RIKBAKTSA *
Loretta Emiri **
All’inizio degli anni ottanta, la problematica relativa a educazione e scuola molto assillava coloro che operavano tra i popoli indigeni in Brasile. La maggior parte dei lavori erano incipienti e portati avanti isolatamente, e le persone coinvolte avevano poca o nessuna conoscenza delle attività realizzate in altre aree. La coordinazione dell’OPAN – Operação Anchieta accolse difficoltà e ostacoli espressi dai suoi membri, e prese coscienza del fatto che opportuno e urgente era lo scambio di esperienze fra gli interessati. Una volta profilatasi l’idea di realizzare un incontro, l’OPAN entrò in contatto con persone conosciute che operavano in differenti regioni attraverso altre istituzioni; con loro meglio discusse la proposta, che fu accolta entusiasticamente. L’incontro venne realizzato nel gennaio del 1982; all’unanimità i partecipanti lo considerarono molto proficuo ed espressero la necessità della continuità. Venne quindi avviato un processo che risultò in quattro incontri realizzati ogni due anni, fino al 1988. Io ebbi la sorte di presenziare a tutti. I primi tre incontri coinvolsero solo bianchi che erano esperti o insegnavano in scuole ubicate in aree indigene. “Formazione di Maestri Indigeni” era il tema generale del quarto incontro. La partecipazione all’evento di due maestri rikbaktsa evidenziò quanto valida fosse stata la scelta del tema stesso, effettuata ben due anni prima. La presenza dei due indios fece eloquentemente capire, almeno a me, che i bianchi dovevano cominciare a mettersi da parte. Molti ex allievi indigeni già operavano come maestri; prioritaria era la loro formazione affinché, con grinta e competenza, assumessero la conduzione del processo educativo formale nei propri villaggi.
Uno dei maestri rikbaktsa arrivò con la figlioletta di circa quattro anni. Sempre sorridente, sempre silenziosa, la piccola conquistò i partecipanti e divenne la mascotte dell’incontro. Durante i sei giorni trascorsi insieme, non la sentimmo mai piangere né gridare, mai fece capricci, mai si esibì per richiamare su di sé l’attenzione degli altri. Sorridente e silenziosa ci guardava, dialogava con il papà, giocava tranquilla con pietre, ossi e vegetali. Nei momenti di pausa dell’incontro, spesse volte cercai la compagnia del maestro indigeno e di sua figlia. Era piacevole osservare la bimba nei suoi giochi, ascoltare l’uomo soddisfare le mie curiosità. Il rispetto per i bambini è sacrosanto in ogni gruppo indigeno; partendo da questa constatazione volevo scoprire, nel caso specifico dei rikbatsa, da quali concezioni derivasse l’atteggiamento che gli adulti hanno nei confronti dei minori; volevo identificare princìpi e metodi messi a punto da questi indios per forgiare, educare i membri della propria società.
I rikbaktsa sanno che la capacità di pensiero e di apprendimento è insita anche in bambini di tenera età. Gli insegnamenti vanno impartiti a passo lento, graduale. Dapprima i piccoli osservano ciò che gli adulti fanno. Poi, giocando, li imitano nelle loro attività. In seguito provano a confezionare oggetti, ripetendo più volte da soli le operazioni necessarie. Gli adulti lasciano fare, limitandosi ad osservare, mai mettendo in evidenza errori fatti perché ciò umilierebbe e quindi scoraggerebbe i bambini. In caso di sbagli, semplicemente invitano gli artigiani in miniatura a ripetere l’azione, a continuare ad esercitarsi. Quando i piccoli cominciano a fare domande, è giunta l’ora di dare spiegazioni e informazioni. Genitori e nonni non si sottraggono a questo compito, perché convinti che curiosità e interesse sono determinanti ai fini del processo educativo. I bambini partecipano attivamente alla vita della comunità, non esclusi rituali e feste. Scaglionati in gruppi determinati da sesso ed età, svolgono importanti ruoli sociali. Utensili vengono confezionati su misura per loro; così, ad esempio, archi e frecce sono proporzionali all’altezza dei maschietti, mentre le femmine usano piccole gerle, cestini, setacci. Il pieno inserimento nella vita sociale inorgoglisce e rende felici i bambini. Più volte il maestro mi disse che l’uomo rikbaktsa non incontra cacciagione se sua moglie lascia piangere il figlio, perché il pianto di un bimbo spaventa gli animali che fuggono lontano. “I bambini”, mi ripeteva, “devono essere trattati come fossero uccellini”.
Dopo un soggiorno a São Paulo, in una lettera del giugno del 1987 raccontavo agli amici italiani di essere rimasta impressionata dal numero di bambini incontrati nelle strade; lavoravano come lustrascarpe, venditori ambulanti, sorveglianti di automobili, oppure elemosinavano cibo. Nell’aprile del 1991 passeggiavo nel centro di Manaus quando, violenta, una scena mi sbarrò la strada: un gruppo di ragazzini, sporchi e straccioni, sniffava colla. Da quel momento, ogni volta che dovetti recarmi in grandi città fui molto cautelosa negli spostamenti, evitando determinati luoghi, cercando di non rimanere sola; da piccoli lavoratori senza diritti, i minori erano stati trasformati in consumatori e spacciatori di droga che potevano assediare, minacciare, ferire e derubare i passanti. La notte del 23 luglio 1993, poliziotti in borghese spararono a bruciapelo contro ragazzi di strada che dormivano sul sagrato della cattedrale di Rio de Janeiro: ne uccisero otto.
Con il fenomeno dei meninos de rua, il Brasile ha scandalizzato a lungo il mondo intero. Da alcuni anni l’Europa ha importato il modello, non senza adattarlo alla propria realtà; così che a Bucarest, ad esempio, bambini vivono nelle fogne. Al rientro da un viaggio in Perù, un caro amico mi ha fatto visita; piangendo disperato mi ha raccontato di aver preso coscienza della realtà dei minori che vivono nelle strade di Lima, desolatamente esposti alle efferatezze di tarati e pervertiti. Per creare una Multinazionale della Pedofilia si sono messi insieme esponenti della cattolica Italia e della Russia atea; pochi mesi fa la televisione ci ha vomitato addosso le macabre proposte virtuali con cui, via Internet, la multinazionale prometteva soddisfare le perversioni tutte carnali dei propri clienti.
Dobbiamo prendere atto che la società occidentale continua a fare passi in avanti quanto ai minori: globalizzando i suoi schemi di giustizia sociale e dignità umana ottiene che un numero sempre maggiore di bambini vengano abbandonati a sé stessi lungo le strade della vita. Partendo dall’intima convinzione che sociali sono le responsabilità, ho cercato a lungo un termine con il quale, indiscriminatamente, definire chi non tratta i propri figli come fossero uccellini, chi divora uccellini, chi si tappa le orecchie per non ascoltarne il pigolio: nessuna parola mi è parsa sufficientemente bestiale.
* Il brano “Rikbaktsa” è uno dei capitoli del libro Amazzone in tempo reale.
** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader.
Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i libri di racconti Amazzonia portatile, Amazzone in tempo reale (premio speciale della giuria per la Saggistica, del Premio Franz Kafka Italia 2013) e A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito Romanzo indigenista, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, AMAZZONIA – fratelli indios, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, La bottega del Barbieri, Pressenza, Euterpe.