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di Gian Carlo Zanon
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Solitamente si usa il termine “acronia” per indicare un evento privo di tempo, non collocabile nel tempo e senza connessione temporale con altri eventi. Con la citazione di Elisabeth Lenk, posta a epigrafe del suo romanzo Medea, Christa Wolf rovescia questo concetto annunciando un principio caratteristico del romanzo moderno, quello dell’acronia collocando, nell’intreccio romanzesco, tempi sovrapposti e interagenti che sono la struttura stessa della narrazione.
«L’acronia – scrive Elisabeth Lenk – non è la simultaneità indifferente, ma piuttosto un intreccio di epoche disposte insieme secondo un modello permanente, una fuga di strutture che tendono ad assottigliarsi. Le si può allungare come una fisarmonica e allora una estremità viene a trovarsi molto distante dall’altra, ma è anche possibile inserirle l’una nell’altra come le bambole russe, sicché le pareti dei tempi vengono a trovarsi molto vicine tra loro. (…)».
L’immagine di una matrioska descritta come una infinita gamma di sentimenti che si innestano uno nell’altro come bambole russe, è molto presente nel romanzo Il lungo contagio di Lia Maselli.
Ed è una infinita gamma di moti emotivi, mai decritti ma solo evocati poeticamente, che in questo racconto, trasforma tempo e spazio in un mutabile palcoscenico sul quale, come nei drammi metateatrali di Pirandello, va in scena un groviglio inestricabile di passioni e di visioni che sembrano andare oltre l’umano. Ma sembrano andare oltre l’umano solo a chi o non ha mai subito il “contagio” di quella malia meridiana così “pericolosamente” vitale, oppure, terrorizzato dalla sua vampa travolgente, ne ha negato l’esistenza.
Leggendo il romanzo di Lia Maselli il primo pensiero/immagine che mi balzato nella mente è stato quello della protagonista, e voce narrante, che scaraventa sul pavimento di una casa che sa di mare e di sole uno scatolone di istantanee che cadendo una sull’altra alla rinfusa, annullano il tempo e lo spazio. Poi il palmo della sua mano le smuove, ed esse si muovono come fossero onde di mare… l’acre profumo della storia, che sale alle narici della narratrice, fa scaturire simulacri di ricordi che il tempo e la fantasia hanno trasformato in memorie private che ora, a chi legge, appiano come lampi estivi che mettono in crisi gli equilibri raggiunti: «La fantasia, con la separazione del mondo, ricrea il tempo passato. Ogni volta, improvvisamente, la vita diventa diversa» (*)
«Ero piccola e mia madre mi parlava del diavolo come di un vicino di casa che vedeva tutto. Ma di preghiere non se ne parlava. Capitava un’invocazione breve al santo più vicino solo per scongiurare un danno, una malattia, un incidente.» Qui il pensiero magico/religioso è così innocuo che serve solo a spiegare ciò che la ragione non potrà mai spiegare: il senso di ciò che accade o non accade… ma la ragione qui, come nei drammi di Pirandello, è inutile «Se lei, Contessa, vede ancora la vita dentro i limiti del naturale e del possibile, l’avverto che lei qua non comprenderà mai nulla. Noi siamo fuori di questi limiti, per grazia di Dio. A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. E il libero avvento d’ogni nascita necessaria. Al più al più, noi agevoliamo con qualche mezzo la nascita.»(**)
Basta sfiorare quelle istantanee col palmo della mano e “la madre”, “il padre”, Rocco e Saverio, la nonna con nome spagnolo, sorgono a raccontare la loro vita aspra in cui le storie dei microcosmi personali si innestano nel macrocosmo storico fatto di guerre, terremoti, eventi sociali apparentemente indomabili: «La notte del 28 dicembre 1908 la terra tremò forte, la schiena profonda e dura dello stretto ebbe un lungo brivido che risalì fino alle radici di ulivi e palme. (…) Il ragazzo ha diciannove anni, non ha che frammenti di lava nelle tasche e le mani intrecciate alla vite che corre intorno agli orti. La ragazza ha quindici anni quando la casa si spalanca nel vento. Ricorda la trave che l’ha salvata. Forse si incontrano fra le macerie, si guardano poco ma si incontrano ancora, e poi aspettano che ricrescano le piante, sulle colline in faccia la mare.»
Comincia così, con il terremoto di Messina che distrusse le due coste, in cui vivono ancora i fantasmi di Scilla e Cariddi, provocando la morte di quasi la metà della popolazione locale.
È morte che provoca la vita, è separazione che provoca la nascita «Mentre la vita cambia nelle strade, nei volti» per dare libero avvento ad ogni nascita necessaria: «Ci vengo per staccarmi da mia madre. (…) La donna di fronte a me è alta, una magrezza senza gracilità, elegante. Il viso scavato dove gli occhi si muovono da una parola all’altra. A volte è quella stessa madre dalla quale sto nascendo, a volte un’estranea»
Un racconto privato questo di Lia Maselli che non racconta ma evoca decenni di vita avuta e vissuta attraverso continui flashback in cui tempo e spazio si mescolano senza fermarsi mai a spiegare nulla… sono istantanee in cui la madre giovane indica nel padre «colui che non vuole» e nell’immagine accanto sempre lui molto vecchio che «(…) oscilla, vecchio motore in avaria, tra vita e oblio, – mentre – lei stende i panni».
Questo è un altro grande romanzo di Lia Maselli in cui le parole sembrano scelte ad una ad una per «sciogliere il sangue secco di una memoria in movimento» e dare senso alla realtà immateriale.
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(*) Massimo Fagioli, “Ricreare la realtà non materiale passata è fantasia”, Left del 16 aprile 2016
(**) Luigi Pirandello: I giganti della Montagna.
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30 luglio 2022