati dagli israeliani agli assassini falangisti che li tennero prigionieri e Beirut est per diversi giorni e, quando si resero conto che non potevano servirsene per scambiarli con ostaggi cristiani, li giustiziarono e li seppellirono in fosse comuni.
Altrettanto atroci e crudeli le argomentazioni a favore del perdono. Perché ricordare alcune centinaia di palestinesi massacrati quando in 19 mesi in Siria furono uccise 25.000 persone? I sostenitori di Israele e i critici del mondo musulmano negli ultimi due anni mi hanno scritto insultandomi per aver più volte raccontato il massacro di Sabra e Chatila, come se il mio resoconto di testimone di quelle atrocità fosse soggetto alla prescrizione. Sulla base dei miei interventi su Sabra e Chatila raffrontati con miei articoli sull’oppressione turca, un lettore mi ha scritto che “sono portato a concludere che nel caso di Sabra e Chatila, lei mostra un pregiudizio contro Israele. Giungo a questa conclusione per il numero sproporzionato di citazioni di questa atrocità…”. Ma è possibile esagerare nel ricordare un massacro? La dottoressa Bayan al-Hout, vedova dell’ex ambasciatore a Beirut dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ha scritto la più autorevole e dettagliata ricostruzione dei crimini di guerra di Sabra e Chatila – perché di questo si è trattato – ed è giunta alla conclusione che negli anni seguenti la gente aveva paura a ricordare.
“POI ALCUNI gruppi internazionali hanno cominciato a parlarne. Dobbiamo ricordare: le vittime portano ancora le cicatrici di quei fatti e ne saranno segnati anche coloro che debbono ancora nascere”. Alla fine del libro, al-Hout pone alcuni interrogativi difficili e pericolosi: “Gli assassini sono stati i soli responsabili? Possiamo definire criminali solo gli autori del massacro? Solo chi diede gli ordini può essere considerato responsabile? ”. In altre parole, non è forse vero che il Libano aveva un parte di responsabilità a causa dei falangisti, Israele un’altra parte a causa del comportamento del suo esercito, l’Occidente un’altra parte per avere Israele come alleato e gli arabi un’altra parte per avere gli americani come alleati? Al-Hout chiude citando le parole con le quali il rabbino Abraham Heschel si scagliò contro la guerra del Vietnam: “In una società libera alcuni sono colpevoli, ma tutti sono responsabili”.
© The Independent, Traduzione di Carlo Biscotto
* * * * *
il Fatto 16.9.12
I morti e i vivi, una strage lunga 40 ore – Il libano e la rimozione della grande vergogna
di Roberta Zunini
Beirut Un cane randagio dorme accanto al piccolo massetto di marmo su cui appassiscono due solitarie corone di fiori, ignaro di essere accucciato sulla terra che ricopre dal settembre del 1982, i corpi di bambini, donne e anziani soprattutto palestinesi, ma anche libanesi, trucidati, smembrati, sgozzati e sventrati, nel vicino campo profughi di Sabra e Chatila dai falangisti cristiani. Dopo aver schivato paccottiglie varie, pile di ciabatte di plastica e computer di contrabbando, allineati senz’ordine sul marciapiede fino al cancello d’ingresso di questo spiazzo vuoto, grande non più di 500 metri quadrati, la sensazione che si prova è di squallore e desolazione. Sopra la fossa comune solo terra riarsa, qualche bottiglietta d’acqua vuota buttata qua e là, un pacchetto di sigarette accartocciato e quattro bandierine palestinesi ammosciate dietro una povera sfera di alluminio.
I cartelloni con le foto dei corpi ammassati sono sbiaditi e ricoperti di polvere. Questo indegno cimitero è la prova che gli uomini – gli autori del massacro quanto la comunità internazionale – non intendano, ancor oggi, assumersi la responsabilità di quanto accaduto. Come leggere altrimenti questa incuria? Osservando come vengono trattati i familiari dei morti, i sopravvissuti e, in generale, tutti i profughi palestinesi che oggi vivono nel campo, si ha un’ulteriore prova della totale indifferenza del mondo nei confronti di quanto accadde 30 anni fa.
BASTA SPOSTARSI di poche centinaia di metri dal cimitero e si incrocia Sabra, che è la via d’accesso al campo di Chatila. Un odore di pollame e fogna a cielo aperto dà il benvenuto. Da lì in poi solo vicoli stretti, bui, grondanti di fili elettrici scoperti che sfiorano le teste dei 12mila abitanti registrati dall’ente Onu che dovrebbe provvedere alla pulizia, all’istruzione, al rifornimento di medicinali. In uno dei tanti cubi di cemento che arrivano fino a 5 piani lavora Nasser Saleh. “Idee tante per migliorare la vita dei profughi ma pochissimi soldi”, dice mentre bussano alla porta. Portare a termine un discorso è quasi impossibile: il pellegrinaggio di derelitti che vengono a implorare questo giovane libano-palestinese di trovare loro un lavoro, di dar loro un po’ di soldi per le loro case, di mandare i genitori nell’ospedale di un altro campo, è infinito. La disoccupazione è altissima anche perché dal 1997 i rifugiati palestinesi non possono fare lavori fuori dal campo. Nemmeno gli spazzini. Ma è proibito soprattutto svolgere professioni che richiedono l’iscrizione agli albi professionali: medici, ingegneri, avvocati che sono riusciti a laurearsi, possono lavorare solo dentro questa prigione a cielo aperto. Così i loro padri, sono costretti a cercare altre fonti di guadagno. O prendere la tessera di Hamas o Fatah, i partiti palestinesi che hanno una rappresentanza nel campo e offrono cibo e denaro da mettere da parte per cercare di andare illlegalmente in Europa o negli Usa.
Ogni anno dal campo scappano centinaia di persone. “Vorremmo andarcene legalmente ma ottenere un permesso di studio o di lavoro è quasi impossibile. Bisogna che un cittadino del paese dove decidiamo di andare presenti al proprio ministero un invito che serve da garanzia. Funziona così anche se vogliamo andare a fare un viaggio”, ci spiega in inglese Lara, una bellissima 17enne, figlia di Maria, una sopravvissuta palestinese di religione cristiana e Ahmed, scampato al massacro di Tel al-Zaatar. Maria aveva 7 anni la notte in cui iniziò la strage, durata 40 ore. Passiamo con Ahmed davanti a un garage trasformato in cimitero: sotto una colata di cemento ci sono 700 corpi. Ma si tratta dei morti della rivolta dei campi del 1985. “Meglio la morte che una vita senza diritti, emarginati e allontanati da tutti”, dice con le lacrime agli occhi.