–di Rita de Petra
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Note a margine sulla figura di Dioniso
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Cadmo a Tiresia:
Dove dobbiamo andare ora a danzare?
Dove fermare il nostro piede e scuotere
Il capo bianco? Fammi tu da guida
E da maestro, Tiresia, tu vecchio
A me vecchio! Sai tutto, hai la sapienza!
Ché notte e giorno non sarò mai stanco
Di battere la terra col mio tirso.
Io ho dimenticato di essere vecchio
E il mio cuore ne gode.
Euripide, Baccanti, vv. 184-189.
Presto, presto, adornate i miei capelli di edera
Presto, che qualcuno mi porga un tirso, che io
Possa battere la terra danzando.
Presto, presto, i miei piedi fremono
Per riprendere le danze gioiose.
Come il vecchio Cadmo, insieme a Tiresia, dimentico dei suoi anni vuole unirsi alle Baccanti e danzare, danzare, (vedi articoli su I giorni e le notti) battendo il tirso e scuotendo il capo canuto, senza mai smettere ed aprendo il suo cuore alla gioia, anch’io, tarantolata, sono impazzita e voglio riprendere le danze, riaprire il discorso su Le Baccanti, tirata per i capelli dalla simpaticissima reazione di Gian Carlo Zanon alle mie petulanti puntualizzazioni sul suo articolo.
Le Baccanti, sono un’opera assolutamente singolare nel panorama tragico, di cui chiude la parabola storica. Il teatro tragico si chiude con quest’opera tutta dedicata al dio da cui Euripide ha tratto origine e ispirazione. Metafora assoluta della tragedia, il grande poeta la scrisse alla corte del re Achelao tra il 407 e il 406, quasi ottantenne, poco prima di morire, e fu portata in scena da Euripide il giovane nel 403: l’opera valse al grande poeta tragico una vittoria postuma.
Il protagonista qui è il coro, anzi i due cori. Sembra che Euripide utilizzi quest’opera per parlare di Dioniso, dandoci la sua versione dei vari miti sulla nascita, le disavventure e l’avvento di questa divinità. Il tragediografo ha voluto mettere ordine nella miriade di miti e forse rivelarci qualcosa dei Misteri dionisiaci … direi che lo ha fatto con grande crudezza.
Ma Dioniso chi è, cosa rappresenta? Forse l’irrazionale così come possiamo intenderlo noi oggi? Qual è il mistero della sua duplicità, fonte di ogni manifestazione artistica e creativa e origine, quando si ammala, della pazzia più violenta e distruttiva? Aspetti che effettivamente ritroviamo in questo dio a cui si deve l’invenzione più alta della cultura greca: il teatro, ma che è anche il dio che genera la pazzia e che, omeopaticamente1, la cura. Ripensando, in generale, alla cultura greca, e in particolare all’arte, sono portata a concludere che tenesse lontano da sé, tutto ciò che era fuori dal mondo razionale, governato dalla coscienza, ancor prima dell’avvento faticoso della filosofia alla quale, di solito, tale razionalizzazione viene in toto addebitata. Penso alla pittura vascolare dell’VIII e VII secolo, quella che segue il proto geometrico ed il geometrico stesso, in cui la figura umana appare come triangolo e rettangolo, che da una fissità iniziale riuscirà ad irrompere con grande libertà sulla scena. Mi riferisco a quella detta orientalizzante, che assumerà caratteri diversificati in Attica, nelle Cicladi o a Creta, ma la cui cifra comune è l’horror vacui ed in cui le figure animali, disposte su fasce ben distanziate, vengono inframmezzate da motivi floreali: vedi l’Olpe corinzia del museo del Louvre, non voglio qui ripetere l’esempio solito della scultura che diventerà pura scienza delle proporzioni con Mirone e Policleto.
Nella stessa misura la poesia viene ingabbiata in molteplici e complessi versi, riconducibili a quantità matematico-musicali, da Omero e forse ancor prima. Ho portato ad esempio della razionalizzazione il mondo dell’arte, perché dovrebbe essere il campo della fantasia e della creatività e che pur ricadendo sotto il dominio della razionalità ha bisogno dell’intervento divino, come a dire che l’arte e la creatività appartengono al dio.
Ma perché l’horror vacui? Cosa può venirci di male da un piccolo spazio vuoto? Quale fantasma va ed evocare? E soprattutto perché in questo preciso momento storico: VII secolo A.C.
Se la razionalità ci rende umani, il vuoto va a rappresentare la porta di accesso che permette alle pulsioni irrazionali di invadere il mondo della luce, della razionalità apollinea.
I Greci esorcizzavano e temevano questa dimensione irrazionale perché ne conoscevano le manifestazioni patologiche di grave violenza. Vasta è la letteratura sugli episodi di pazzia, sia singoli che collettivi, così come sappiamo che la medicina, fin dai suoi esordi, con Ippocrate si occupa della malattia mentale, tema fondamentale di tutto il teatro tragico ed occasionalmente anche di quello comico.2
Di nuovo Le Baccanti
La colpa della casa di Cadmo, che tutta la sua progenie dovrà pagare, consiste nel non aver voluto credere al connubio mostruoso tra l’umano e il divino. Dubbio, malafede, strumentalizzazione invidiosa? Dinamiche che si movimentano di fronte ad una unione che genera un “mostro”: Dioniso, ovvero il figlio di dio.
Si, perché il nome di Dioniso, sulla cui etimologia si disquisisce da almeno due secoli, è attestato nelle tavolette in lineare B, nella forma Diwonusojo, “figlio di dio”, o meglio ancora di Zeus, e se vogliamo della luce, poiché alcuni studiosi sostengono che il termine dio indica il sole, la luce che crea la vita, che confermerebbe anche la versione che Dioniso nasce, la prima volta, quando Semele viene folgorata dalla potenza del suo sposo divino, dalla folgore.
Diwonusojo, “figlio di dio (di Zeus)” in lineare B
Per tornare all’evidenza archeologica, deduciamo che questa divinità era già presente presso i micenei di Creta e se accettiamo la sua origine orientale non possiamo pensare altro che il suo culto sia stato introdotto da una delle migrazioni del secondo millennio dell’era antica, sempre secondo l’ipotesi che non si tratti di una divinità autoctona, ma che giunga dall’oriente, dalla Tracia, in ogni caso dall’esterno, come troviamo affermato ripetutamente nella tradizione religiosa e cultuale greca, che avverte l’estraneità dei suoi riti.
La complessità della figura di Dioniso emerge dalla molteplicità dei miti sulla sua nascita e dalla pluralità degli appellativi: Bacco il virgulto, Zagreo3 il grande cacciatore, e poi Libero, Ctonio e Lisio, l’appellativo che nel contesto di questo discorso più ci interessa visto che significa “Colui che scioglie”, cioè risolve la follia dopo averla agita.
Ma anche altri appellativi attraggono la nostra attenzione: 4 Dendreus, Dendrites, Endendros, il dio albero, e anche Phleon, Phleus, Phloios, che indica la crescita della vegetazione, e ancora Kissos “edera”, Sykites “fico”, o altri epiteti che legano il dio a vari animali.
Appellativi che ci confermano che a Creta, dove abbiamo la prima attestazione del nome del dio, il culto di Dioniso era legato alla vegetazione; penso alle pitture che rappresentano uomini travestiti da asini e poi Dioniso accudito da più donne ci fa pensare al paredro circondato da dee.
I vari miti sulla nascita di Dioniso concordano nell’attribuirne la paternità a Zeus, mentre differenti sono le madri, le più importanti sono Semele e Persefone, che ci riconduce alla dea dei serpenti.
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Ancora Euripide:
Βρόμιον παῖδα θεὸν θεοῦ/ Διόνυσον κατάγουσαι.
Riconducete Dioniso, Bromio il dio figlio di dio.5
Chi era dunque Dioniso? Euripide conferma l’interpretazione del nome, data precedentemente, e che in età classica, ad Atene si celebrava un rituale di καταγṓγια o “Ritorno di Dioniso”, festa originaria della Ionia e poi introdotta anche ad Atene, dove le feste6 in onore di questo dio erano non solo importanti, come le Lenee, le Antestrie e le Dionisie, ma anche tanto numerose da scandire la vita stessa della collettività.
Ma vediamo di comprendere il perché di un “Ritorno di Dioniso”. È un riferimento ad un allontanamento reale o rituale? Le evidenze archeologiche e letterarie ci dicono di una continuità di questo culto nel tempo, fin dall’età micenea dunque non possiamo che pensare ad un significato diverso ed il riferimento più immediato è nella rinascita della natura a primavera, a cui alludono anche le vicende della vita del dio, con le sue morti e rinascite.
Analizzando le cadenze, nell’arco dell’anno, delle feste dedicate a Dioniso, si evidenzia con chiarezza che esse vanno a sottolineare tutte le fasi della lavorazione dell’uva e ci testimonia come il culto di questa divinità sia legato alla vegetazione, in molte feste Dioniso è associato a Rea e Demetra, anch’esse dee della vegetazione, che ci rimandano ai culti cretesi della vegetazione ed al giovane dio accompagnato da divinità femminili.
“Bromio è l’esarca, che conduce il coro”7 e immediato viene il riferimento alla splendida rappresentazione dei mietitori su rhyton a globo, da Haghia Triada, che rappresenta un’allegra sfilata campagnola, di contadini armati di forconi, molto movimentata. Dai personaggi si distingue una figura armata di sistro, che canta a squarciagola ed un capo che guida il gruppo, vestito di una lunga casacca, mentre un contadino sta per cadere. È vero che il tema della mietitura è inequivocabile, ma nulla ci vieta di pensare ai cori bacchici ante litteram, anche per il senso caricaturale che anima la composizione.
Rhytón, ca 1550-1500 a.C.
Da Haghia Triada, steatite,
h ca 52 cm. Iraklion, Museo
Archeologico.
Non possiamo tacere dell’altro mito riguardante la nascita di Dioniso da Zeus e Persefone, figlia di Demetra e dello stesso Giove, così come ce lo racconta Károly Kerényi8, che ci narra come il dio, assunto l’aspetto di uno dei serpenti messi a guardia della figlia, nascosta in una grotta, l’abbia messa incinta di Dioniso. Questa nascita arricchisce il dio di simboli quali il serpente ed il toro, entrambi fortemente legati a Creta, dove troviamo la dea dei serpenti e presenti in tutti i palazzi le corna taurine, di origine medio orientale, come decorazioni.
Resta comunque da chiarire se si tratta di un culto autoctono, in ogni caso molto antico, e perché mai nella tradizione classica troviamo tutto il filone di un’introduzione tardiva dall’esterno della Grecia, di tipo orientale e tracio?
Attestazioni di questa lunga permanenza cultuale di Dioniso le troviamo sia nella letteratura che nell’arte9. Troviamo anche testimonianze della sua centralità sia nella vita pubblica che in quella religiosa.
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Rhytón, particolare del corteo di mietitori.
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Vorrei ricordare inoltre che l’ estromissione della divinità ctonia dall’Olimpo è avvenuta posteriormente, addirittura nell’800, per il disagio che il mondo accademico provava nei confronti della sessualità collegata ai riti dionisiaci ritenuta incompatibile con la sfera religiosa. Tesi abbastanza azzardata della Kerényi, ma non completamente da scartare se pensiamo alle reazioni che La nascita della tragedia di Nietzsche, suscitò presso i filologi tedeschi contemporanei.
Dioniso è presente in Omero10, dove bambino subisce un attacco da Licurgo e si salva nel mare, accolto da Teti; da notare l’appellativo di Folle che il poeta usa in riferimento al dio, in un contesto in cui si parla del timore riverenziale da portare agli dei!
È comunque innegabile che questa divinità subisca attacchi continui, ancor prima della sua nascita, da bambino e poi fanciullo, come vediamo ne L’Inno omerico VII a Dioniso11: in questo mito, adolescente dalle belle chiome scure ondeggianti, viene fatto prigioniero dai pirati tirreni, che vorrebbero chiedere un lauto riscatto, ma il giovane Dioniso opera numerosi prodigi ed i pirati pagano a caro prezzo il rapimento.
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Dioniso e le donne
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Sono soprattutto le donne a ribellarsi a questa divinità12, quelle di Tebe, della Beozia e di Corinto. L’unica donna con cui ha avuto un rapporto positivo è Arianna, ma anche lei dovrà morire.
Prima di analizzare il conflittuale rapporto con le donne, vorrei concludere l’analisi della persistenza dell’immagine dionisiaca nelle arti figurative. Abbiamo già visto il dio bambino e poi adolescente, giovane e piacente uomo ne Le Baccanti: forse, nelle tragedia di Euripide, l’accusa di Penteo è che egli sia un po’ troppo bello, quindi effeminato.
Nelle prime rappresentazioni cultuali13 appare come maschera di legno, appesa agli alberi e ornata di foglie, sempre barbuta, (le immagini in seguito verranno realizzate anche in terracotta e marmo). Immagini queste che segnano il passaggio alla figura umana e che ritroviamo nelle pitture vascolari del V secolo con donne che venerano una maschera.
Nella pittura attica arcaica Dioniso ha sempre barba, chitone e mantello, a volte pelle di pantera o nebride. Ricordiamo tra le opere più famose: il dipinto di Exechias con D. in barca con tralci di vite e grappoli; il vaso François datato al 570, opera di Kleitas e Ergotimos, in cui il dio partecipa alle nozze di Peleo e Teti ed è rappresentato frontalmente, mentre porta sulle spalle un’anfora, si suppone piena di vino.
Nel periodo arcaico la frontalità è una pura eccezione, avrà quindi un significato che possiamo comprendere se notiamo anche la centralità di questa figura, che forse sta a rappresentare la mediazione fra natura e cultura. Un dio quindi che viene rappresentato col suo vino come l’artefice del passaggio al vivere civile, al suo fianco c’è infatti Themis, dea dell’ordine cosmico. I satiri indicano come col vino l’uomo possa tornare alla selvatichezza dello stato primitivo ma in una situazione di controllo ed entro limiti ben definiti.
La frontalità mette in risalto anche lo sguardo ipnotico e soggiogante che insieme alla potenza magica della maschera vanno a caratterizzare un dio che induce all’estasi e alla sfrenatezza che è anche molle e viziato, lo vediamo sempre su un comodo sedile anche nel bosco più fitto.
La più antica rappresentazione plastica è una figura stante, di dimensioni mastodontiche e incompleta di Nasso, che insieme a Tebe è uno dei luoghi di culto più antichi del dio.
Interessante è l’immagine presente nel tesoro di Sifni a Delfi in una processione su carro con forma di battello che presenta una straordinaria somiglianza con un sigillo aureo cretese proveniente da Mochlos e che rappresenta un dio della vegetazione su una barca da cui spunta un albero e frutta.
Sigillo aureo da Mochlos, in Stilianos Alexiou, Minoan Civilization.
Subito dopo si distesero lungo il bordo superiore della vela
Tralci di vite, da una parte all’altra, e ne pendevano abbondanti
Grappoli; intorno all’albero si avviticchiava una nera edera,
ricca di fiori, su cui crescevano amabili frutti;
e tutti gli scalmi erano inghirlandati.
Exechias,Dioniso sulla nave circondato dai delfini
Fig. 1 – Bologna, Museo Civico 2, skyphos attico a f. n.
dalla tomba 109 del sepolcreto De Luca (da CVA, tav. 43.2, 4).
Dioniso a bordo di un carro navale si reca alla jerogamia, durante le Antesterie.
Un dio dai mille volti: ora efebo dalle lunghe chiome inanellate, ora bambino imberbe, ora uomo maturo barbato, giovane καλός cittadino o vecchio sileno, ubriaco e debosciato. Un uomo per tutte le stagioni.
Questo D. giovanile compare accanto al dio barbuto nel 430 a. c. ed è di chiara ispirazione letteraria, lo ritroviamo anche nella metopa del Partenone come divinità trionfante, riprodotta poi nell’altare di Zeus a Pergamo. Fidia, su sollecitazione di Pericle, gli dà nel Partenone questa nuova immagine, assimilandolo a Apollo, entrambi figli di Zeus, posti sul frontone di un tempio progettato e eretto per la pace (451 tregua con Sparta, 449 pace di Callia con la Persia).
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45. PARTENONE, FRONTONE EST, DIONISIO
Ma a che si deve la perdita della barba da parte di D.? Tale apparirà anche nella ceramica coeva;14 forse il ringiovanimento mira a distinguere questa nuova generazione di dei in modo che non venga confusa con Zeus. I nuovi dei devono assumere un atteggiamento rassicurante, che dia la certezza che non soppianteranno mai il potere paterno; anzi essi ne sono gli esecutori, o ancor meglio i garanti del sistema di potere vigente in Atene.
Non dimentichiamo il momento storico che sostiene questo cambiamento: la guerra del Peloponneso porterà al tracollo l’impero ateniese ed il grande sogno egemonico di Pericle. La stessa polis scomparirà inghiottita dall’impero macedone trascinando nella propria catastrofe l’identità greca ad essa legata e spingerà i cittadini delle varie polis, appartenute all’area ateniese, ad abbandonare la dimensione pubblica politica e a ripiegarsi nel privato, alla ricerca di una felicità tutta individuale.15
Nel tardo classicismo, il dio, apparirà sempre giovanile, circondato dal Thiaos non più intento a compiere azioni specifiche ma sempre in atteggiamento sereno, felice, in compagnia di divinità o di artisti. Con la sconfitta, nell’ellenismo ricompare il dio barbato.
Notiamo quindi come in una prima fase D. giovane compare solo nelle fonti letterarie e mai in quelle figurative, che a metà del V secolo, influenzate dalle prime finiscono per accogliere questa seconda immagine, senza dubbio molto più rassicurante della prima. Possiamo supporre che questa trasformazione indichi che il dio viene accettato e riconosciuto perché i suoi riti sono diventati meno cruenti?
Una costante nella rappresentazione del dio è la presenza delle donne, Dioniso lo “Zeus delle donne”, così a volte veniva definito: il suo θίασος era formato da almeno tre o quattro donne, a partire dalle nutrici, che lo accudirono in fasce con forme devozionali che nulla hanno a che fare col “furore” e la “mania”. Le donne, le baccanti ci sono sempre, anche nelle rappresentazioni dei ceramisti e lo accompagnano con le offerte votive, con le danze sfrenate, al ritmo di flauti, timpani e tamburelli: una musica che ingenera una possessione, una follia, che richiede una cura omeopatica a cui partecipa sempre il gruppo sociale e che non è mai un fatto individuale, un accadimento che riguarda il singolo.
Ma allora come spiegarci che D. è anche il dio a cui alcune donne si ribellano? Come è possibile l’opposizione ad una religione che le porta fuori casa,? Perché mai respingono la libertà che i baccanali dà loro con grave danno per se stesse?16
Così accade alle figlie di Minia, re di Orcomeno e alle figlie di Preto re di Tirinto.
Va considerato che queste donne sono tutte di stirpe regale, mentre la religione dionisiaca è schiettamente popolare e democratica:
uguale al ricco,
uguale al povero,
dà il piacere che toglie la pena.17
Delle figlie di Minia possiamo leggere in Ovidio,18 di come non vogliono accogliere le orge bacchiche continuando a negare che D. sia figlio di Zeus e, mentre le altre donne, giovani e anziane, ligie ai dettami del sacerdote partecipano ai riti, fornite di tutti i simboli del dio, nato dal fuoco ed unico ad avere due madri, “solo le figlie di Minia, entro casa, violando la festività con intempestivi lavori sacri a Minerva, cardano la lana o ne aggirano coi pollici gli stami o siedono intente al telaio e alle fatiche spronano le ancelle”19, oppresse dalla lentezza con cui il tempo scorre, raccontano storie, dopo aver definito “fole” i riti di Dioniso. E il prodigio le coglie mentre sono al lavoro vanificato dalla potenza di Bromio che trasforma in fronde e viticci le loro tele, che presto danno frutti e grappoli, mentre la casa “riverbera di rossastre fiamme” e loro perdono l’aspetto umano e vengono trasformate in pipistrelli, né uccelli, né topi, costrette a volare all’imbrunire, né di giorno né di notte.
Guidorizzi riporta anche la versione, meno poetica, di Antonino Liberale, in cui le figlie di Minia impazziscono, fanno a pezzi un bambino e si rifugiano sui monti dove brucano l’erba, liberate da Ermes che le trasforma in volatili.
Plutarco ci parla di un rituale ancora attivo ai suoi tempi, un rituale violento, con ogni probabilità Le Agrionia, ispirate all’episodio della figlie di Minia, in cui si verificò un grave fatto di sangue: un sacerdote ammazzò una fanciulla che rappresentava una miniade.
Cosa significava per le donne antiche partecipare a questi rituali? Guidorizzi vede nel culto estatico la ritualizzazione di comportamenti malati per conseguire la cura.
In Grecia le Baccanti non appartengono solo alla classe popolare, ma nei casi riportati sono nobili e principesse. Mentre l’estasi maschile è individuale, quella femminile è sempre collettiva!
Non dimentichiamo che uno degli appellativi di D. era γυναιμανής, “colui che spinge le donne alla follia”20, poiché nei rituali solo le donne manifestano la follia. Le Menadi agiscono in preda all’estasi, con gesti sconvolti e selvaggi, e ammazzano e squartano animali, che sbranano ululando e suonando nacchere e timpani.
Dioniso è dunque il folle che fa impazzire le donne, non si tratta di un disagio, di un momento di tristezza, no qui si parla di follia omicida, punita con una trasformazione in animale o con l’esilio, come Agave, tornata in sé.
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Dioniso con corno potorio e tirso.
Interno di Kylix attica a figure rosse da Cerveteri
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma
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Ma dov’è la cura?
Alcuni re si oppongono ai riti dionisiaci come Penteo di Tebe e Licurgo, di Tracia, “l’uomo lupo” che insegue le nutrici come fossero vacche costringendo il dio infante a buttarsi in mare, dove viene salvato da Teti.
Ma perché tanta opposizione a questa divinità? Per gli antichi la spiegazione stava nel fatto che questi culti fossero stranieri. Scrive il Rohde: “I Greci, come forse presero dai Traci la figura e il culto di Ares e delle Muse, così tolsero da quelli anche il culto di Dioniso e lo fecero loro proprio. Le circostanze precise di quest’appropriazione sfuggono alle nostre ricerche: essa avvenne in un tempo che sta fuori d’ogni memoria storica”.
Questo studioso di fine ottocento, nella cui opera si avverte pesantemente l’influenza dell’amico Nietzsche e della sua “Nascita della tragedia”, ritiene istintiva “nei Greci, la ripugnanza verso culti basati sull’eccitazione e sul perdersi nelle sensazioni”. “La borghesia greca” non poteva accettare, senza combattere, feste notturne a cui avrebbero partecipato le loro donne, abbandonate le case e i lavori domestici.
Dioniso ci si presenta veramente come il dio delle donne, anche di quelle che punisce perché non vogliono seguirlo, non amano diventare libere, almeno non nel modo in cui i rituali dionisiaci suggeriscono, ma a tale libertà preferiscono la condizione sottomessa, ma rassicurante, tra le mura domestiche.
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Nietzsche, il Dioniso moderno
Non è facile dare di questo personaggio–immagine divina così complesso una benché minima sintesi. Subito si presentano altri miti, altri significati, altri studi, ma vale la pena fare un discorso a parte per l’interpretazione proposta da Nietzsche, considerando non solo La Nascita della Tragedia, ma dando anche uno sguardo attento a tutte le sue opere giovanili ed al successivo sviluppo teorico filosofico.
Credo che molti di noi continuano ad essere prigionieri delle reminiscenze liceali, quando ci poniamo come pubblico, che legge o che osserva, la produzione tragica greca, della teoria nietzschiana, o almeno delle sue semplificazioni o vulgate.
È facile trattare con una certa sufficienza Euripide e ritenere che sia un poeta tragico del tutto inferiore ai suoi predecessori (Sofocle era suo contemporaneo) o pensare stancamente che la tragedia muore perché questo stesso, suggestionato se non addirittura imbeccato da Socrate, abbia posto lo spettatore sulla scena, aprendo in qualche modo la strada al dramma borghese, o ancor meglio tacciarlo di misoginia, destino che lo accomuna a molti poeti, dei quali ho vergogna a fare i nomi, ma penso soprattutto al grande Pavese.
Senza nulla togliere alla ricerca geniale di questo filosofo, oggi sarebbe necessaria una revisione puntuale della sua teorizzazione filosofica così come di tutta le teorie che l’ottocento tedesco ha prodotto sulla cultura greca; io qui posso fare solo qualche piccolo cenno.
Vorrei prima di tutto rilevare quanto le teorie del Rohde, dalle cui analisi non si può prescindere volendo affrontare un discorso su Dioniso, siano debitrici a N.; la loro amicizia è infatti testimoniata dagli scambi epistolari a partire dagli anni sessanta.
Altro punto che non viene mai messo in evidenza è quanto N. debba la sua preparazione culturale agli autori contemporanei e quanto invece sia scarsa la sua conoscenza della filosofia antica e medievale, a livello filologico da sempre è ben nota la stroncatura da parte di Wilamowitz Moellendorf, forse, ci permettiamo di dire, non del tutto a ragione.
Carlo Gentili in un’opera dedicata a Nietzsche, ci dà la possibilità di ricostruire puntualmente gli interessi ed i pensieri del giovane pensatore, ancor prima della GT (Die Geburt der Tragödie) e di vedere come la sua ricerca sul mito germanico e greco inizi fin dall’adolescenza, già sotto l’influenza wagneriana. 21
Allievo a Pforta, centro principale della formazione della classe dirigente prussiana, si dedica allo studio di Prometeo, in cui vede il ribelle al potere degli dei, e che va a costituire il primo nucleo del futuro Ubermensch. Per lui, sulle tracce di Hölderlin, “Ritrovare la Grecia significa al tempo stesso ritrovare la Germania autentica22 […] fondamento … della critica delle Inattuali”23.
Nel 1870 iniziano i suoi corsi a Basilea, sull’Edipo re di Sofocle, testo che anticipa ciò che verrà compiutamente espresso nella GT ed in cui pone la nascita della tragedia nella “lirica dionisiaca”, musicale in senso puro e che “porta la massa all’eccitazione estatica”24.
Siamo di fronte alla prima descrizione dell’eccitazione dionisiaca, come oblio dell’individualità, unità della natura, che supera il principium individuazionis, musica popolare in netta contrapposizione con l’individuo. (Qui, ovviamente prevale l’influenza schopenhaueriana).
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Quindi di che unità parliamo?
Massimo Fagioli: “L’uno originario non è l’inconscio in rapporto con l’altro essere umano, e il narcisismo onnipotente del neonato che non ha nessun rapporto col mondo, è quello di Freud. Il narcisismo che sarebbe questa repressione di libido è che invece è repressione dell’affettività che non è la verità della nascita umana è la verità dello schizofrenico”.25
Per Schopenhauer questo principio corrispondeva alla possibilità di passare dall’unità alla molteplicità: “Poiché soltanto in virtù dello spazio e del tempo ciò che è simile ed uno nell’essenza e nel concetto ci appare come diverso e come multiplo”, la volontà, che incarna l’unità si manifesta come molteplicità.
Per N. l’unità viene di nuovo ricomposta nella massima espressione artistica greca: la tragedia che può realizzarsi solo per avvenuta conciliazione di dionisiaco e apollineo.
Il dionisiaco, come condizione – N. lo desume da studiosi a lui vicini, come Müller e Bernays – per la catarsi aristotelica. Dal primo Dioniso viene visto come un dio in cui si manifesta il ciclo vegetativo della natura, con tante somiglianze con le religioni dell’Asia Minore, che tanto ha influenzato la formazione della nazione greca, con i suoi effetti sull’arte e la poesia. Tratto comune è un “violento eccitamento dell’animo […] una sfrenatezza nel piacere e nel dolore”. Müller collega anche il culto di D. con la nascita della tragedia e giunge ad affermare che l’elemento originario è costituito dal coro, su base ditirambica. Il Müller, a sostegno della sua tesi, cita passi aristotelici della Poetica e passi di Erodoto, tutti temi ripresi da N. nella GT in cui Dioniso è l’unico eroe presente sulla scena, gli altri personaggi non sono altro che maschere del dio.
N. riprende questa tesi e la sviluppa facendo del dio sofferente, l’Uno irretito nella molteplicità, che vive su se stesso i dolori dell’individuazione.
Da Bernays il nostro riprende i concetti aristotelici di “Compassione” e “Terrore”26, che per questo studioso costituiscono “le due porte spalancate attraverso le quali il mondo esterno penetra nella personalità umana e l’insopprimibile slancio dell’elemento patetico dell’animo […] si precipita fuori per soffrire con gli uomini che nutrono le stesse sensazioni.”27.
Aristotele interviene molto dopo con la dottrina della catarsi, per Bernays un processo patologico simile ai riti di purificazione misterica, che il tragediografo greco trasferisce al teatro.
Argomenti ripresi e discussi da York von Wartenburg, nel 1866, in un concorso pubblico.
York definisce lo “stato estatico” come un “perdersi nel dominio delle potenze della natura” ottenuto “attraverso l’eccitazione e l’intensificazione degli effetti del dolore e del piacere”.
Dioniso λύσιος, il Liberatore, attraverso sensazioni forti, dolore e gioia, e quindi l’estasi, “unità superiore di piacere e dolore”, trasferiva l’anima fuori di sé, provocando la rottura del principium individuazionis.
Nietzsche rifiuta la posizione dello stagirita perché ha cercato l’effetto della tragedia al di fuori della tragedia stessa, fuori della dimensione estetica. Per lui non è accettabile né la posizione medico-patologica della catarsi (Bernays), né quella etica (Lessing, traduce il termine katharsis con Reinigung, “purificazione”: “trasformazione delle passioni in disposizioni virtuose”) e difende la tesi di Goethe che lamenta che Aristotele, costruito l’oggetto, la tragedia, pensa “all’effetto prodotto sullo spettatore”, privilegiando l’interpretazione estetica. N. tampoco può accettare, come sostiene in un ‘annotazione del 1875, che “la necessità della scarica, della κάϑαρσις, è una legge fondamentale della natura greca. Accumulo e scarica a intervalli di tempo. Forse spiegare così la tragedia?”28.
Come dargli torto? È pur vero che non ci fosse alcuna chiarezza, all’epoca, su ciò che si intende per Istinto; per indicare il quale N. usa il termine Triebe 29, e parla di due “istinti artistici”? apollineo e dionisiaco, corrispondenti al sogno ed all’ebrezza.
Apollo è dunque il dio che presiede all’attività onirica.Da lui derivano, come dice Lucrezio, le immagini, splendide e perfette, di esseri sovrumani, che l’artista trasforma nelle figure degli dei.
“Nel sogno ogni uomo è perfetto artista”30, presupposto dell’arte figurativa e di buona parte della poesia. Certo dice N. si è ben consapevoli che il mondo del sogno sia un’apparenza, ma “l’uomo filosofico ha il presentimento che anche dietro la realtà nella quale viviamo e siamo se ne nasconda un’altra tutta diversa, in modo che anche questa nostra realtà sia quindi un’apparenza”31.
Anche qui si legge una chiara influenza schopenhaueriana: “Noi abbiamo dei sogni; non potrebbe la vita essere tutta un sogno? In termini più precisi: c’è un criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà?”.32
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Diversi interrogativi ci hanno, da sempre, posto queste posizioni nietzschiane e le risposte le abbiamo trovate nell’intervento di Massimo Fagioli in un dibattito su “Dioniso, le Donne, i Barbari.”33
Massimo Fagioli: “Il sintomo della malattia (di Nietzsche) sta proprio nell’ebbrezza, questo mi confonde il baccanale con l’alcool, con quello che può essere la separazione dalla realtà dell’artista che lascia affiorare l’inconscio, e fa immagini che sembrano oniriche ma che non sono oniriche perché ovviamente non dorme. Lui questa distinzione non la fa e questo è gravissimo perché questa è la base dell’LSD di trovare l’inconscio mediante alcool, LSD, droghe. Quindi lì c’è un difetto originario, non riesce a cogliere questo lasciarsi andare all’inconscio senza l’alcool.”
Annalina Ferrante: “C’è sempre bisogno dell’apollineo per ricostituire…”
Massimo Fagioli: “Quello che fa l’artista, quello che riesce a separarsi dalla realtà a lasciarsi andare all’inconscio senza essere intossicato dall’alcool, anche se i cosiddetti artisti o mezzo artisti, che non so che cacchio…, lo fanno lo stesso, dopo se sono degli artisti o non sono degli artisti, non si sa, anche se tante volte c’è l’uno e c’è l’altro, è un artista ma paga, non è intero, ha una dimensione di identificazione, più o meno, con la madre, una dimensione di vuoto e quando nasce molto, molto, molto genio, probabilmente questa parte di fantasia, di identità, di uno originario, in quanto fantasia e creatività, si accompagna invece alla dimensione di vuoto, di rapporto con la madre che l’ha distrutto.
Tante volte io dico sempre che bisogna prendere l’uovo e vedere le fettine, quanto c’è di creativo e quanto c’è di negativo… negli uomini ci sono tutte le fettine, dall’una e dall’altra parte…
Questa mattina ho sentito la grande depressione di Tchaikovsky, nel ’70, poi nell’88 è riuscito fuori con la quinta, però dice che era arrivato a livello di malattia mentale grave.”
Note al testo:
[1] Giulio Giudorizzi, Ai confini dell’anima. I Greci e la follia, Raffaele Cortina Editore, 2010
[2] Gioia Roccioletti: Baccanti, streghe e sonnambule, La medicina della mente. Pag 127 e successive
[3] K. Kerényi. Gli dei e gli eroi della Grecia, pag 220
[4] Op. cit. pag 228
[5] Euripide, Baccanti, v 84
[6] La festa più antica è quella delle Antesterie o festa dei fiori, tra febbraio e marzo, occasione per l’apertura delle botti ed assaggiare il vino nuovo. In questa occasione si celebra la jerogamia tra Dioniso e la basilinna, moglie dell’arconte re. Il secondo giorno era quello dei boccali , con gare a base di gran bevute, il terzo giorno era il giorno dei morti, o delle πανσπερμία, ovvero di una torta offerta ai morti e costituita da tutti i semi cotti, con tutta la loro simbologia.
In queste feste erano i padroni a servire i loro servi, terminata la festa dicevano “fuori, le Antesterie sono finite”.
Le dionisie rurali si celebravano a dicembre e le grandi Dionisie a primavera, istituite da Pisistrato tra il 535 ed il 532, hanno valore più politico e culturale, per creare un evento in cui ci fosse una straordinaria partecipazione collettiva.
Le grandi dionisie si celebravano a primavera, quando ricominciava la navigazione, era quindi un’occasione panellenica ed erano caratterizzati dagli agoni tragici, e infine le Lenee, a febbraio con gli agoni comici e sempre legate alla lavorazione del vino (il ληνεὡν è il luogo del torchio).
Ancora: le Oscoforie, festa del tralcio, si svolgeva il 7 ottobre per celebrare il raccolto dell’uva, istituite da Teseo, tornato vittorioso da Creta, era anche un rito di passaggio dall’adolescenza all’età giovanile (eforia).
Consisteva in una gara di corsa con tralci di vite da Atene al Falero, cui partecipavano 20 giovani, due per tribù. Il nome deriva dal greco (τὰ) ὀσχοϕόρια, da ὄσχος «tralcio, pampino» e ϕέρω «portare”.
Le Agronia, “provocazione alla furia”,erano selvagge feste in onore di Bacco, le Baccanti, invase dal furore del dio, facevano a pezzi le bestie nelle quali s’imbattevano divorandone crude le carni. Si svolgevano ogni due anni a Orcomeno. Le donne fingevano di cercare Dioniso come se fosse fuggito e infine sedevano in cerchio dicendo che il dio aveva trovato rifugio presso le Muse. A questo punto un sacerdote del dio usciva dal tempio brandendo un’ascia e tentando di colpire le donne che fuggivano: se riusciva a ucciderne una, per il paese era la catastrofe. Si trattava di un rito mimico, ma Plutarco narra il caso del sacerdote Zoilo che lo aveva realmente attuato.
[7] Euripide, Baccanti, v 140
[8] K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, cap. XV, pag 211, 215.
[9] Cornelia Isler Kerényi, Donne di Dioniso: immagini antiche e interpretazioni moderne, sostiene che noi oggi conosciamo prevalentemente ciò che la cultura ateniese del VI e V secolo ha prodotto in proposito, non solo ad Atene, considerando che esercitava una forte egemonia culturale su tutte le altre città, in tutta l’Ellade. Selezione operata già in età alessandrina e romana e poi nell’800.
[10] Iliade, canto VI, vv 128-143
[11] Ovidio ne Le Metamorfosi, libroIII, vv 564-691 riprende il tema di questo Inno.
[12] Euripide, Baccanti, nostra fonte fondamentale.
[13] E. Homann-Wedeking, la voce Dioniso ne L’enciclopedia dell’arte antica.
[14] Ci siamo serviti dello studio attento e puntuale di Cornelia Isler-Kerényi La metamorfosi di Dioniso e l’inno omerico VII.
[15] Vegetti. L’etica degli antichi. Cap. VI. Pag 159.
[16] Giulio Giudorizzo, Ai confini dell’anima I Greci e la follia, pag. 203
[17] Euripide, Baccanti, vv 421-423
[18] Ovidio, Le metamorfosi, libro IV vv 1-54, 389-415.
[19] Ovidio, op. cit
.
[20] Eva C. Keuls, Il regno della fallocrazia, Il Saggiatore, 1988, pag. 380 e seg.
[21] Carlo Gentili. Nietzsche. Il Mulino. 2001, pag. 42 e succ.
[22] E. Faye: Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia: “La venerazione per l’essenza della Germania passa attraverso il culto di Hölderlin, che fu elevato, a partire da Norbert von Hellingrath, al rango di poeta e profeta del geheimes Deutschland. Pag 131
[23] Ibidem pag. 46
[24] Ibidem pag 56
[25] Dioniso, le Donne, i Barbari”. Tracce del diverso nella civiltà del Logos. Roma, Libreria Amore e Psiche, settembre 2010. Mawivideo
[26] Aristotele. La Poetica. 1449 b 27
[27] Bernays. Grundzüghe der verlorenen Abhandlung des Aristoteles über Wirkung der tragödie .
[28] Da Gentile, op. cit. nota 26, pag 63.
[29] F. Nietzsche, GT, Leipzing C.G. Naumann Verlag 1907, pagg 19, 20.
[30] F. N., La nascita della tragedia,Laterza. 2007. pag 22.
[31] Op. cit. pag 23
[32] [32] Arthur Schopenhauer, Il Mondo come volontà e rappresentazione. Mursia, To, pag.52
[33] Dioniso, le Donne, i Barbari”. Tracce del diverso nella civiltà del Logos. Roma, Libreria Amore e Psiche, settembre 2010. Mawivideo
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Articolo postato 1 settembre 2012