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di Gian Carlo Zanon
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Francesco Filippi, Cinquecento anni di rabbia – Rivolte e mezzi di comunicazione da Gutenberg a Capitol Hill.
Bollati Boringhieri
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«Chiunque può, deve, in questo caso, ammazzare, strozzare, trafiggere, in pubblico e in segreto, e, facendolo, pensare che non c’è niente di più velenoso, pericoloso e diabolico di un ribelle, proprio come se uccidesse un cane rabbioso: se non lo colpisci tu, allora ti colpisce lui, e con te l’intero paese» Martin Lutero, Contro i contadini che si sono raccolti in bande criminali e assassini, 1525
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Con questo testo tratto dal suo libello contro la rivolta dei contadini capitanata “dall’arcidiavolo di Mühlhausen” (Thomas Müntzer) Martin Lutero diede la propria benedizione al massacro di migliaia di contadini insorti contro l’aristocrazia feudale che ogni giorno toglieva loro un pezzo di quel poco che già avevano. Come paragone pensate a come il Jobs Act ha tolto i diritti acquisiti ai lavoratori renziano.
La vicenda storica trova echi anche nel romanzo Michael Kohlhaas, che Heinrich von Kleist scrisse nel 1808. Anche nel romanzo di Kleist Lutero è inflessibile con i contadini che si ribellano contro i soprusi dei nobili e degli ecclesiasti «Essi hanno provocato ribellione, hanno rapinato e saccheggiato con grande scelleratezza conventi e castelli che non appartenevano loro, meritandosi così senza alcun dubbio la morte del corpo e dell’anima … ». È molto probabile che Kleist conoscesse bene il pensiero reazionario di Lutero perché, nel romanzo, quando l’ex frate agostiniano incontra il cavallaio ribelle, il suo risentimento contro la sua dignità umana è palese: «A irritarlo era l’atteggiamento di sfida che quell’uomo singolare assumeva contro lo stato».
Martin Lutero, che si era ribellato alla chiesa di Roma, di fronte a Kohlhaas è insofferente perché egli è più ribelle di lui in quanto “pretende” di trattare da pari a pari sia con lui, che, nel suo delirio, crede di essere il rappresentante della verità giustizia divina, sia con il Duca di Sassonia.
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Filippi spiega molto bene le ragioni che portano Lutero a schierarsi col potere signorile con cui il frate agostiniano mantiene «posizioni concilianti» e quindi a schierarsi contro chi di fatto «è il suo principale rivale nella corsa alla costruzione di un nuovo tipo di Chiesa»: Thomas Müntzer. D’altronde i contadini si affidano a Müntzer perché: «Condannati dalla gerarchia ecclesiastica, scaricati e poi pubblicamente accusati dallo stesso Lutero, ai contadini non rimane altro da fare che accettare aiuto da chi lo offra».
Sia le 96 tesi di Lutero con cui nacque la Riforma protestante, sia «i fogli volanti che circolano nelle campagne» spingendo alla rivolta, sia i dodici articoli con i quali i ribelli chiedono ai rappresentanti della nobiltà feudale giustizia sociale, si avvalgono dell’invenzione di Gutenberg: la stampa a caratteri mobili. Innovazione tecnologica che permette di duplicare velocemente qualsiasi testo e che, in quei primi frangenti storici, è difficilmente imbrigliabile dal potere temporale e dalle istituzioni religiose. È grazie alla possibilità di stampare i testi rivoluzionari che sia la Riforma luterana che la ribellione dei contadini può avere luogo, in quanto già allora i contenuti di questi fogli volanti raggiungevano un numero considerevole di persone creando ciò che oggi chiamiamo “l’opinione pubblica”.
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Dalla stampa a caratteri mobili alle nuove tecnologie che oggi permettono a chiunque di comunicare il proprio pensiero, sono passati poco più di cinquecento anni. In questo lasso di tempo è cambiata enormemente la tecnologia, sono cambiati i mezzi di comunicazione, sono cambiati gli strumenti, ma, come sembra suggerire Francesco Filippi, le intenzionalità di chi utilizza questi mezzi, creati per comunicare, non sono cambiate. Nel senso che oggi, come allora, nei migliori dei casi, ogni persona che li utilizza lo fa per comunicare la propria visione del mondo; nel peggiore dei casi lo fa per propagandare qualsiasi cosa: dall’inutile oggetto da pubblicizzare, all’«orgoglio e pregiudizio bianco» che ha come conseguenza l’odio per i diversi, per i divergenti, per il “difforme” che si ribella a forme e modelli prestabiliti che tendono a uniformare e omogenizzare la società, come ad esempio il «vero modo di vivere americano».
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Un saggio sulla comunicazione questo che presenta una complessità tale da rendere difficile e forse anche inadeguata una recensione. Di questo suo lavoro ognuno, come sempre succede, prenderà ciò che più lo può interessare, ciò che gli apre altri spazi di ricerca.
A me, per esempio, ha interessato molto il concetto di rabbia la quale, secondo l’autore, sorgerebbe di fronte a sensazioni di smarrimento e di paura che scaturiscono di fronte al nuovo che avanza e quindi perturba. Realtà sociale che perturba di fronte alla quale l’individuo si arrocca nell’abitudine mentale, nel conosciuto. «Questo insieme di emozioni, a volte concomitanti , crea un senso di smarrimento da cui è possibile uscire in più modi. Uno di questi è la rabbia: un’emozione di base, comune a tutto il genere umano, derivante, secondo gli studi di psicologia, dall’istinto di difendersi e di sopravvivere. (…) insomma ci arrabbiamo quando le cose sembrano non andare come vorremmo che andassero».
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Su queste affermazioni proverei a fare dei distinguo: c’è una sottile ma essenziale differenza tra la rabbia dell’americano medio che teme di perdere i propri privilegi – privilegi che non concede a chi non appartiene alla propria categoria immaginaria – e la ribellione di chi, come scrive Albert Camus nel suo L’Homme révolté, dice No all’ennesimo sopruso e si ribella: «Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual è il contenuto di questo “no”? Significa, per esempio, “le cose hanno durato troppo”, “fin qui si, al di là no”, “vai troppo in là” e anche “c’è un limite oltre il quale non andrai”. Insomma, questo NO afferma l’esistenza di una frontiera.»
La ribellione di cui parla Camus sarebbe, a mio giudizio, la cornice entro la quale simbolicamente si inquadrerebbe la rivolta dei contadini del Sacro Romano Impero che «Nell’inverno tra il 1924 e il 1925 (…) si ribellarono alle angherie dei signori feudali (…)»
La ribellione dei contadini tedeschi parte da presupposti reali, e comprende la «Lotta per l’integrità di una parte del proprio essere.» (cit. Camus) non scissa da una lotta comune che Camus riassume in tre parole «Mi rivolto, dunque siamo».
Filippi parla diffusamente di questo sentirsi, da parte del ribelli cinquecenteschi, parte di un tutto. Il contadino germanico che si ribella all’ennesima angheria del nobile, sa di non essere il solo ad avvertire questa ingiustizia. Ingiustizia non più accettabile perché va a ledere, oltre alla possibilità di sopravvivenza, anche la propria identità umana. La ribellione dei contadini è – scrive Filippi – una «rivoluzione dell’uomo comune» ovvero di coloro che si riconoscono, grazie alla comunicazione a mezzo stampa, in questa rivoluzione: «uomini comuni e attraverso la rabbia identitaria essi accettano di morire gli uni per gli altri. (…) Sorge un gruppo di persone che è “comunità” animato da un sentimento comune (la rabbia) e che punta a obiettivi comuni (il ripristino della propria serenità)».
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La rabbia che invece contraddistingue i trumpiani americani nasce anche e soprattutto dallo sgretolarsi di un castello di carte, ovvero – per dirlo con le parole di Filippi – dalla caduta di una certezza illusoria creata da una narrazione ideologica fondamentalmente neoliberista, razzista, nazionalista.
Mentre la cifra identitaria di contadini tedeschi nasce «dal basso» ovvero: questo sentimento che avverto, che sento, lo avvertono e lo sentono anche gli altri uomini comuni, l’identità di appartenenza dei trumpiani viene dall’alto di un pensiero distorto, da una narrazione immaginifica della realtà, creata in modo funzionale dai WASP (Wite Anglo -Saxon Protestant), i quali sono riusciti, anche grazie alla fanfaluca della predestinazione luterana, fino agli albori del terzo millennio, a renderla reale. Una narrazione propagandistica identitaria ora amplificata dai nuovi mezzi di comunicazione come Internet e di conseguenza dai social.
Inoltre, e lo si può leggere nei «Dodici articoli» redatti dai rivoltosi tedeschi e inviati ai rappresentanti della nobiltà, la ribellione dei contadini di fatto ha come scopo principale la ripartizione della ricchezza. «Ciò che rimane si deve dividerlo tra i poveri del paese a seconda dei loro bisogni e secondo la decisione della comunità».
Invece, nelle confuse istanze dei seguaci di Trump, l’unica cosa chiara è il mantenimento dei privilegi – certificati dal «messaggio dominante» – dei WASP messo in pericolo dalla mutazione della popolazione che è sempre meno WASP ed è sempre più multietnica, multireligiosa e multiculturale. Il continuo richiamo dei trumpiani alla patria, a Dio e alla famiglia, il continuo ripetere “America first”, altro non è il voler rimarcare il primato della scala valoriale WASP su tutte le altre categorie di cittadini, ispanici, asiatici, afroamericani, eccetera. Lo stesso vale anche in Italia ovviamente. Questa è la rabbia odierna di chi si sentiva protetto e privilegiato confronto ai “diversi” e che teme di non essere più “la regina del reame”.
Sono due ribellioni e due “rabbie” ben diverse, con un ben diverso spessore umano e sociale che le identifica per ciò che sono in realtà.
Se non fosse così non ci sarebbe più nessun valore specificatamente umano riconoscibile. Scrive Camus «Se gli uomini non possono riferirsi a un valore comune, riconosciuto da tutti in ciascuno, allora l’uomo è incomprensibile all’uomo.»
La ribellione, pensava Camus è eticamente congrua quando non nasce solamente e necessariamente nell’oppresso, ma può nascere anche dallo spettacolo dell’oppressione di cui la vittima è un altro.
L’interesse per l’altro da sé può generare anche sdegno e rabbia di fronte ad eventi umanamente insostenibili in cui a soffrirne è anche un altro essere umano, e quindi certamente non è paragonabile al sentimento di chi si arrabbia perché i propri privilegi privati, di fatto asociali, vengono messi in dubbio dai “figli di un dio minore”.
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Ma a far la parte del leone in questo saggio è la comunicazione che ovviamente si lega al concetto di “umanità privata” in quanto ognuno nell’atto di comunicare è responsabile delle conseguenze delle sue parole: “… le parole sono aria del mattino. Divengono sogni. Se uno non li pesa e non li comprende, cadono come errore nel cuore e uccidono”. Scriveva il poeta tedesco Friedrich Hölderlin.
E questo vale da sempre. Se è vero che i mezzi di comunicazione nel corso di questi cinquecento anni sono mutati è anche vero che le intenzionalità politiche di chi comunica, nel bene e nel male, continuano a rappresentare la visione del mondo di chi rende pubblico il proprio pensiero. E questo vale anche per chi in un commento su face book esprime le proprie idee apparentemente apolitiche.
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Filippi dipana rendendo chiaro e intelligibile il mondo della comunicazione odierna la quale si basa sulla legittimazione dei «rapporti di forza all’interno della società continentale». Mondo della comunicazione ormai talmente intossicato che riesce a far cambiare la percezione stessa del cambiamento climatico di origine antropica alimentando così i dubbi sulla necessità di una svolta verde in economia.
«Siamo di fronte, come hanno affermato molti esperti di teoria cognitiva e di scienza della comunicazione, a un rapporto con l’informazione basato non tanto sulla necessità di costruirsi una propria visione del mondo attraverso la ricerca dei fatti, ma sulla volontà di corroborare la propria visione del mondo attraverso la ricerca di fatti che servono a confermarla. Non si tratta in generale di conoscere ed approfondire ma di ricercare sostegno a qualcosa che intimamente si è accettato come vero».
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E qui entra in campo ciò che Feuerbach ha definito “alienazione religiosa” ovvero quella dinamica inconscia che induce il pensiero a far di ciò che è ciò che non è, e di far di ciò che non è ciò che è. Possiamo notare ogni giorno come esistano delle bolle cognitive, dei scenari cognitivi di riferimento talmente radicati da diventare la cifra identitaria delle persone. Se questi scenari vengono messi in discussione immediatamente scatta il “non è, non è, non è” della negazione: il perturbante deve essere annullato attraverso conferme farlocche di altri individui che condividono gli stessi scenari cognitivi. Questi meccanismi mentali sono ben conosciuti dai maghi del web sempre pronti a catalizzare e a incanalare individui che non vogliono sapere della realtà ma vogliono che la realtà assecondi i loro pensiero su di essa. Se un utente «naviga per scovare le prove che il pianeta Terra è piatto non solo troverà altrettanto facilmente delle teorie che comprovino questa affermazione, perché caricate da utenti che si sono fatta la “loro idea” dell’astronomia, ma vedrà queste risposte messe idealmente alla pari con quelle fornite dai maggiori centri di ricerca mondiali sull’argomento. Tutto uguale perché tutto ugualmente vero e tutto ugualmente falso».
Come scrivevo nella premessa del mio saggio Alienazione religiosa – i buchi neri dell’essere e il vortice del nulla. «(…) la realtà umana di chi crede alle stimmate di Padre Pio, di chi crede al miracolo di San Gennaro, di chi crede a madonne vergini piangenti ecc. ecc., sembra essere costruita scientemente in modo da annullare un auspicabile spirito critico, (…)»
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Come conferma questo saggio, la nostra società occidentale – ma non solo la nostra – è formata da individui ad alto tasso di credenza e a basso tasso di pensiero critico. E questo milieu sociale in cui «ognuno pesca nel mercato dei racconti» ciò che più gli fa comodo, «dal proprio immaginario di riferimento», non può che generare una comunicazione che sostanzialmente conferma questi deliri. Uso la parola delirio perché questa definizione a mio giudizio ben si attaglia alla dinamica psicotica di chi sovrappone una propria idea delirante, in quanto non reale, alla realtà. Inutile dire che la rabbia esplode quando questi pensieri deliranti – “io sono più umano in quanto WASP” – vengono sconfermati dalla realtà destrutturando strutture mentali senza fondamenta. La rabbia da castrazione emerge quando il modello immaginifico si sgretola quando «una fetta di popolazione in gran parte bianca sente il rischio concreto di essere espulsa dall’American Dream». I WASP come i BLAC, (Bianchi Leghisti Anticomunisti Cattolici), non avendo gli strumenti psichici per integrare nel proprio scenario una realtà sociale mondiale in continuo cambiamento, anziché aprire gli occhi preferiscono farsi bendare da una comunicazione infame e infamante e attraversare il tempo ascoltando le Sirene che confermano e avvalorano le loro pretese suprematiste. In America «gli attuali equilibri demografici sono ulteriormente mutati: nel 2043, mantenendo gli attuali tassi di natalità e immigrazione, i bianchi non saranno più maggioranza nel paese». E questo accade anche in Italia ma WASP e BLAC continuano a raccontarsi e a narrarsi favole suprematiste.
La loro castrazione mentale diviene rabbia qualora un anello della catena che tiene incatenata la realtà vera cede. Lo abbiamo visto quattro anni fa a Capitol Hill a cui Filippi dedica un capitolo. «La rabbia accumulata dagli espulsi dal racconto pubblico dominate viene intercettata da chi ha interesse ad amalgamare questi espulsi e fare massa di manovra per la creazione di nuovi racconti» È esattamente così che sono nati fascismo e nazismo.
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Tutto ciò e molto altro potrete trovare nel saggio di Francesco Filippi in cui viene spiegata la realtà della comunicazione, da quella cartacea dei ribelli contro la nobiltà feudale, a quella contemporanea definita Post-truth Era ovvero, l’era della post verità.
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Castiglione delle Stiviere, 31 ottobre 2024