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di Gian Carlo Zanon
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Questo primo capitolo segue l’introduzione (leggi qui)
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Ordine e disordine
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Su cosa si basa principalmente l’idea di legge? Perché gli esseri umani creano le leggi e le fissano con la scrittura?
Fondamentalmente le ratificano, attingendo da norme abitudinarie già esistenti, per dare “ordine al caos”. Queste leggi vengono scritte e divengono funzionali a una civiltà complessa, e quasi sempre stanziale, come quella delle nascenti polis. Le leggi hanno molte altre funzioni come ad esempio quella di tenere uniti gruppi tribali sempre in lotta per la supremazia politica e per i territori.
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Kósmos/ordine e Kaos/disordine, sono nozioni antiche. Molte cosmogonie, comprese quelle ebraiche trascritte nei libri apocrifi, nascono da miti in cui ad un precedente stato caotico viene dato un ordine. In realtà la prima “risposta scientifica” che gli esseri umani danno alla domanda dell’arché, cioè alla domanda “cos’è stato il principio di tutte le cose”, viene dalla loro esperienza empirica e quindi non può che essere: “l’esistente è stato generato”.
«La creazione, originariamente, – scrivono Robert Graves e Raphael Patai nella loro opera a due mani I miti ebraici – intesa come dipendente da procreazione e non da fabbricazione, ebbe come forma primaria un matriarcato.» Per quella mentalità magica, non è quindi un demiurgo divino a fabbricare dal nulla l’esistente ma è una divinità femminile e tellurica, Eurinome, «dea di tutte le cose» che lo genera. La divinità femminile, narra il mito, in primo luogo dà ordine alla natura separando con il mare due elementi, Urano (il cielo fecondatore) e Gea (la terra generatrice) che poi si uniranno dando vita all’esistente.
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In un antico mito pelasgico invece si narra che la dea Eurinome, (che ha come suffisso “nome” cioè ordine/legge) fecondata dal vento, che a sua volta si era trasformato in Ofione, un immenso serpente, genera l’esistente. In questa narrazione è già presente la matrice del mito della creazione biblica e cristiana addomesticata dai libri canonici. Nei Frammenti orfici (G.P.29) viene narrato un mito simile: questa volta è Nykta, la dea Notte, a dare inizio alla vita, deponendo un uovo che verrà fecondato da Eros, ed è sempre lei a che nel sottosuolo dà forma al Kósmos/ordine e alle divinità infere (Dyke e le Erinni) che si prenderanno cura della giustizia declinata in “diritto matrilineare”.
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Ma non è solo la mitopoietica, ovvero l’elaborazione e la narrazione mitica dell’esitente, a parlare di un ordine cosmico. Lo fa anche un rappresentante della nascente filosofia naturalistica nata per affrancarsi dal mito, il presocratico Eraclito: «Quest’ordine, che è identico per tutte le cose, non lo fece nessuno degli Dei né gli uomini, ma era sempre ed è e sarà fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne.» [31 Diels-Kranz ]
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Nel Commentario alla fisica di Aristotele di Simplicio, leggiamo che il primo a usare la parola archè (principio) dei tois oysi (delle cose che sono/gli esseri) fu Anassimandro: «…da dove infatti gli esseri hanno origine,– scrive Anassimandro citato da Simplicio – ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.» Qui c’è già un passo verso l’idea di espiazione conseguente ad una “ingiustizia” originaria. Ciò che nasce, ciò che entra nel tempo, scardina il Kósmos/ordine che lo precede dando luogo a un Kaos/disordine. I riti di passaggio della nascita sono lì a testimoniare un “problema” che deve essere almeno mitigato con i riti di accettazione, da parte del pater familias e/o della comunità del nuovo nato.
Questo pensiero difettoso che parla di nascita come ingiustizia attraversa tutta la cultura occidentale impastandosi con ciò che solitamente viene definita cultura giudaico/cristiana.
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Ne La vida es sueño di Calderon de la Barca il protagonista cerca le ragioni della sua colpa/espiazione che gli appare, giustamente, senza senso: «Apurar, cielos, pretendo,/ya que me tratàis asi,/qué delito cometì/contra vosotros, naciendo./Aunque si nacì, ya entiendo/Que delito he cometido:/bastante causa ha tenido/vuestra justicia y rigor,/pues el delito mayor/del hombre es haber nacido.» Il principe di Polonia, Sigismondo, che giace incatenato in una torre segreta fin dal momento della nascita, pretende di sapere il motivo della sua pena. “(…) che delitto commisi contro di voi nascendo” si chiede. Inoltre si chiede quale legge mai abbia infranto per meritarsi tanto rigore e giunge ad una “logica” conclusione: «dunque il delitto più grave/ dell’uomo è essere nato.»
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Come abbiamo visto ordine Kósmos/ordine e Dyke/giustizia sono quasi sinonimi. Dove regna Dyke la dea della giustizia c’è ordine e viceversa. Ma c’è ordine e ordine.
C’è l’ordine inteso come equilibrio tra i vari elementi che compongono l’esistente, tra pianeti, atomi, suoni, sapori, immagini, affetti; c’è un “ordine armonico” persino nell’atto erotico – o almeno ci dovrebbe essere, – e c’è l’ordine inteso invece come uniformità; bizantinismo cioè perfetta simmetria estetica; c’è anche un “ordine” inteso come ordine sociale, politico e religioso che presuppone la coartazione del movimento del pensiero e della libertà individuale. La pax romana fu un periodo piuttosto lungo in cui regnava ordine sociale con molti ed evidenti “effetti collaterali”. Gli stessi “effetti collaterali” riscontrati ogni qualvolta che una nazione decide imporre la propria idea di ordine – esportazione della democrazia americana nel Medio Oriente per esempio – in un altro paese lontano anni luce dal proprio punto di vista culturale.
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Come fa notare lo storico Cesare Molinari nel suo saggio Storia di Antigone entrambi i protagonisti, Creonte il tiranno di Tebe e Antigone figlia di Edipo, pretendono di incarnare la giustizia, la legge, e l’ordine. Ma i loro pensieri sul senso da dare a questa triade – giustizia, legge, ordine – sono diametralmente opposti. Ognuno di loro sembra avere una propria semantica che va a significare idee ben distinte di ordine.
Nel mito greco, come nelle narrazioni bibliche, la natura femminile o rappresenta disordine e Kaos, l’addomesticamento delle donne al patriarcato. I confini sono netti.
Come scrive Eva Cantarella nel suo saggio Itaca – Uomini, donne, potere tra vendetta e diritto:
da una parte c’è il Kósmos/ordine divino e “civiltà dei padri”, rappresentato dalle «donne oneste» e sottomesse al ruolo imposto dall’ambiente sociale, vale a dire «le mogli e le donne destinate a diventare mogli: le figlie e le sorelle del capo della casa», donne come Penelope ecc. ecc.;
dall’altra il Kaos/disordine, la barbarie, il disordine, – personificato dalle «donne seduttrici, donne libere, autonome al punto da vivere sole, belle e invitanti, ma mortalmente pericolose»: Circe, Calipso, le Sirene. Sirene che altro non erano che la rappresentazione mitopoietica delle prostitute dei lupanari dei porti che spesso uccidevano i marinai per rubare i loro beni.
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Antigone sfugge da questi schemi, lei segue solo ed unicamente la propria etica interiore, la propria legge, la propria idea di ordine che è soprattutto fusione totale tra sentimento, inteso come sentire organico, e pensiero. La propria visione del diritto è “naturale” perché è fusa con la propria “percezione” affettiva. La ragazza di Tebe non è né seduttrice né donna di casa succube e silente. Lei è Antigone. (1)
Quando viene sorpresa dalla guardia accanto al cadavere del fratello, ella sta mettendo ordine in un quadro, disarmonico, scomposto e caotico: un giovane morto straziato dalla lancia del fratello giace nella polvere e sta per essere fatto a pezzi e divenire pasto per avvoltoi e cani. Il verbo usato per definire l’azione di Antigone, usato dalla guardia che la ferma e la conduce davanti al potere costituito, è kosmeîn “mettere in ordine” da kósmos ordine. Facendo quell’azione rituale, sacra, la fanciulla di Tebe segue i principi di un proprio ordine interiore che gli impone di ricomporre la salma del fratello Polinice preda del kaos. Kaos qui significa anche inumano. (2)
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Anche Creonte si appella all’ordine «(…) vocaboli formati sulla stessa radice – scrive Molinari – vengono impiegati da Creonte, che ne esplicita intenzionalmente le connotazioni politiche.» Creonte di fronte al figlio Emone, promesso sposo e innamorato di Antigone, spiega il motivo della condanna a morte di Antigone: egli non vuole introdurre nella sua famiglia il disordine rappresentato dalla ribellione di Antigone. Secondo il tiranno la lambacide è ácosma , generatrice di disordine. L’alfa privativa, davanti al fonema “cosma” che indica ordine, è inequivocabile.
«Di fronte al disordine – prosegue Molinari – al principio perturbatore introdotto da Antigone, (…) bisogna a tuti i costi difendere l’ordine». «Così bisogna dar protezione alle cose ben ordinate (Antigone Sofocle (677)»
Poco più avanti Molinari fa notare come questa idea astratta e arbitraria di ordine, di cui Creonte si fa strenuo difensore, troverà in seguito la sua piena «realizzazione nel sistema platonico, ad identificare il concetto razionale di ordine con quello di morale di bene.»
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Creonte utilizza sofismi retorici per far valere la legge creata, per meri scopi di autoritarismo politico, poche ore prima. Una legge arbitraria e tirannica, quindi priva di senso etico. «Il sofisma di Creonte, – scrive Molinari – eterno sofisma di tutte le ideologie, e particolarmente di quelle dei gruppi dominanti, consiste non solo nel ritenere i valori proposti validi in assoluto, ma altresì nell’affermazione che il corpus di questi valori costituisce l’ordine, e che al di fuori non si dà che caos e rovina.»
Sembra che Molinari stia parlando di Renzi “pre fase zen”, quando minacciava il popolo dell’apocalisse se avesse osato disubbidirgli votando NO al referendum. Ma se la storia si ripete e spesso insegna poco o niente, il mito e la rappresentazione tragica stanno lì a ricordare.
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Quella di Creonte è visibilmente hybris, vale a dire tracotanza e dismisura. Tracotanza a causa della quale alla fine pagherà un prezzo altissimo: il suicidio del figlio e della moglie. La scelta di Antigone, anche se, per le forze in gioco, razionalmente appare smisurata e quindi disordinata, non è hybris ma un richiamo all’ordine inteso come “coerenza interiore”: «Lo faccio per me!» esclamerà Antigone – nella messa in scena di Jean Anouilh – messa alle strette da Creonte che l’incalza con la sua ragione lucida ed anaffettiva. L’identità della fanciulla appare smisurata perché in quel contesto si batte da sola contro lo Stato e le sue leggi scritte per la difesa delle proprie istanze etiche che, anche se possono apparire assurde, sono “inscritte nel suo DNA”. (3)
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Quando nel testo Sofocleo Antigone emette la sua celebre sentenza «Ma per me non fu Zeus a proclamare questo divieto né Dike che dimora con gli dei sotterranei. Non essi queste leggi fissarono per gli uomini. E non pensavo che i tuoi decreti avessero tanta forza che un uomo potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dei. Non soltanto da oggi né da ieri ma da sempre esse vivono, da sempre: nessuno sa da quando» non si appella soltanto alle usanze e alle norme etiche della- eusabeia ovvero della pietas – condivise dalla comunità, ma anche ad un proprio sentire con il quale non può e non vuole venire a patti. Norme, usanze e sentimenti privati che Creonte annulla con un sol colpo di spugna. Norme e diritti non scritti ma interiorizzati che il tiranno sembra non conoscere. Leggi private, intime che sono il fulcro dell’identità dell’essere umano e che riecheggiano nel frammento 119 di Eraclito: Ethos anthropoi dàimon, che potremmo tradurre così «La realtà interiore per l’essere umano è legge». oppure in questo modo «Etica per l’essere umano è la propria divinità interna».
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Antigone a sua volta è l’“immagine interiore” di Emone che ne è pervaso: «tu che sei schiavo di una femmina non mi seccare» dice Creonte al figlio che tenta difendere la propria immagine femminile. Nella ribellione di Emone si incarna la legge naturale che è fusione totale corpo/pensiero avvertita per pochi istanti dal neonato nel momento della nascita e incisa nella memoria inconscia come traccia indelebile. (4) La ribellione di Emone, che per le antiche divinità infere è “vincolo” sacro e inviolabile, è invece “schiavitù” disonorevole per la legge della ragione patriarcale, incarnata da Creonte.
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Come aveva ben capito Albert Camus – lo scrive nel ‘43 nella “IV Lettera ad un amico tedesco” – le leggi della ragione sono le stesse «che governano il mondo animale, cioè la violenza e l’astuzia.» ed è sempre lui a definire “quasi organica” quella sensazione che lo obbliga a schierarsi «dalla parte di coloro, chiunque essi siano, che vengono umiliati e offesi. (…) mi pare che non si possa sopportare quest’idea, e colui che non può sopportarla non può neppure addormentarsi in una torre. Non per virtù, ma per una sorte di intolleranza quasi organica, che si prova o non si prova. Da parte mia ne vedo molti che non la provano, ma non posso invidiare il loro sonno.»
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Qui Albert Camus, come fece nelle “Lettere ad un amico tedesco” non si appella a vuoti e astratti concetti esistenzialisti, anche perché, con buona pace della premiata ditta culturale Saviano & Company, egli non aderì mai all’esistenzialismo. Il premio Nobel francese con le sue parole evoca un “certo sentire” e immagini private, intime, cioè quel mondo di affetti che sono l’unico baluardo al disumano, che la logica della ragione vorrebbe annullare. Ad altri dei della giustizia si appella Camus che come Antigone chiama a sé “le leggi non scritte e incrollabili degli dei”: «Così, – scrive Camus nella IV Lettera ad un amico tedesco – in mezzo ai clamori e alla violenza tentavamo di conservare nel cuore il ricordo di un mare placido, di una collina indimenticabile, il sorriso di un volto caro. Era, infatti, la nostra arma migliore, quella che mai riporremo. Perché se un giorno la perdessimo, allora saremmo morti come voi.»
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A quali valori intendeva riferirsi Sofocle quando decise di mettere in scena Antigone lo possiamo solo immaginare interpretando la sua opera inserita in quel contesto storico e culturale. Certo è che tutto ciò è materia di questa ricerca.
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Anche nell’Orestea, che rappresenta la fine del “diritto di sangue” matrilineare, le due leggi, legge patriarcale e diritto ginecocratico, si contrappongono. La trilogia eschilea rappresenta il momento in cui l’ordine Apollineo, astratto e anaffettivo, prevale sul “disordine degli affetti” delle antiche dee madri.
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22 gennaio 2017
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Questo saggio sul “diritto naturale” verrà pubblicato in altri tre o quattro “capitoli” nel corso del mese di febbraio.
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Note
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(1) Antigone: «Si lo amo. Amo un ragazzo puro intransigente e fedele. – Emone –Ma se, quella che voi chiamate vita, quella che voi chiamate felicità, dovesse passare su di lui e spegnerlo… se non dovesse più impallidire quando io impallidisco , se non dovesse credermi morta quando ritardo cinque minuti, se non dovesse più sentirsi abbandonato e detestarmi quando rido senza di lui, se dovesse imparare anche lui a dire sempre si… allora non amo più quel ragazzo. …Si, lo so voi non riuscite più a capirmi. Vi parlo da troppo lontano ormai, vi parlo da un luogo dove non vi è più permesso entrare con le vostre rughe , con la vostra ragione, la vostra pancia. Potete solo restarvene fuori seduto sulla porta come un mendicante, a sgranocchiare quella pagnotta dura che voi dite essere vita».
Antigone. Jean Anouilh. Scritto nel 1941, durante l’occupazione tedesca, fu rappresentato per la prima volta al Théâtre de l’Atelier di Parigi il 6 febbraio del 1944.
Questa nota, come le successive, è stata scelta per rappresentare i contenuti affettivi, e quindi etici, che questa figura epica rappresenta nella cultura occidentale.
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(2) Coro: «Ecco, ancora una volta vedrete recitare la storia di Antigone. Antigone è la magrolina seduta lì in mezzo*. Sta pensando. Pensa che tra poco sarà Antigone, che si lascerà alle spalle la magra ragazzina scontrosa che nessuno prendeva sul serio in famiglia e che dovrà affrontare Creonte suo zio che è il Re»
Antigone. Jean Anouilh.
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(3) «Creonte: perché alla fine di tutto, credimi, la felicità non è altro che la vita stessa
Antigone: Tra sé : la felicità…
Creonte: Una parola imbarazzante vero?
Antigone: Quale sarà la mia felicità? Cosa dovrò fare per strapparne anch’io un pezzetto con i denti? Me lo sapete dire? Potete aiutarmi? A chi dovrò sorridere, a chi mentire, a chi vendermi? Chi dovrò lasciar morire girando la faccia dall’altra parte per avere anch’io il mio bocconcino di felicità?
Creonte: Stai zitta!
Antigone: Tu sai che ho ragione, te lo leggo negli occhi. Ma come potrai ammetterlo in questo momento…! Sei troppo occupato a difendere la tua felicità come un osso.
Creonte: la tua e la mia, piccola imbecille
Antigone: : Mi disgustate tutti con la vostra felicità! Siete come i cani che leccano tutto quello che trovano per la strada. Io non sono così modesta, io voglio tutto e subito! E che sia bello come quando ero bambina…altrimenti preferisco morire.»
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(4) Anche qui, come nell’articolo introduttivo, mi rifaccio alla Teoria della nascita di Massimo Fagioli
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