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di Gian Carlo Zanon
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«Dovrei credere che sia possibile esprimere una verità totale, che la si possa individuare e che sia statica. Io penso che mio padre non avesse tale idea della verità, ma che ritenesse la verità cangiante e in movimento. Un essere evolve, con l’età, con gli incontri, le situazioni sociali». “Mio padre: solitaire, solidaire” . Intervista di A. Bianchi e A.Sansa a Catherine Camus su Micromega n.6 -2013.
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Non c’è dubbio, gli umani nel corso del tempo cambiano. Il fenomeno lo possiamo osservare in Roberto Saviano il quale, dopo essere entrato dalla porta principale del grande circo della banalità mediatica di bassa lega, da coraggioso oppositore della camorra si è trasformato in un tuttologo che serve ad attirare compratori di libri e spettatori televisivi.
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Alcuni redattori del nostro Diario Polifonico già da tempo avevamo denunciato la sua deriva intellettuale (leggi qui e qui) ma in verità nessuno di noi avrebbe pensato che giungesse ad allinearsi al Trump’ thought per quanto riguarda la morte di Fidel: «Morto Fidel Castro, dittatore. Incarcerò qualsiasi oppositore, perseguitò gli omosessuali, scacciò un presidente corrotto sostituendolo con un regime militare. Fu amato per i suoi ideali che mai realizzò, mai. Giustificò ogni violenza dicendo che la sanità gratuita e l’educazione a Cuba erano all’avanguardia, eppure, per realizzarsi, i cubani hanno sempre dovuto lasciare Cuba non potendo, molto spesso, far ritorno.» Questo è il commento di Saviano in morte di Castro inviato urbi et orbi sui social.
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Si sa, la fama la si ottiene anche con queste forme letterarie tanto avare di senso quanto grevi e c’è molta gente che di fama si nutre per colmare indicibili vuoti esistenziali. Me ne dispiaccio e mi consolo pensando che alla sua morte qualcuno in cerca della stessa vanagloria scriverà per lui un epitaffio tipo “Morto Roberto Saviano. Fu amato per i suoi ideali: la lotta alla criminalità organizzata, che mai realizzò, mai. Giustificò ogni sua banalità letteraria e ogni sua imbarazzante apparizione televisiva in nome della fama e dell’apparire.”
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Nel corso del tempo gli individui cambiano, sono cambiato io, è cambiato Fidel Castro. Dato che questo è un Diario Polifonico, mi prendo una paginetta per scrivere ciò che il “ Líder Máximo“ fu per me, e come l’ho vissuto in questi ultimi anni.
Ogni individuo pensante – da questa categoria escludo i credenti che hanno abdicato il pensiero scegliendo religioni ed ideologie a cui uniformarsi – forma il suo pensiero attraversando i marosi ambientali. Penso, generalizzando, che gli esseri umani siano ciò che incontrano. Parlo dei rapporti interumani ovviamente, dai primi incontri che avvengono nei primi giorni e mesi di vita a tutto il vissuto interumano. Gli esseri umani senza il rapporto interumano, inteso come dialettica umana tra sé e l’altro da sé, esistono ma non sono. Quando si perde di vista questa realtà di rapporto con l’altro da sé che ci rende umani, ma può anche farci ammalare rendendoci disumani, la visione dell’umano e delle sue dinamiche inconsce viene o alterata o, peggio annullata completamente.
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Fidel, ovviamente, non l’ho mai incontrato. Nondimeno la sua immagine, come quella di moltissimi altri individui che hanno fatto parte della mia formazione intellettuale, mi ha raggiunto insinuandosi nel mio percorso mentale. Fidel, per un periodo della mia vita è stato un eroe nel senso che io intendo questa parola: un individuo che realizza la propria realtà interna, ovvero i propri ideali, e questa sua realizzazione permette ad altri individui di realizzare la propria. Questo perché con la coraggiosa rivoluzione del ‘59 – che liquidò la colonizzazione dell’Isola e la feroce dittatura capitanata da Fulgencio Batista, un burattino guidato dai fili della mafia e delle corporation USA – pose le premesse per una possibile realizzazione umana dei cubani e non solo.
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Ricordo che, forse guidato da una repulsione per tutto ciò che si avvicina ad una figura paterna, già intorno ai 17anni la sua figura ai miei occhi rimpicciolì e venne sostituita, inutile dirlo, da quella più spessa del Che. Erano bastate poche righe, lette chi sa dove, che parlavano di un suo dissidio con il Che, per percepire la figura di quell’uomo in modo diverso. Certo Fidel era sempre Fidel, ma il Che… non c’era partita.
Giusto o sbagliato che sia stato il mio modo di pensare, il mio giudizio su Fidel era mutato: Che, mio fratello, era morto anche per causa sua, e quindi il grande padre della rivoluzione cubana mi aveva deluso. Una piccola grande macchia aveva intaccato la sua immagine.
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Erano gli inizi degli anni ‘70 e Castro, secondo me, aveva tradito la rivoluzione che si era cristallizzata in una ritualità da trinità ideologica che comprendeva dio onnipotente/Castro – redentore/Che – socialimo/spirito santo. Anni di confusione mentale, di perdita delle speranze, di volere credere che “tutto sommato…, come dicono tutti…, la realtà è quella che è …, noi siamo quelli che siamo…, è ora di pensare solo a se stessi” … ecc. ecc..
Intanto Fidel e il Che nei miei pensieri annacquati dal mal de vivre, e dalla cultura esistenzialista che aveva pervaso il mio pensiero rendendo vero il delirio heideggeriano dell’essere per la morte, rimanevano lì imbalsamati nei loro gesti colti nelle tante immagini che, involontariamente, tenevo gelosamente celate nei bauli della memoria.
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Agli inizi degli anni ‘80 il mio naufragio preparato con cura per quasi un decennio fallì: alcuni incontri, negli anni, cambiarono radicalmente la mia realtà umana. E ora sono quello che scrive qui ciò che vorrebbe essere un epitaffio per un padre amato e deludente.
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Erano passati gli anni e nel divenire del mio pensiero avevo trascinato, sempre involontariamente, anche Fidel e il Che: Ernesto Guevara detto il Che, pur con qualche neo in più, era rimasto quasi inalterato nel mio giudizio, lui era più o meno rimasto quello vissuto da adolescente, Fidel Castro detto “el Líder Máximo” no, lui era mutato. Dolorosamente mutato.
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Più indagavo su di lui e più mi rendevo conto che non era un eroe nel senso che io intendevo questa parola. Non lo era più perché con la sua “fabbrica dell’obbedienza” – appresa nelle aule dell’esclusivo Colegio Belen, dove sotto la guida di sacerdoti gesuiti dal 1941 al 1945 aveva studiato – impediva ai cubani di pensare con la loro testa e quindi impediva loro di realizzare a pieno la propria individuale realtà umana e di mostrarla pubblicamente.
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Non voglio parlare qui della deriva cattolica e capitalistica del castrismo, della costruzione del potere dinastico dei Castro, della corruzione endemica, del fenomeno del jineterismo (leggi qui) e degli orrori dello squadrismo contro los contro-rivolucionarios. Di tutto questo se ne è parlato più che a sufficienza sul nostro Diario Polifonico (leggi qui). E non sarebbe neppure completamente giusto perché non completamente vero.
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Vorrei parlare di un uomo coraggioso che liberò dalla schiavitù il popolo de La Isla, che gli diede pane, istruzione, un sistema sanitario gratuito e, relativamente a quella realtà economica, più che eccellente, ma che non ebbe il coraggio lasciare libero il pensiero e la sua espressione.
Tutto ciò è più che evidente a Cuba dove poche settimane fa Elaine Díaz direttrice del Periodismo de Barrio e altri giornalisti sonio stati arrestati solo perché stavano documentando i danni reali dell’uragano Matthew parzialmente nascosti dai media allineati con il governo di Raùl Castro. Inoltre il nuovo arcivescovo de La Habana Juan de la Caridad García, partendo dagli attestati di stima intercorsi tra Fidel e Francesco (leggi qui) ha chiesto con forza «La Chiesa Cattolica vuole avere scuole (private ovviamente) e spazi nelle scuole (in quelle pubbliche ovviamente), è ciò che desidera anche una parte considerevole del popolo.» Questi sono, ad oggi, i risultati sociali e culturali della rivoluzione cubana.
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Generalizzando, potrei dire che “la fabbrica dell’obbedienza” – prendo a prestito questa espressione dal libro omonimo di Ermanno Rea – creata dal Líder Máximo nel corso degli anni ha annullato il pensiero critico trasformando i cittadini cubani in sudditi credenti, in un popolo di irresponsabili, in spettatori della storia, in esseri addomesticati e passivi.
Generalizzando ovviamente. Neppure tutti gli italiani sono dei furbastri berlusconidi, salvinidi e renzianidi, ma una grande percentuale di loro lo è.
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Giunto fino a qui mi rendo conto che la mia elaborazione del lutto per Fidel è iniziata tanto tempo fa … insieme a quella di un altro padre che mi sfamava, curava le mie ferite fisiche ma mi impediva di realizzare un pensiero diverso dal suo. Li ho dovuti “uccidere” per realizzare la mia vera, profonda, unica, originale realtà umana.
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29 novembre 2016
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