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di Gian Carlo Zanon
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Nel linguaggio comune le parole indigeno, autoctono, aborigeno hanno assunto ormai lo stesso significato: l’indigeno, l’autoctono, l’aborigeno è colui che vive nel luogo originario dei suoi avi. Etimologicamente il sostantivo aggettivante indigeno è formato da due parole:
in = dentro/interiore e geno derivato dal tema di gìgnere ‘generare’. Autoctono è composto da αὐτός/autos/stesso e da χϑών/terra. I due termini equivarrebbero, per il significato, ad aborigeno e vengono usati troppo spesso come sinonimi.
Loretta Emiri nel suo Romanzo indigenista sembra però prediligere la parola “indigeno”. Parola che, presa alla lettera, raffigura una entità “generata dentro”. Il rixi, questo «essere simbolico che vive una vita parallela a quella dell’uomo» – che l’autrice traduce con la locuzione “alter ego” – per gli Yanomami è una entità interiore che vive una vita parallela all’essere umano: nasce alla nascita della persona e muore, se ho ben capito, al momento della sua morte. È chiaro che, detto in questi termini, il rixi è quella realtà interna immateriale che universalmente è esistita e/o ancora esiste in tutte le culture: daímòn per la cultura greca, èlòhìm per quella ebraica, duende per l’andalusa, genius per quella romana, spirito per gli animisti, l’atai per i Melanesiani eccetera.* Per i monoteismi l’entità interiore ha altre caratteristiche, per esempio viene innestata nel feto dal divin demiurgo, e non muore alla morte del corpo.
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Ma Loretta Emiri ci dice qualcosa di più importante. Ci dice che per la cultura degli indios yanomami: «ogni individuo possiede un alter ego, vivendo vite parallele, le due entità mai s’incontreranno; la morte dell’alter ego provoca quella dell’uomo a cui è abbinato».
In altri termini per gli Yanomami se l’individuo lascia morire il suo rixi – che potremmo definire come la voce della propria realtà psichica inconscia – egli muore. Nella nostra società, in cui la scissione identitaria regna sovrana, perdendo la propria realtà interiore, l’individuo non muore. Magari vive come un morto una vita inutile ma non muore. Nella nostra società non accade che la perdita dell’identità umana causi la morte, mentre in una cultura animistica come quella degli Yanomami in cui «ogni essere vivente, compresi i vegetali, animali, cose, possiede uno spirito (…)» la morte del rixi (realtà interna/psiche) determina uno stato di crisi che può portare anche alla morte. Questo fenomeno, decodificato come “crisi della presenza”, è trattato dall’antropologo Ernesto de Martino nel suo saggio Il mondo magico
Loretta Emiri mi scuserà per questo lungo preambolo, ma pensando a lei non posso che pensare al suo daímòn, ovvero alla sua realtà interiore uscita indenne dal «paese delle ombre meschine». Così lei definisce amaramente questa nostra società in cui la meschinità intellettuale regna sovrana relegando i “resistenti” ai margini della cultura tanto dominante quanto meschina.
Lei si è salvata dalla “lebbra comune”. Lebbra comune che, senza vergogna, viene mostrata in ogni occasione dai giullari mediatici che mettono in bella vista i propri bubboni anaffettivi che rappresentano una carenza più o meno grave di umanità.
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Nei suoi racconti Loretta (mi permetto di chiamarla per nome data la nostra frequentazione intellettuale più che decennale) sceglie la via di ciò che questa cultura definisce “politicamente incorretto” dando del “testa di c.” a chi se lo merita. Certo potrebbe usare un altro linguaggio ma tradirebbe quel rixi che, come il daímòn di Socrate, le impedisce di non dire la verità vera fino in fondo scegliendo il proprio linguaggio privato che Loretta rivendica parlando dell’originalità del linguaggio di Fenoglio e del suo romanzo Una questione privata.
Il linguaggio imparato trai banchi di scuola le serve per descrivere l’ingiustizia; il suo linguaggio privato le serve per delimitare e separare giustizia e ingiustizia che sono i due parametri a lei congeniali entro i quali fin da bambina muove il suo pensiero. Cita Orazio: «C’è misura nelle cose, ci sono determinati confini oltre i quali non può esservi il giusto». Lei non ha mai annullato la voce del suo “compagno segreto”, presente il lei sin dagli albori della sua nascita, quando odio e amore era così certi da non potersi confondere l’un l’altro. Il suo rixiè diventato grande e si è realizzato insieme a lei… e lei non lo ha mai tradito e non ha mai tradito la giustizia anche rischiando di rompersi la testa.
Anche quando ha scelto di vivere quasi segregata in una piccola casa, in una piccola città abitata da “gente piccola”, non ha mai navigato costeggiando sempre la terra per paura di perdersi. Lei aspettava il vento giusto per solcare l’alto mare non solo con la mente ma anche con il corpo. Partita per lo sconosciuto mondo della giungla brasiliana, lì è rimasta per quasi vent’anni, quattro dei quali vivendo nei villaggi yanomami. Poi è tornata nella sua dimora natale nelle Marche per poi, con un atto inaudito, a settant’anni tornare dai suoi amati yanomami e continuare la sua lotta privata per i loro diritti sociali. Ora ogni tanto la vedo apparire su Rai3 nella trasmissione Geo in cui viene invitata per parlare delle sue lotte umanitarie in Roraima e della resistenza degli Yanomami vessati per motivi economici dai ladri comuni e dai potentati economici.
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Le sue scelte così estreme sono sempre state portate avanti per dare senso a quei confini oltre i quali non c’è giustizia. La sua vita, costellata sin dall’infanzia da ingiustizie che avrebbero stroncato la vitalità di chiunque, non l’ha portata a scegliere l’inumano. Ha scelto di combattere l’inumano e le sue ombre meschine; ha scelto di stare sempre dalla parte di chi non vince – quasi – mai. Scegliere di stare dalla parte del più debole, di chi non ha neppure il linguaggio per opporsi alla meschina bramosia dei potenti, fa parte di un modo di essere… schierarsi dalla parte di chi non ha gli strumenti culturali, legali, economici, rischiando ogni volta la precarietà economica, condizione in cui ha sempre vissuto, è un atto eroico. Lo è soprattutto quando si aiuta l’altro da sé a realizzare la propria realtà umana che, nel caso specifico, non può essere quella chiamata anima e imposta da missionari in gonnella con le proprie mortifere regole morali religiose.
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Questo ci racconta l’alter ego narrante di Loretta nel Romanzo indigenista.
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Dieci anni fa, per la rivista degli italiani residenti in Francia Altritaliani feci una intervista a Loretta.
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In questa intervista, mi disse cose molto importanti che possono servire per definire la sua essenza umana e culturale: (…) Partendo volevo lasciarmi alle spalle una realtà fatta di accumulo di cose superflue, da cui non scaturivano gioie interiori, e di relazioni interpersonali fredde e formali. Partivo anche alla ricerca di motivazioni che si trasformassero in stimoli per continuare a vivere. (…) Quando le donne yanomami mi invitarono ad assistere al parto, entrai in panico perché le immagini che del parto avevo interiorizzato erano quelle traumatiche trasmessemi dalla società occidentale, e che rimandavano a stanze di ospedale, strumenti chirurgici, sangue e grida di dolore. In piena foresta amazzonica, accanto a donne e bambini riuniti per assistervi, ho capito che il parto è la cosa più naturale che possa accadere ad una donna.(…) Durante i primi approcci con l’universo yanomami, alcune caratteristiche culturali mi hanno molto colpita. I villaggi yanomami sono composti da una sola abitazione, la maloca, e ciò significa che si può vivere numerosi sotto lo stesso tetto. Quello che un individuo possiede equivale a quanto gli altri possiedono, e ciò significa che non esistono classi sociali, né caste. (…) Non esiste un capo che comanda sugli altri, ma ci sono individui saggi ed esperti che vengono consultati prima che decisioni comunitarie siano prese. Una delle cose che più mi ha impressionata è stato costatare che nel cesto da carico che la donna trasporta durante gli spostamenti in foresta entrano tutti i beni materiali che la famiglia possiede, sottolineo, che la famiglia possiede: questa piccola informazione dovrebbe dire grandi cose agli occidentali, che hanno trasformato il loro mondo in una grande discarica. (…) La lingua si presenta come un microcosmo della cultura; tutto ciò che quest’ultima possiede si esprime attraverso la lingua, ma la lingua è, essa stessa, un fatto culturale. Poiché integra in sé ogni aspetto della cultura, la lingua è anche la rappresentazione in miniatura di tutta la cultura. Partendo da questi concetti, è evidente che preservando le lingue si contribuisce alla preservazione delle culture indigene. La valorizzazione di lingue e culture ha contribuito ad affermare o fortificare l’identità delle società indigene, ma anche a far capire agli uomini bianchi che quelle degli indios non sono società inferiori, o dialetti, né lingue cosiddette povere. Possiamo parlare solo di DIVERSITÀ, siano esse linguistiche, culturali, politiche, sociali, o religiose. Nel rispetto della sua diversità, qualsiasi società minoritaria ha diritto di esprimersi e, soprattutto, di vivere e tramandarsi.»
E alla mia domanda: Abbiamo cominciato con una tua poesia nella quale esprimi tutta la disperazione e l’impotenza per la realtà dei popoli indigeni ai quali viene rubato tutto, anche la vita. La poesia però alla fine offre un’immagine di speranza: ti metti all’ascolto dei “Giorni fecondi” che verranno “generando i futuri”. Questo, forse, rappresenta il mito faustiano di rigenerazione perpetua, e anche la certezza di una primaria e naturale bontà presente alla nascita negli esseri umani. Idea di bontà ed eguaglianza originarie che l’occidente ha perduto da tempo e che, chi ne avverte l’esistenza, va a cercarla dove pensa che ancora ci sia, e cerca di farla durare nel tempo, perché solo uno sguardo che risponde ad uno sguardo dà certezza e senso alla propria esistenza. Tu, Loretta, hai trovato quello sguardo?
Loretta rispose così: «Ho incrociato lo sguardo con gli indios. Fino a qualche anno fa ero fisicamente a loro fianco; oggigiorno lo sono attraverso la scrittura. La rielaborazione, esplicita e voluta, della privilegiata esperienza fatta ha lo scopo di imprimere continuità all’esperienza stessa. Sì, credo proprio di poter dire che quello sguardo l’ho trovato ed è quello degli indios brasiliani.»
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Ora Loretta Emiri è lontana ma l’eco del suo grande respiro giunge a noi attraverso questo suo Romanzo indigenista.
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12 novembre 2023
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*vedi Demone Divino – racconti, miti, leggende e pensieri sulla natura umana. Di Gian carlo Zanon http://www.igiornielenotti.it/demone-divino-ovvero-cio-che-senti-dentro-di-te/
L’intervista citata a Loretta Emiri qui https://altritaliani.net/article-un-giorno-devi-andare-loretta/?fbclid=IwAR1owoPJ14-nngH9-eMZKftJv9FSPa-3QIhd36HAnhLJI_DbkbX8uQD_dHM