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Pubblichiamo la “Storia di Salvatore Giuliano” tratta dall’Enciclopedia del crimine pubblicata tra il ’74 e il ‘75 da Fabbri Editori.
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Il testo narra le vicende che portarono un contadino siciliano ad un ribellione omicida e suicida che sconvolse la regione siciliana per vari anni.
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La storia del bandito Salvatore Giuliano si intreccia con quella italiana degli anni che vanno dal ’43 al ’50. In quegli anni ci fu lo sbarco degli Americani in Sicilia, 9 e 10 luglio ‘43; un tentativo di insurrezione separatista per far diventare la Sicilia uno Stato indipendente; le rivolte dei contadini che volevano la terra dei nobili latifondisti; e soprattutto la ‘resurrezione’ della mafia siciliana che era rimasta tranquilla ad aspettare tempi migliori per quasi vent’anni.
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Tra le righe di questa drammatica vicenda – non dimentichiamo che fu Giuliano con i suoi uomini a compiere materialmente la strage di Portella della Ginestra – si vedono gli intrecci tra mafia e intelligence italiana e americana che hanno segnato la storia politica ed economica del mondo occidentale: dalla sbarco in Sicilia dell’esercito americano, all’omicidio di J.F. Kennedy, alle recente probabile trattativa Stato-Mafia di cui abbiamo parlato in un nostro recente articolo. http://www.igiornielenotti.it/?p=373
Gli altri articoli li trovate sotto la voce Enciclopedia del Crimine a sinistra nella colonna Argomenti
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Buona lettura
Emo Bertrandino
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La storia di SALVATORE GIULIANO
(seconda parte)
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Il separatismo
Durante quei quattro mesi, erano accaduti fatti d’ogni genere, sia in Sicilia sia nel resto d’Italia. Arrestato il 24 luglio, Mussolini era stato liberato il 10 settembre dai tedeschi. Intanto, il 3 settembre, il maresciallo Badoglio aveva firmato un armistizio con gli alleati. Il 13 ottobre, Badoglio aveva dichiarato ufficialmente guerra alla Germania. L’Italia era dunque tagliata in due. In Sicilia, la situazione era alquanto confusa. Inglesi e americani non sapevano dove sbattere la testa, né qual era la strategia migliore per salvaguardare i loro interessi presenti e futuri.
Quando i fascisti avevano abbandonato il campo, era sorto un groviglio di partiti politici tra i quali ci si raccapezzava a stento. Il più importante di questi partiti si prefiggeva un preciso obiettivo: il separatismo.
La maggior parte dei siciliani era favorevole all’autonomia. Il movimento separatista era nato da un vecchio sogno d’indipendenza, ancora all’epoca di Garibaldi, ottant’anni prima, sogno che né l’unità d’Italia, né il fascismo erano riusciti a infrangere completamente.
Nel 1944, la precaria situazione dell’Italia era un ulteriore motivo per i siciliani a volere la separazione, presentandosi ora le condizioni per attuarla.
Alcuni separatisti vedevano ancor più lontano i accarezzavano l’idea di diventare americani, di fare della Sicilia il 49o° Stato degli USA.
Gli americani erano al corrente di queste aspirazioni e, prima dello sbarco, avevano fatto di tutto per favorirle e incoraggiarle.
Ma dopo lo sbarco la situazione era molto diversa. L’Italia ufficiale, quella del re e del Papa, era un loro alleato. Essi non potevano sostenere aperta mente i separatisti. Nello stesso tempo, era impossibile agli americani abbandonare da un giorno all’altro i loro protetti. Fecero in modo, perciò, nell’attesa che la situazione si chiarificasse da sola, di mantenere lo statu quo.
Vennero fondati, in gran parte sotto la protezione degli alleati, un corpo di guerriglia chiamato EVIS (esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia) e il MIS (movimento indipendentista siciliano) fondato dal deputato Andrea Finocchiaro Aprile e dal figlio di un ex sindaco di Catania, il deputato Concetto Gallo. Entrambi erano valenti oratori e capipopolo.
Tra le loro fila militavano parecchi aristocratici. I più in vista erano il duca di Carcaci e il barone Stefano La Motta. Il MIS era strutturato come un partito: aveva il suo simbolo, le tre gambe (emblema della Trinacria), distribuiva volantini, organizzava riunioni, pubblicava un giornale,
L’Indipendenza siciliana, il cui scopo principale era di sparare a zero contro i suoi più acerrimi nemici: la monarchia, il comunismo e il clericalismo. Agli inizi del 1944, il MIS tese ufficialmente la mano alla mafia. In una riunione elettorale a Bagheria, Finocchiaro Aprile disse: “Se la mafia non esistesse, bisognerebbe inventarla. Io sono amico della mafia, benché mi proclami ufficialmente un oppositore del crimine e della violenza!”
La mafia, insomma, aderì al separatismo, ma, come scrisse Michele Pantaleone, “nel suo solito modo, contraddistinto da promesse mormorate, piuttosto che pronunciate ad alta voce, da gran pacche sulle spalle, da gesti di consenso, ma senza un impegno esplicito”.
Tuttavia, il tempo passava e non giocava a favore dei separatisti. Il 27 aprile 1945, Mussolini veniva arrestato dalla Resistenza italiana e giustiziato il giorno dopo.
In luglio, il governo di Badoglio dichiarò guerra al Giappone. L’Italia era più tagliata in due, ormai faceva sua parte come alleata ‘intera’. In questo caso, era sempre più difficile, per gli americani, continuare a sostenere, anche segretamente, il movimento separatista.
Così, intuendo che sarebbe stato ben presto abbandonato, il MIS pensò che la sua ultima possibilità stava nell’azione diretta, nella quale si lanciò il più rapidamente possibile. Messi con le spalle al muro, si pensava, gli americani sarebbero forse ritornati sulla loro decisione. Ma che tattica bisognava adottare? C’era bisogno di uomini pronti a combattere, bisognava ricorrere all’EVIS, l’armata dei volontari, cercando di rafforzarla il più possibile. Dove si potevano reclutare truppe fresche? È logico supporre che Finocchiaro Aprile e Gallo girarono la domanda agli specialisti, e cioè ai capimafia. Si pensò a Salvatore Giuliano.
Le sue idee politiche erano molto note, così come la sua audacia e il suo senso dell’onore erano una garanzia.
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Nascita di un capo
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Durante il 1945, Turiddu non aveva buttato via il suo tempo. Dotato di un vero senso del comando, si era messo ben presto alla testa degli uomini che lo circondavano.
Per il momento, però, la banda svolgeva un’attività molto limitata ed evitava il più possibile gli scontri a fuoco con i carabinieri. A volte, spinta dalla necessità, la banda Giuliano raggiungeva la pianura per taglieggiare qualche ricco proprietario terriero, al quale estorceva denaro e prodotti agricoli; già allora aveva preso l’abitudine di distribuire una parte del bottino ai contadini e ai pastori più poveri di Montelepre, il cui aiuto si faceva di giorno in giorno sempre più prezioso. Va da sé che questi attacchi contro le grandi proprietà, di cui la mafia era spesso protettrice ufficiale, si concludevano con qualche piccolo scontro con essa. Giuliano non temeva questi scontri.
In altri tempi la mafia avrebbe reagito molto più severamente, ma essa non si era ancora organizzata bene nelle campagne, per cui preferiva aspettare.
Giuliano era dunque conosciuto dalla mafia e probabilmente da don Calogero Vizzini, il quale, benché il giovane bandito si fosse misurato con i suoi picciotti, ben presto aveva capito che Salvatore poteva venirgli utile. Si dice che fu proprio don Calogero a parlare per la prima volta di Salvatore ai leaders separatisti. In ogni caso, don Calogero non fu mai presente agli incontri dei separatisti con il giovane ribelle. Il primo incontro ebbe luogo sul colle Rigano, non lontano dalla caserma dei carabinieri di Bellolampo, nella fattoria dei fratelli Genovese (che ben presto entreranno a far parte della banda Giuliano).
Finocchiaro Aprile e Gallo erano presenti. Si erano scomodati perché volevano valutare di persona quel giovanotto di cui avevano sentito parlare tanto bene.
Non vennero delusi. L’autorità di Turiddu, il suo carattere deciso, il suo odio feroce nei confronti dei carabinieri, il suo ardente patriottismo e la sua rapidità di decisione impressionarono favorevolmente i due leaders separatisti. Senza esporre a Salvatore il piano completo, Finocchiaro Aprile e Gallo gli proposero di unirsi alle file dell’EVIS, con il titolo di colonnello. Queste parole non convinsero Giuliano. Egli domandò assicurazioni più serie. “Se non riusciremo a vincere – disse Gallo, con tono di profonda serietà – sarete eletto capo della polizia e, in seguito, forse, ministro della Giustizia”
In questo modo, Gallo aveva gettato parecchio fumo negli occhi di quel contadino.
Salvatore Giuliano reagì con molta abilità e disse che doveva consultarsi con i suoi amici, prima di poter dare una risposta. Il secondo abboccamento ebbe luogo a Pontesagana, a metà strada tra Montelepre e S. Giuseppe Jato. Questa volta, Finocchiaro Aprile e Gallo si erano fatti accompagnare da altre personalità separatiste, il duca Carcaci, il barone La Motta e Giuseppe Tasca, figlio di don Lucio. Dopo aver fatto le presentazioni, Gallo invitò Giuliano a dare la risposta.
Dal giorno del loro primo incontro, Giuliano aveva avuto il tempo di informarsi sulle attività del MIS e sugli effetti vi dell’EVIS. Probabilmente, aveva anche avuto contatti con i responsabili della mafia, a Monreale oppure a Palermo. In ogni caso, Giuliano sapeva perfettamente Che cosa. voleva; ed espose le proprie condizioni.
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Le più importanti, almeno per lui, era no queste: essere amnistiato il più in fretta possibile, ottenere carta bianca nella scelta dei suoi uomini, avere denaro, per procurarsi armi, munizioni e uniformi per potersi preparare convenientemente. Lieti di cavarsela così a buon mercato, gli interlocutori di Giuliano si affrettarono a rassicurarlo che, per quanto riguardava le amnistia, non c’era alcun problema, e gli lasciarono anche piena autonomia per il reclutamento degli uomini. Circa il problema dei finanziamenti, Giuliano chiese dieci milioni. Non poco. Dopo una lunga discussione, venne pattuito di istituire un fondo di un milione di lire, con l’intesa che alle uniformi non doveva pensare Giuliano.
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In verità, solo la mafia, che non aveva inviato alcun rappresentante a quelle riunioni, ma che però le aveva organizzate, preparate e dirette stando dietro le quinte, ne conosceva esattamente la posta. La mafia non ignorava certo il valore che avevano le promesse fatte a Giuliano, né lo sporco compito che gli era riservato. Essa sapeva inoltre che il bandito non sarebbe mai stato amnistiato e che, per quanto riguardava le armi e i soldi, se la sarebbe dovuta cavare da solo andando a cercarli là dove si trovavano: dai carabinieri e dai ricchi.
Giuliano non era un cinico. Pensava che tra lui e coloro che gli avevano dimostrato tanta fiducia – come tra gli appartenenti al MIS e gli accoliti della mafia – ci fosse un impegno di collaborare lealmente. Era convinto, soprattutto, di servire una nobile causa, quella della Sicilia alleata con l’America. E non bisogna dimenticare che Salvatore Giuliano considerava l’America come la sua seconda patria.
Nell’attesa, Giuliano si era impegnato a mettere insieme una piccola armata, la migliore e la più efficace possibile. Mantenne la parola data. Se I’EVIS avesse avuto tra le sue fila parecchi ‘colonnelli’ dello stesso valore di Giuliano, forse sarebbe riuscita nei suoi intenti. Salvatore cominciò con il completare la sua piccola banda. Il reclutamento non si dimostrò difficile. La notizia della sua promozione si era velocemente diffusa, e i giovani affluivano con entusiasmo. Egli non li accolse tutti. Più che al numero, Salvatore guardava alla qualità. Voleva soprattutto uomini sui quali potesse contare ciecamente.
Preferiva quelli di cui conosceva già la famiglia. Per quanto riguardava i suoi parenti, cugini e zii costituivano il nocciolo del suo ‘stato maggiore’. Salvatore credeva moltissimo nel legame di sangue.
Tra parenti, il tradimento rappresentava un delitto talmente grave, che si poteva escludere a priori. O almeno, così Giuliano aveva imparato dai suoi, ed egli vi credette per tutta la vita.
Il suo stato maggiore era composto da una quindicina di uomini; tra gli altri, c’erano Cucchiara e Terranova, due noti capibanda, Candela e Badelamenti, i fratelli Genovese e i fratelli Cucinella, Pasquale Sciortino, suo futuro cognato. Tutti costoro avevano più o meno un passato da fuorilegge, e Salvatore poteva contare sulla loro esperienza, se non proprio sulla loro disciplina. C’erano poi alcuni individui isolati, che vivevano al margine: Vittorio Vitale, l’armaiolo, Di Lorenzo, un musicista che impartiva a Salvatore qualche lezione di chitarra, infine un certo Passatempo.
Quest’ultimo aveva la reputazione di essere l’intellettuale del gruppo, o almeno il più istruito. Erano tutti uomini rudi, a volte difficili da guidare, ma sui quali Giuliano poteva contare. Tuttavia, non fu tra essi che scelse il suo braccio destro e confidente. Per questo ruolo delicato, Giuliano aveva bisogno di una persona nella quale riporre cieca fiducia.
Per questo compito, scelse il cugino Gaspare Pisciotta, figlio di una sorella di sua madre. I due cugini erano cresciuti praticamente insieme. Salvatore voleva molto bene a Gaspare, bene come a un fratello, anzi, più che a un fratello. Un giorno si erano fatti un taglio sul polso, avevano mescolato il loro sangue e si erano giurati fedeltà eterna. Entrambi erano dei bei ragazzi ma non si assomigliavano affatto. Gaspare era più nervoso, più magro, più agile, ma anche più superficiale.
Era più bravo nel dissimulare, nell’adattarsi alle situazioni delicate, ma non era tutto d’un pezzo come Giuliano. Un testimone lo descrisse così: “Un bel ragazzo, curato fisicamente: aveva capelli folti e ricci, eccezionalmente lunghi, ciglia lunghissime e baffetti molto curati. Il taglio delle labbra era sensuale, ma anche un po’ crudele” Questo ritratto rivela qualcosa di femminile e di narcisistico nel carattere
di Gaspare Pisciotta. Il suo attaccamento a Salvatore era dettato da affetto, da ammirazione e da sottomissione. Gaspare sopporterà dal cugino ciò che mai avrebbe sopportato da qualsiasi altra persona: l’umiliazione. Un giorno, venuto a sapere che Gaspare aveva violentato una ragazza, Salvatore gli ordinò di spogliarsi nudo, lo legò al tronco di un albero e lo frustò a sangue.
Ma se Salvatore conosceva alla perfezione i punti deboli del fratello d’arme, non dubitò mai della sua fedeltà cieca. Tutti, pensava Salvatore, un giorno o l’altro avrebbero potuto anche tradirlo, tranne Maria e Gaspare. Si sbagliava solo a metà.
Alla fine dell’agosto 1945, Giuliano ricevette un messaggio del MIS, nel quale gli veniva comunicato che il gran giorno si avvicinava e che perciò doveva tenersi pronto. Salvatore rispose che non lo era, che sarebbe stato pronto solo di lì a tre o quattro mesi, e che sarebbe stata una pazzia tentare qualche azione prima di allora.
Ma il MIS, incalzato dai suoi membri più politicizzati, non tenne conto dell’avvertimento di Giuliano.
Gli effettivi dell’EVIS erano a quel tempo circa 5.000, secondo quanto si diceva, ma probabilmente la cifra era esagerata.
Questa ‘armata’ era divisa in due battaglioni: uno comandato da Concetto Gallo (successore di Canepa, ucciso tre mesi prima), il cui quartier generale era situato a San Mauro Caltagirone, nella provincia di Catania. Il secondo battaglione obbediva agli ordini di Giuliano ed era di stanza sulle montagne intorno a Montelepre.
Senza che, apparentemente, l’azione fosse stata concordata con Giuliano, Gallo, negli ultimi giorni di settembre 1945, diede il via alla sollevazione armata. Fu una sconfitta totale. Al primo scontro con i carabinieri e la polizia, gli uomini di Gallo scapparono sulle montagne, abbandonando il loro capo. Il governo italiano aspettava solo questa occasione per agire e farla finita, una volta per tutte, con il MIS. Il 3 ottobre, Finocchiaro Aprile fu arrestato a Messina e confinato nell’isola di Ponza dove, qualche settimana dopo, venne raggiunto da Gallo. Ormai dichiarato fuorilegge, al pari di ogni propaganda separatista, il MIS era stato privato dei suoi principali capi politici.
Giuliano era rimasto solo. Ma le sue truppe erano efficienti e ben armate; inoltre, prima di uscire di scena, Gallo aveva trasmesso a Giuliano i suoi poteri e lo aveva segnalato all’attenzione di tutti, dichiarandolo “eroe dell’indipendenza siciliana”.
Nascita di un eroe
La situazione era per lo meno strana. Il MIS si era sciolto, I’EVIS si era coperto di ridicolo, nessuno credeva più nella vittoria dei separatisti, e un oscuro bandito, che ancora non aveva mosso un dito, veniva proclamato “eroe”. Probabilmente, Giuliano stesso rimase sorpreso nel ricevere quel titolo che ancora non aveva meritato. Che fare? Rifiutarlo, come una decorazione senza troppo valore, oppure accettarlo e cercare di esserne degno?
Giuliano era libero di scegliere. Nulla lo obbligava più a rispettare gli accordi presi con un partito così miserabilmente naufragato.
Abbandonato a se stesso e senza quel prestigioso titolo di “eroe” Giuliano forse avrebbe potuto scegliere con più calma.
Ma la definizione di “eroe” aveva in sé una forza tale, emanava un fascino così profondo che egli non poté resistere ed accettò la sfida che gli era stata lanciata: dar nuova luce alla fiamma moribonda dell’indipendenza siciliana.
Salvatore Giuliano sorprese tutti, e per primi lo stesso Gallo e lo stesso Finocchiaro Aprile. Quando tutti ritenevano completamente distrutto I’EVIS, Giuliano sferrò la propria offensiva il 26 dicembre 1945. Con solo 80 uomini, fece una incursione nella caserma dei carabinieri di Bellolampo. L’attacco venne lanciato con rapidità e decisione. Dopo aver buttato giù le porte servendosi di esplosivo, Giuliano e i suoi uomini penetrarono nella caserma, la saccheggiarono e rubarono tutte le armi contenute nell’armeria. Da entrambe le parti le perdite umane furono minime. Tre giorni dopo, Giuliano ritentò la stessa operazione contro la caserma Grisi; il 3 gennaio 1946, toccò alla caserma di Pioppo; il 5 a quella di Borghetto; il 7, a quella di Montelepre; sempre il 7, Giuliano accettò di misurarsi con una piccola colonna blindata che le autorità avevano lanciato al suo insegui mento con il compito di distruggere lui e la sua ‘armata’.
Lo scontro ebbe luogo in cima al monte Oro, sopra Montelepre. Il terreno non si prestava minimamente all’impiego di automezzi. Giuliano, dopo aver piantato il vessillo separatista in cima al monte, si divertì a molestare gli avversari per qualche ora, poi, con il favore delle tenebre, sparì. Il giorno dopo, mentre tutti lo credevano a nord di Montelepre, Giuliano si era appostato a sud. In pieno centro di Partinico, attaccò una camionetta della polizia. Dopo quest’ultima impresa, per due settimane Giuliano non fece più parlare di sé. Ma, il 23 gennaio, la banda Giuliano assaltava il treno Palermo-Trapani e, senza ricorrere assolutamente alla violenza e alla brutalità, anzi, con la più grande cortesia e calma – come riferirono le stesse vittime – alleggerì i passeggeri di tutti i loro soldi e gioielli, secondo la migliore tradizione western.
Due giorni dopo, 25 gennaio, attaccò la prigione di Monreale; il 26, la stazione-radio di Uditore e un deposito militare; íl 27, la stazione-radio di Palermo; il 4 febbraio terrorizzava la regione di Camporeale; l’8, sulla strada Palermo-Montelepre distruggeva due camionette di carabinieri; l’11, ripeté con la corriera che faceva servizio tra Gibellina-Partanna-Trapani, l’impresa messa a segno il 23 gennaio con il treno Palermo-Trapani.
Solo sei settimane dopo aver iniziato l’azione di guerriglia, Giuliano poteva vantarsi di un seguito di successi, e tutti strepitosi. Il suo nome era celebre in Italia e anche fuori.A Roma il governo era inquieto. Il nuovo presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, chiese spiegazioni a Palermo. Il comandante dei carabinieri, generale Branca, rispose il 18 febbraio. Nel suo rapporto, tra l’altro scriveva: «Attiro l’attenzione sul fatto che il movimento separatista e la mafia hanno fatto causa comune e che i capi dell’EVIS sono da ricercare sempre di più tra i capi mafiosi…».
De Gasperi, che non condivideva troppo l’opinione del generale – Giuliano non si doveva alla mafia, bensì a Gallo e a Finocchiaro Aprile – incaricò il ministro dell’Interno, Romita, di trovare un’intesa con i due dirigenti politici del MIS, al fine di sbarazzarsi del bandito. I due confinati di Ponza non chiedevano di meglio che di vendersi l’anima in cambio della libertà, e soprattutto in cambio della possibilità di ritornare alla politica. Il primo a ottenere questi benefici fu Finocchiaro Aprile. Rimesso in libertà il 4 marzo, fece subito questa dichiarazione alla stampa: «Gli scopi e i doveri del movimento separatista sono stati travisati dagli avversari: i separatisti sono italiani e intendono rimanere tali». Lo stesso giorno, quasi in risposta, Giuliano attaccava l’ufficio postale di Palermo, distruggendolo completamente. Gallo si fece convincere con maggior fatica. Per punirlo, fu rimesso in libertà cinque mesi più tardi, il 16 agosto.
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Egli, tuttavia, era riuscito a strappare a Romita la promessa che il governo avrebbe accordato un’amnistia generale a tutti coloro che si erano arruolati tra le fila dell’EVIS. Tutti? Non proprio. Facevano eccezione i delinquenti per reati comuni, tra i quali c’era naturalmente Salvatore Giuliano.
Questi avvenimenti colpirono Giuliano meno della notizia che sua madre e le sue due sorelle erano state arrestate. Nulla lo poteva colpire di più, con il risultato di spingerlo ad agire con sempre maggior violenza. Giuliano si scatenò: gli attacchi contro le forze dell’ordine si fecero sempre più frequenti e sempre più sanguinosi.
A Palermo, si capì finalmente quali erano i sentimenti che spingevano il giovane fuorilegge a comportarsi in quel modo: la madre e le due sorelle furono rimesse in libertà nel giro di 23 giorni.
Il 10 maggio saliva sul trono d’Italia Umberto II che succedeva al padre. Il suo regno sarebbe durato solo tre settimane, ma in quel breve lasso di tempo venne presa una decisione importante: il 17 maggio, Umberto II accordava l’autonomia regionale alla Sicilia. Si trattava di un favore accordato ai separatisti, e nello stesso tempo la morte delle loro ambizioni.
Il potere vero restava a Roma. Secondo le sue inveterate abitudini, la mafia si limitò a prendere nota del fatto compiuto.
Giuliano non si comportò allo stesso modo. Bisognava pensare, però, che egli era l’unico perdente in tutta quella storia.
Tutti erano stati graziati, tranne lui. La sua prima reazione fu di continuare la lotta, anche a costo di rimanere isolato e senza appoggi, una lotta contro tutto e tutti. Per far comprendere bene che non aveva alcuna intenzione di arrendersi, fondò un proprio movimento di liberazione, il MASCA (movimento per l’annessione della Sicilia alla confederazione americana).
Intanto, in seguito al referendum del 2 giugno 1946 Umberto II perdeva il trono. Il regno d’Italia diventava la repubblica italiana.
Si aprì un periodo agitato: il Sud, a maggioranza monarchica, era scontento; i partiti si agitavano freneticamente, i politicanti mercanteggiavano spesso in maniera poco pulita; i comunisti lottavano sempre più accanitamente contro la mafia – la lotta aveva avuto inizio con una vera e propria dichiarazione di guerra, il 16 settembre 1944, quando il comunista Li Causi, nel corso di una riunione elettorale a Villalba, feudo di don Calogero Vizzini, era stato fatto segno a un colpo di fucile, ben presto seguito dall’assassinio di numerosi sindacalisti.
Malgrado tutti questi disordini, e forse proprio a causa di essi, il personaggio di Salvatore Giuliano apparì improvvisamente agli occhi dei siciliani sotto una luce diversa. La sua immagine assumeva una dimensione nuova.
Fino allora, ciò che veniva maggiormente apprezzato era il suo coraggio e i suoi successi contro le forze dell’ordine, così malviste dai siciliani. Tutti avevano riso quando Giuliano le aveva coperte di ridicolo, e tutti avevano applaudito all’assalto del treno di Palermo. Ma quelle manifestazioni di favore non avevano oltrepassato lo stadio di complicità epidermica e di indulgenza suscitata dall’ammirazione.
Nel ’46, invece, il sentimento popolare nei suoi confronti era molto più profondo. Si mescolava al rispetto e a una specie di riconoscenza, la riconoscenza dei poveri per chi, fra loro, è riuscito a incutere paura ai ricchi. Tutt’a un tratto, i siciliani, da una parte disorientati, scoprivano dall’altra di essere fieri di quel giovanotto che dava realtà ai loro sogni.
Senza saperlo lui stesso, Salvatore Giuliano stava passando dagli onori della cronaca alla ballata popolare, seguitissima in Sicilia, e questo poteva essere considerato il primo passo verso quell’alone di leggenda che lo avrebbe sempre seguito.
Nascita della leggenda
Da sempre, Giuliano aveva l’abitudine di firmare ogni sua impresa. Dovunque Giuliano era passato, venivano trovati, sui muri delle caserme, oppure appuntati al petto delle sue vittime, slogan separatisti, o frasi in cui venivano spiegate le ragioni che avevano spinto la banda Giuliano ad agire.
Tra i vecchi temi se ne aggiunse un altro: “Giuliano non ruba ai poveri”.
La prima volta che venne scoperto un tale motto, fu sul cadavere di un membro della stessa banda Giuliano, che – lo si venne a sapere più tardi – aveva rubato due botti di vino a un vecchio contadino la cui moglie era ammalata. In seguito, subirono la stessa sorte altri banditi. Giuliano si era eletto dunque a difensore ufficiale dei poveri. Non esitò nemmeno a giustiziare un commerciante di Montelepre, parente di uno dei suoi luogotenenti, Terranova, perché vendeva a credito, ma esigeva interessi così forti, che i suoi clienti potevano pagarlo solo vendendo i propri beni.
Dopo l’usuraio, fu la volta di un impiegato postale, sempre di Montelepre. Salvatore Abate aveva la pessima abitudine di rubare le lettere e i pacchi provenienti dagli Stati Uniti. Questi contenevano molto spesso del denaro, oppure generi alquanto rari, dalla vendita dei quali si poteva ottenere un buon compenso. Giuliano venne a saperlo ed emise subito la sua sentenza definitiva: “Io non tollererò mai l’ingiustizia; sono dalla sua parte, l’amo per se stessa.
Come altri banditi prima di lui – Mandrin, Cartouche – e come anche numerosi anarchici vissuti ai primi del Novecento, Giuliano aveva deciso che rubare ai ricchi per dare ai poveri era fare un servizio alla giustizia e, probabilmente anche farsi un buon nome. Si raccontava che un vecchietto,
il quale doveva venire cacciato da casa sua, trovò, una mattina, al suo risveglio una piccola fortuna sul comodino; anche un contadino, i cui raccolti erano andati distrutti, ricevette un regalo dello stesso genere. Ben presto, in tutta la Conca d’Oro, la piana di Palermo, i dintorni di Montelepre, fino a Castellammare del Golfo, questo genere di miracolo si moltiplicava sempre più spesso.
Tutti questi soldi, Giuliano doveva ben trovarli da qualche parte. Ma, se non esitava a sparare sui carabinieri, evitava qualsiasi spargimento di sangue nel procurarsi i fondi necessari alla sua opera di filantropo. Si accontentava di rapire, oppure di far rapire, i più ricchi proprietari terrieri dei dintorni, e di imporre un riscatto proporzionato alla loro ricchezza.
In questo lavoro, certamente, la mafia gli forniva un aiuto prezioso. È probabile, anzi, che fosse proprio la mafia a designare le vittime. Il ruolo che essa interpretava era, come sempre, duplice. Da una parte pretendeva denaro dai proprietari per difenderli, dall’altra una percentuale sulle somme che Giuliano ricava dai rapimenti- si è parlato del 10% – in cambio dei servigi che gli rendeva.
Nelle mani di Giuliano passarono diverse centinaia di milioni. Ma lui non teneva mai troppo per sé, e nemmeno la sua famiglia beneficiò delle sue elargizioni.
Mai si sparse la voce di un “tesoro di Giuliano”, e neppure ne parla la leggenda.
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