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di Nora Helmer
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«(…) alcuni conoscono bene le varie specie/ delle piante altri quelle dei pesci/ io conosco le separazioni/ alcuni enumerano a memoria i nomi/ delle stelle io delle nostalgie»
Nazim Hikmet: Autobiografia
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Succederà … o quantomeno è auspicabile, che la voce dell’amato risuoni nel corpo anche dopo la separazione. I ricordi del rapporto, anche quelli meno esaltanti, verranno trasformate e scalderanno il cuore nelle giornate di gelo.
In quei momenti si potrà di nuovo amare un po’ chi , forse anche una sola volta, distraendosi, ci amò. Lo si amerà senza idealizzarlo. Lo si amerà per quello che era, per come lo abbiamo amato allora, quando eravamo altro da ora. Lo, o la si amerà, come si ama chi ha cantato una canzone solo per noi, mentre ci cullava, e in quel momento evocheremo un’immagine di separazione.
«Quella notte, perduta tra tante e tante notti, la ragazza, di questo era certa, l’aveva trascorsa su quella nave e c’era quando ciò era successo, quando era esplosa la musica di Chopin sotto il cielo luminescente. Non c’era un alito di vento e la musica si era propagata per tutto il piroscafo buio, come un’ingiunzione del cielo, chi sa per che cosa, come un ordine divino dall’ignoto significato. E la ragazza si era alzata come per andare a uccidersi a sua volta, a buttarsi a sua volta in mare e poi aveva pianto, perché aveva pensato all’uomo di Cholen e tutto a un tratto non era più sicura di non averlo amato, solo che quell’amore non l’aveva visto perché si era perso nella storia come acqua nella sabbia e lei lo ritrovava soltanto ora, nell’istante della musica sul mare.»
Marguerite Duras: L’amante
Nell’articolo precedente ho cercato di parlare di scotomi, sparizioni, annullamenti, assenze. Anche “l’assenza” di chi è fisicamente presente può risultare urticante. Chi la agisce spesso non se ne rende neppure conto. Alcuni individui, pochi in realtà, se gli si fa notare la loro “assenza” la riconoscono. È un esercizio quotidiano anche quello di avvertire la mancanza, la disconnessione dell’altro da sé, che magari risponde a una domanda senza neppure aver dato senso alla percezione uditiva. Uno scotoma uditivo in presenza di una percezione.
A volte, a me è capitato, l’assenza giunge improvvisa, silente. Non si sente arrivare, oppure quando ciò che non c’è è lì che si frappone tra presente ed assente, non la si riconosce. Eppure l’assenza a volte è così chiassosa da divenire quasi palpabile. L’assenza non ha immagini. È un sintomo presente nella voce, nello sguardo dell’altro che lì non c’è più pur “essendoci”. Si avverte come una stonatura, come una nota impazzita, come un lampo che ha perduto il suo sfolgorio.
Capire le cause, cercare di giungere alla matrice dell’assenza che inibisce la vera separazione da un essere umano è una ricerca che vale una vita.
Le ricerche che si sono sviluppate in questi ultimi cinquant’anni, grazie alla Teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, sono a mio giudizio indispensabili per conoscere meglio sia l’insorgere della stonatura dell’assenza, sia le dinamiche psichiche presenti nella separazione.
«(…) alcuni conoscono bene le varie specie/ delle piante altri quelle dei pesci/ io conosco le separazioni/ alcuni enumerano a memoria i nomi/ delle stelle io delle nostalgie» scriveva Nazim Hikmet in Autobiografia.
La vita di ogni essere umano è segnata dalle separazioni: dalla cesura della nascita allo svezzamento, dalla visione del diverso da sé al rapporto sessuale con esso, dalle infinite separazioni con figure genitoriali, con maestri, amici, amanti, a quella definitiva. Ogni volta, più o meno inconsciamente si “elabora il lutto”, ovvero si elabora la “sparizione” di uno stato precedente dell’essere e/o la fine definitiva di un rapporto interumano.
Nell’articolo della neonatologa Maria Gabriella Gatti, pubblicato da Left il 26 novembre scorso, ho trovato delle risposte importanti: «La madre – scrive la neonatologa – per il periodo di dipendenza assoluta si dedica completamente al figlio costituendo l’ambiente favorevole: essa non abbandona il piccolo, ma risponde ai bisogni dell’io che sono multiformi per evitare reazioni di abbandono del rapporto da parte sua. Ogni bambino reagisce in maniera più o meno grave a un’assenza di rapporto della madre.»
Il bambino durante l’allattamento, quando trova una madre che non si assenta e quindi non pregiudica le dinamiche psichiche, elabora rapporto e separazione.
«Il neonato ha la consapevolezza inconscia che esiste un altro essere umano che si prenderà cura di lui rispondendo sia alle sue esigenze fisiche che psichiche. Si realizza così la certezza che la madre esiste attraverso il contatto con il calore e l’odore della sua pelle, la voce e l’allattamento. Il bambino è soddisfatto per l’attenzione che la madre ha per lui e immagina o sogna il rapporto attraverso le sensazioni provate.»
Il bambino soddisfatto dalla presenza affettiva della madre, può accettare o addirittura esigere una separazione momentanea perché: «Alla fine dell’allattamento ha stabilito un rapporto soddisfacente con un elemento della realtà esterna che è la madre, tale rapporto sopravviverà a qualunque frustrazione e delusione e gli consentirà la possibilità di una separazione.»
In questo modo il neonato «realizza la libertà e l’autonomia ed è felice di svezzarsi e di intraprendere un’esperienza nuova.»
La capacità di separarsi in modo affettivo dall’altro da sé, anche quando questi vive la separazione come un abbandono, è dovuta quindi alla realizzazione, positiva, del primo rapporto interumano.
Per chi non esce pressoché psichicamente indenne dal rapporto con la madre, la separazione dai rapporti interumani è molto difficile e dolorosa, a volte impossibile.
Le “separazioni” saranno quindi sempre violente tanto quanto lo sarà stata l’assenza anaffettiva della madre tanto presente nel soddisfare i bisogni fisici, quanto deludente nella soddisfazione delle esigenze affettive.
La separazione, a secondo della gravità della malattia causata dall’impossibilità per il neonato di sfuggire all’assenza dell’altro da sé, sarà pressoché impossibile e ciò causerà dolore, drammi e, come ben sappiamo, in alcuni casi più gravi il femminicidio. (vedi articolo sottostante degli psichiatri Calesini-Ponti , (Left – 23 dicembre 2017) inserito il 23 dicembre 2017 che conferma e avvolora quanto ho appena affermato).
La separazione diverrà impossibile da affrontare in modo affettivo. Ciò causerà fughe psicotiche, sparizioni, scotomi, annullamenti di cui abbiamo parlato nei precedenti articoli (leggi qui) ma anche quelle “piccole assenze” quasi invisibili che possono lentamente ma inesorabilmente uccidere il rapporto con l’altro da sé.
22 dicembre 2017
qui gli altri articoli correlati
Left – 23 dicembre 2017
I femminicidi non accadono per caso. Non sono una fatalità
Psichiatria
di Irene Calesini e Massimo Ponti
Ci sembra importante un approfondimento circa gli omicidi commessi da malati di mente “senza motivazione” e quello che avviene nei femminicidi (Left n. 49).
Nel primo caso l’ideazione delirante alla base del comportamento violento o la stolidità di un comportamento eterolesivo hanno la loro “motivazione” completamente all’interno della patologia psichica del soggetto e non nel rapporto specifico con la vittima o le vittime: essi non hanno un ruolo sulla scena del crimine. Questo si può intendere con sine causa.
Negli omicidi di donne che tentano una separazione da un uomo che non corrisponde più ad una precedente idea (o ad un’illusione) di uomo, compagno, coniuge, fidanzato, da parte di questi ultimi – omicidi che a nostro parere devono obiettivamente intendersi come femminicidi -, non si può veramente parlare di omicidio sine causa.
In questi casi la “causa” c’è e va cercata nella incapacità, impossibilità di tollerare un allontanamento non deciso da loro e di affrontare una separazione che fa emergere un modo – malato – di essere. Impossibilità che rivela la incapacità di avere un rapporto con un essere umano che non è o non vuole più essere quello che si era deciso fosse.
(Strano, le donne quando un uomo non corrisponde più ad una idea, immagine, lo lasciano, alcuni uomini quando la donna non è più quella che pensano impazziscono e diventano assassini).
La questione è delicata: c’è il rischio di non farsi, capire. Da psicoterapeuti sappiamo che il rapporto spesso è malato, ma non tutti i rapporti malati finiscono in tragedia. Appunto, ci si può separare.
Ribadiamo che le donne uccise e quelle vittime di violente aggressioni con gravi lesioni fisiche avevano tentato od effettuato un allontanamento fisico più o meno riuscito. Avevano mostrato un movimento, insopportabile per l’uomo. Allora va meglio studiato quello che avviene nella mente di alcuni uomini di fronte ad un movimento di autonomia, di affermazione della propria identità, della donna.
La violenza è diretta verso quella donna il cui movimento mette in crisi una struttura schizoide di personalità (spesso) o squilibra una condizione psichica già palesemente compromessa.
Nella incapacità, per carenza /assenza personale di identità umana, di permettersi una crisi, una depressione, un lutto, per la fine di una storia, vediamo una “causa” dei femminicidi.
Ma dato il fenomeno sociale, strutturale e non emergenziale, come definito da tutte le fonti autorevoli, interroghiamoci anche su come una cultura misogina e violenta, di mille e mille anni, si intreccia con la carenza e con la malattia del singolo e di molti uomini, per fomentarli e giustificarli nel comportamento in mille forme violento sino all’uccisione! E toglie alle donne quella certezza di identità che le aiuterebbe nel rifiuto di ogni forma di violenza.
In Left quote (n. 49) leggiamo una perla di Massimo Fagioli, una sua affermazione del 2014 a Livorno «… Perché non pensare che il femminicidio è legato al rapporto uomo-donna che non c’è?»
Adesso siamo in grado di vedere ed affrontare una cultura violenta che impedisce agli uomini e alle donne di vivere pienamente il rapporto tra simili e diversi.