Erika, la matricida di Novi ligure
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di Gian Carlo Zanon
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Riproponiamo questa intervista, apparsa per la prima volta nel febbraio del 2011, per rispondere all’articolo di Eugenio Scalfari del 28 dicembre 1998, poi ripubblicato sulle colonne di La Repubblica il 2 marzo 2013.
Il titolo dell’articolo è quanto mai eloquente Il Padre non c’è più e il Paese è impaurito. Brevemente diciamo che il vecchio ex direttore di La Repubblica – da tempo pensionato ma sempre pesantemente presente nel giorno del signore – ripescando vecchie “teorie” che sanno di fumo di sigaro e di lombrosismo, rilancia la tesi della “legge del padre” senza la quale, secondo lui, si cadrebbe nella “cultura del branco” .
«Se il padre ha dimissionato – scrive Scalfari – non ci saranno più neppure i figli, i fratelli, i cugini; mancano i punti di riferimento». Probabilmente, dico io, verranno a mancare anche i generi e le nuore, i suoceri, i padrini e le comari ecc..
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La ripubblichiamo anche per per rispondere al freudian-lacaniano oltransista Massimo recalcati che da tre mesi ormai sulle pagine di Repubblica ci delizia con i suoi discorsi sul padre, sull’educazione dei bambini, sull’incesto e sulla “mancanza ” vale a dire con surrogati della vetero psicanalisi.
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In realtà questo paradigma patriarcale, come spiega nell’intervista la psichiatra Francesca Padrevecchi, anche se dura da millenni è psicopatogeno. Se non inducesse alla malattia mentale – più o meno manifesta, più o meno grave – i giornalisti di La Repubblica, visto che Scalfari è dimissionato, sarebbero o un branco di selvaggi parricidi in lotta per «il potere tra vecchi e giovani», oppure dei bravi soldatini identificati con lui che è “il padre” del giornale. Lasciamo a loro l’ardua sentenza.
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Scalfari scrisse e ora ripropone un credo secondo il quale la «lacuna di paternità è una delle cause non marginali della perdita d’identità e della nevrosi diffusa che da molti anni affligge il nostro Paese e non soltanto». Alle radici di questa caduta ontologica, sempre secondo Scalfari, ci sarebbero anche «da un lato l’emancipazione della donna, dall’altro la perdita della trascendenza». … che dire, bah … sembra di udire le parole del film Ricomincio da tre, la scena di Robertino, in cui si diceva che le cause della depravazione dei giovani stavano “nei capelloni, nella minigonna … e, suggeriva Gaetano/Troisi, «anche nu poco nel grammofono».”
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Se uccidere uno sconosciuto, durante una rapina è un atto criminale, uccidere il proprio padre non è certamente la stessa cosa. Anche se la vittima è in molti casi un padre padrone violento. Non lo è perché in questo genere di delitti viene coinvolta la sfera affettiva che lega insieme, sin dalla nascita del figlio, due esseri umani.
Certamente non tutti questi crimini familiari sono uguali, ci sono casi come quello di Pietro Maso di Verona che uccise entrambi i genitori; Ferdinando Carretta che uccise i genitori e il fratello; Erika, la ragazza di Novi Ligure che ammazzò a coltellate la madre e il fratellino.
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È chiaro, a tutti coloro che hanno buon senso, che in ognuno di questi delitti, anche se si sono trovate motivazioni razionali, e i giudici hanno deciso che, al momento del crimine, gli assassini dei genitori erano in grado di intendere e di volere, che il vero movente di questi delitti è da ricercare nella malattia mentale. Magari non palese, magari quella pazzia fredda, lucida, ed invisibile, dello psicotico che uccide un essere umano come se fosse una mosca, ma sempre di malattia mentale si tratta.
Per cercare di capire meglio il significato e il senso del parricidio forse è necessario partire da un fatto di sangue accaduto il 3 febbraio scorso: R. P. un quindicenne di Nicotera (Lametia Terme), è entrato incappucciato nella propria abitazione insieme ad un coetaneo e ha colpito con alcune coltellate il padre alla presenza dei fratelli e della madre tenuti a bada dalla minaccia della pistola, giocattolo, dell’amico. Il padre è morto poco dopo il ricovero in ospedale.
Il ragazzo è stato quasi subito identificato ed arrestato. Il giorno dopo ha reso piena confessione adducendo come movente del delitto il fatto che il padre picchiava la madre. L’avvocato ha dichiarato che il minorenne ha ucciso il padre perché stanco delle violenze che infliggeva alla madre, aggiungendo: “In lui c’è l’idea dell’angelo vendicatore”.
Quindi il ragazzo non solo ha premeditato lucidamente il delitto, ma in verità è convinto di avere agito, secondo la sua ‘visione morale’, giustamente, come un ‘angelo vendicatore’.
Per cercare di comprendere le intenzionalità inconsce che spingono a questi delitti tra consanguinei, e le conseguenze che questi atti hanno poi nella psiche di chi li compie, abbiamo intervistato la dottoressa Francesca Padrevecchi, dirigente medico psichiatra presso il SPDC – ASL di Viterbo.
Dottoressa, il parricidio del minorenne di Nicotera, per la sua efferatezza, la sua lucida preparazione, la sua anaffettività, ci sembra appartenere ad un mondo sconosciuto dove quasi non esiste separazione tra pensiero criminale e atto: “Tu sei violento, e io sono più violento di tè e ti uccido”. Questo è il movente, assurdo, che sembra prevalere in questa ‘logica’ agghiacciante del ragazzo. Il sociologo Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori a cui sono state chieste le ragioni di questo delitto, ha dichiarato: “Provo impressione e raccapriccio, anche in questo caso, le ragioni di un gesto così efferato nei confronti del proprio genitore potrebbero essere ricercate nell’imponderabile. Resta il fatto che entrare incappucciato in casa, con determinazione, simulando una rapina, è indice di fredda premeditazione, mentre la complicità del coetaneo determina significazioni più sociali che psicologiche. La violenza, infatti – specifica il sociologo – è da considerarsi, oggi, puro e gratuito esercizio della sopraffazione del branco, rivolta contro chiunque in assenza di un codice comportamentale. (…) La società degli eccessi e la totalizzante cultura alienata è l’humus che soggiace alla greve realtà adolescenziale contemporanea, artefice di nuovi modi del delinquere, che vanno indifferentemente dal lancio di sassi dal cavalcavia alla violenza negli stadi, dagli stupri di gruppo, alle ideologie sataniche ed agli omicidi”.”
Le chiediamo se queste risposte del sociologo le sembrano giustificate. A noi è sembrato che siano troppo inficiate di una vetero-sociologia troppo lontana dalla realtà delle cose, soprattutto quando parla di cercare ‘nell’imponderabile’, o quando devia parlando di ‘branco’ e di ‘ lancio di sassi dal cavalcavia’, o quando parla di ‘codici comportamentali’. Insomma a noi sembra che si continui a parlare di atti materiali e non di contenuti psichici i quali portano a questi ‘comportamenti’ delittuosi.
Lei, leggendo e ascoltando le cronache nei media, che idea si è fatta su questo parricidio? Ha mai trattato casi analoghi?
Partirei intanto dalla prima dichiarazione del sociologo in cui afferma che le ragioni di un gesto così efferato andrebbero cercate “nell’imponderabile,” intendendo quindi che fatti di questo tipo sfuggono completamente ad ogni possibilità di comprensione. Diversamente, come psichiatra, penso che sia doveroso cercare di scoprire e approfondire le conoscenze sulla mente umana che ci permettano di capire fino in fondo, quali siano le motivazioni che possono spingere un ragazzo ad uccidere il padre.
Dalla lettura dei giornali emerge innanzitutto il comportamento lucido e determinato dei due ragazzi, che si sarebbero organizzati da prima, forniti di tutto l’occorrente per simulare una rapina e compiere l’omicidio; e in questo caso sono d’accordo con lo stesso sociologo che ha rintracciato in tale comportamento la “fredda premeditazione”. A mio avviso già lo stesso comportamento efferato, compiuto con lucidità e freddezza va considerato come un segno patognomonico di grave patologia mentale. Partendo dal presupposto che dietro ogni comportamento umano ci sia una mente che pensa, si può dedurre che in questo caso la mente del ragazzo si era ammalata, arrivando alla completa anaffettività, a quel vuoto interiore che fa perdere il rapporto con la realtà umana dell’altro, tanto da portare, come avete detto prima, alla conseguenza agghiacciante che uccidere il proprio padre corrisponde ad uccidere una mosca.
In questo fatto di cronaca l’ideazione malata del ragazzo sembra non essere neppure troppo latente anzi viene confermata dalle dichiarazioni dell’avvocato difensore riportate dopo l’interrogatorio del minore, per cui avrebbe ucciso il padre in quanto stanco delle violenze contro la madre e in lui ci sarebbe “l’idea dell’angelo vendicatore”; in questa ultima affermazione possiamo rintracciare quel pensiero che in psichiatria si definisce come delirio. Cioè sarebbe convinto di essere una creatura soprannaturale con il compito preciso di fare giustizia, per cui magari non ha nemmeno alcuna consapevolezza che il delitto commesso sia efferato e violento ma anzi lo considera in modo delirante come un’azione per il bene della famiglia.
Per quanto riguarda il coetaneo complice dell’omicidio mi orienterei sempre sul cercare le motivazioni nella malattia mentale e non su motivazioni sociali. Anche qui la complicità va ricercata nella mente del secondo ragazzo, che per accettare di partecipare ad un atto così efferato avrà condiviso la stessa idea delirante di compiere un atto di giustizia. Pertanto penso sia ingiustificato ritenere che il problema sia di tipo sociale, e che sia errato prendere questo fatto di cronaca ed estenderlo all’intera generazione di adolescenti. Sono rimasta sconcertata rispetto alla definizione del sociologo, della realtà adolescenziale contemporanea come greve e artefice di nuovi modi del delinquere per cui il problema starebbe nell’assenza di un codice di comportamento. Il problema, lo ripeto va ricercato nella malattia mentale delle singole persone coinvolte in un fatto così efferato, quindi in questo caso del ragazzo che ha compiuto l’omicidio, e del suo compagno complice dello stesso delitto.
Nella mia esperienza clinica mi sono capitati alcuni casi di pazienti che avevano commesso fatti efferati verso propri familiari e quello che colpisce, è la mancanza totale di un rimorso, di un senso di colpa anzi la colpa di solito è additata all’altro, un po’ come nel ragazzo di Nicotera per cui la colpa è del padre violento mentre lui avrebbe agito per fare un opera di bene.
Arresto di un parricida
Il paradigma della cosiddetta civiltà occidentale è senza dubbio ancora il patriarcato, il quale si fonda sull’identificazione del figlio con il padre, modello ricodificato da Sigmund Freud con ciò che la vulgata chiama ‘il complesso edipico’. Anche se ormai con la pubblicazioni de ‘Il libro nero della psicanalisi’ e ‘ Crépuscule d’une idole’ di Michel Onfray la leggenda di Freud fa acqua da tutte le parti, tanto da tentare un fantomatico tentativo di emigrazione in Cina, rimangono nella nostra cultura queste scorie di credenza freudiana che ha sempre legittimato uno status quo fondato su questa idea dell’identificazione. Tra l’altro Freud ha sempre coperto la verità sul mito edipico raccontandolo come meglio gli conveniva. Il ‘buon Sigmund’ ha sempre narrato di un Edipo parricida, violento e incestuoso, ma non ha mai detto la verità sul padre: Laio, portava su di sé il miasma della maledizione del padre di Crisippo, un giovane che egli aveva violentato, umiliato, e costretto al suicidio. Inoltre alla nascita di Edipo egli aveva tentato di ammazzarlo facendolo esporre fuori dalle mura della città, in modo che fosse sbranato dagli animali.
Edipo dopo la nascita viene fatto esporre dal padre Laio sul monte Citerone
Eppure Freud afferma nei suoi scritti che il motivo della rovina di Edipo sta nella non identificazione del figlio con il padre. Quindi Edipo si sarebbe dovuto identificare con un padre pederasta e assassino: e quindi, secondo il ‘pensiero’ freudiano, il dramma del quindicenne di Nicotera ha origine nella non identificazione con un padre violento che picchiava la madre.
Lei dottoressa che ne pensa di questa cultura che sembra in qualche modo ancora inquinata da questo ‘non pensiero freudiano’ e che, surrettiziamente, ripropone ancora le stesse dinamiche identificative?
Intanto va subito precisato che “ad onor del vero”, più che riferirsi ad Onfray bisogna tenere a mente che dagli anni ’60 una critica serrata al pensiero freudiano è stata condotta in Italia dal prof. Massimo Fagioli che, nel noto libro “Istinto di morte e conoscenza” e nei suoi numerosi altri scritti, oltre a smascherare le bugie sulla realtà umana che si leggevano nei libri di Freud, e su cui si basa la cultura occidentale, ha proposto un pensiero nuovo sulla realtà dell’uomo.
Secondo una certa parte della cultura che si è appoggiata alle idee di Freud, è necessario appunto un codice comportamentale, per frenare la violenza che sarebbe insita in ognuno di noi. Per cui, secondo questa cultura, in assenza di un codice etico e morale, saremmo tutti potenziali assassini.
Come ricordavate, secondo Freud, nell’uomo con lo sviluppo avverrebbe la costituzione dell’Ideale dell’Io o Super-Io, cioè di quella istanza che corrisponderebbe alla “voce della coscienza”, alla censura morale. Tale istanza si formerebbe, come scrive ne “L’Io e l’Es” (1923): dalla “prima e più importante identificazione dell’individuo, quella col padre della propria personale preistoria” e “mediante la costituzione di tale ideale, l’Io è riuscito a padroneggiare il complesso edipico”. Complesso edipico di cui parla ne ”L’interpretazione dei sogni” (1899) scrivendo: “(…) a noi tutti era dato in sorte di rivolgere il primo impulso sessuale alla madre, il primo odio e il primo desiderio di violenza contro il padre (…). Il re Edipo, che ha ucciso suo padre Laio e sposato sua madre Giocasta, è soltanto l’appagamento di un desiderio della nostra infanzia”.
Secondo questa cultura freudiana, il ragazzo di Nicotera come ognuno di noi, essendo portatore del complesso di Edipo, sarebbe istintivamente portato ad essere un parricida; quello che sarebbe mancato al ragazzo sarebbe stato appunto un codice morale, che si formerebbe se uno si identifica con il proprio padre. Paradossalmente, dal fatto di cronaca in realtà mi sembra che questo ragazzo si sia identificato eccome con il padre, divenendo esattamente uguale a lui, agendo la stessa violenza, se non più grave, contro un altro essere umano. Semmai quello che questo ragazzo non è riuscito a rifiutare è proprio la realtà umana violenta del padre.
Pederastia in Grecia
Che fare per sfuggire sia all’identificazione con realtà umane fallite, sia alla ribellione rabbiosa e omicida? C’è una terza via per raggiungere una propria identità umana originale?
Partirei dalla seconda domanda per dire che una propria identità umana originale sana, irrazionale, ricca di immagini ed affetti, ce l’abbiamo tutti ed emerge al momento della nascita. Questo è il pensiero nuovo sulla realtà umana che il Prof. Massimo Fagioli propone appunto in “Istinto di morte e conoscenza” e che ripropone ogni settimana nel settimanale “Left”. Questo pensiero si oppone completamente alla cultura di matrice freudiana e religiosa di cui abbiamo parlato prima, secondo cui in realtà in ognuno di noi c’è un animale violento e aggressivo che va tenuto al guinzaglio con precetti morali o codici di comportamento.
L’uomo nasce sano, senza alcuna dimensione aggressiva verso gli altri essere umani da tenere a bada, ma al contrario con una dimensione di amore-interesse verso l’altro. Quando accadono fatti di cronaca di questo tipo, non sono venuti a mancare i codici di comportamento ma in realtà si è persa l’identità umana originaria della nascita, per una malattia che va rintracciata nelle dinamiche di rapporto con la madre dei primi anni di vita. L’identificazione con uno dei propri genitori, tanto auspicata da Freud, si ha proprio nel momento in cui ci si ammala e si perde la propria identità e si ruba poi quella dell’altro.
Per rispondere poi all’altra domanda direi che per sfuggire a queste dinamiche patologiche, bisogna saperle innanzitutto riconoscere e dargli il proprio nome, quindi parlare di malattia mentale e non di problematiche sociali. E questo è fondamentale a livello culturale, anche per un discorso di prevenzione, per permettere di riconoscere e quindi di intervenire il prima possibile quando ancora la malattia ha un carattere sfumato o addirittura latente.
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11 febbraio 2011
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