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Sono giorni che penso a questo intrigante articolo di Eva Cantarella, che parla di tre grandi miti greci; e oggi mi è venuto in mente di pubblicarlo con delle mie note a margine, come si fa sui libri.
Le mie note saranno di colore blu … e i neretti sono mie sottolineature …
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Adriano Meis
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Eva Cantarella
Oreste, Ulisse, Antigone: quei modelli che orientano ancora il nostro presente
Il mito, ce lo ha insegnato Eliade, è sempre una manifestazione del sacro, una immersione folgorante e irreversibile (per gli effetti che produce) nelle profondità dell’inconscio.
Non sono d’accordo con questa affermazione di Eliade. Dire che il mito è sempre una manifestazione del sacro è quanto meno riduttivo, soprattutto quando alla parola sacro gli si dà un senso religioso. Intendiamoci: è vero che il pensiero greco arcaico narrava la realtà, passata e futura, e i fenomeni, in modo mitopoietico e quindi animistico ma quelle credenze non erano sacre intendendo dogmaticamente intangibili. Ogni tribù, ogni nucleo famigliare attingeva dal mito come meglio riteneva opportuno.
Parlare dell’eredità che i greci ci hanno lasciato è il minimo che si possa fare, in giorni come questi. Quali che siano le condizioni, gli errori e le responsabilità di ciascuno di noi, sarebbe non solo ingiusto ma profondamente sbagliato dimenticare che senza quello che i greci ci hanno insegnato noi non saremmo quello che siamo.
Appunto!
Il che non significa, sia ben chiaro, tornare a mitizzarli, come per troppo tempo si è fatto parlando dei loro presunti valori universali e della altrettanto presunta eternità di questi. Quel che dobbiamo fare, insomma, non è tornare a parlare della Grecia a proposito della quale, per intendersi, i libri di scuola parlano ancora, talvolta, di «miracolo greco».
Di quella Grecia mitizzata, la storiografia da alcuni decenni ha dimostrato l’irrealtà. È a un’altra Grecia che ci lega il nostro debito, quella vera, finalmente sottratta al mito, lontana e diversa da noi; ma nella quale affondano, tuttavia, alcune tra le più importanti conquiste del nostro pensiero, e le origini delle nostre istituzioni politiche e giuridiche. Come stanno a dimostrarci — tra l’altro — i loro miti. A cominciare da quello messo in scena da Eschilo, nel 458 a. C.: il mito di Oreste.
Agamennone, racconta Eschilo nell’Orestea, torna vittorioso dalla guerra di Troia. Sua moglie Clitennestra, diventata nel frattempo l’amante del cognato Egisto, con la complicità di questo lo uccide. A indurla a farlo, oltre alla smania di potere, sta il fatto che Agamennone ha ucciso la figlia Ifigenia, sacrificandola agli dei per ottenere un vento favorevole alla navigazione verso Troia, e tornando dalla guerra ha portato con sé una concubina, Cassandra, che Clitennestra uccide insieme a lui.
Ma vendetta chiama vendetta, e Oreste, figlio di Clitennestra e di Agamennone, vendica il padre uccidendo la madre. Ed ecco le Erinni, le antiche dee della vendetta, esigere altro sangue in cambio del sangue di Clitennestra. Gli implacabili mostri, che stillano sangue dagli occhi, perseguitano Oreste, ovunque egli vada. Sino al momento in cui interviene Atena: a risolvere la questione, dice la dea, istituirò un tribunale, nel quale siederanno come giudici i migliori cittadini, estranei ai fatti e imparziali, che giudicheranno dopo aver accertato i fatti, valutando colpe e responsabilità. Il mondo della vendetta è finito. La narrazione mitica celebra l’avvenimento che ha segnato una tappa fondamentale della storia non solo di Atene, ma della nostra civiltà giuridica: non esiste responsabilità senza colpa regolarmente accertata da un organo giudicante.
Eva Cantarella non racconta come va a finire il processo intentato contro il matricida Oreste. Forse non lo fa perché non è fondamentale per l’economia del suo articolo. Comunque sia non è questa la verità … o meglio non è la verità vera. È una mezza verità, una verità superficiale, che non scandaglia le profondità semantiche del mito di Oreste.
Inoltre Eva Cantarella si dimentica che sono di fatto Atena e Apollo che intervenendo nel giudizio salvano Oreste dalla condanna. Quindi il senso del mito, rappresentato da Eschilo, va ben al di là dal rappresentare la “responsabilità senza colpa regolarmente accertata da un organo giudicante”.
La verità è questa: con l’uccisione della madre tutto il patrimonio di affetti che legano i rapporti interumani viene sacrificato in nome delle leggi patriarcali.
Con la legittimazione del delitto di Clitennestra, da parte di Apollo e di Atena – Apollo è la divinità che assassinando il pitone delfico (o la Pitzia) si è impossessato dell’arte oracolare e dell’interpretazione dei sogni. Atena è la dea anaffettiva che non ha avuto madre, Atena-pronaia, (pensiero aprioristico) la ragione nata dalla testa di Zeus – si consuma un evento tragico dalla portata dirompente per il pensiero occidentale. Le Erinni, divinità ctonie, immagini femminili deturpate, incaricate di perseguitare coloro che rompevano le leggi del sangue, vengono relegate nell’Erebo. Al loro posto vengono poste delle divinità pacificate, figure femminili “concilianti”, le Eumenidi.
Nella tragedia greca la discesa delle divinità olimpiche fra gli esseri umani, la loro interferenza nelle leggi, il deux ex machina, rappresentano l’alterazione e la normalizzazione della figura dell’eroe e della sua immagine inconscia: se esiste un disegno divino provvidenziale come può l’uomo farsi artefice del proprio destino? Come può essere padrone e responsabile del proprio destino?.
Ma dal mito non vengono solo insegnamenti fondamentali come questo. In esso troviamo anche degli archetipi che ci accompagnano ancora, nei quali riconosciamo le motivazioni dei nostri comportamenti e le caratteristiche della nostra personalità.
Gli archetipi li lasciamo volentieri alla Cantarella. Credere al nazista Jung inventore di questa cazzata degli archetipi, eredità filogenetica di milioni di anni, che condizionerebbero il nostro pensiero e le nostre azioni è veramente demenziale.
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Prendiamo ad esempio il mito di Ulisse. Itaca, come ben noto, è stata spesso intesa come una metafora: «Se cerchi la tua strada verso Itaca — scrive Kavafis, in una bellissima poesia — spera in un viaggio lungo,/avventuroso e pieno di scoperte./ I Lestrigoni e i Ciclopi non temerli/non temere l’ira di Poseidone./…Non hai bisogno di affrettare il corso/fa che il tuo viaggio duri anni, bellissimi,/e che tu arrivi all’isola ormai vecchio,/ricco di insegnamenti appresi in via…». Non è volontà di un dio (come fu, per Ulisse, l’ira di Poseidone), a determinare il tuo viaggio: sei tu l’artefice della tua sorte — dice Kavafis — sei tu il padrone della tua vita.
Ecco qui ritorna sui suoi passi: l’uomo dice la Cantarella è padrone del suo destino.
Quanti sono, oggi, gli Ulisse che affrontano pericoli apparentemente insuperabili, come fece Ulisse affrontando i Lestrigoni e i Ciclopi? Quanti sono coloro che si avventurano verso incontri con un inconoscibile che invece si può conoscere? Come Ulisse entrò nell’Ade, il mondo dei morti, noi, oggi, ci confrontiamo con le conquiste e i misteri delle scienze e della tecnologia. Ulisse è tra noi, Ulisse siamo noi, possiamo incontrarlo. Esattamente come incontriamo Antigone o Creonte, i protagonisti della tragedia più bella di Sofocle e, forse, di tutte le tragedie greche.
Ecco la Cantarella dovrebbe sapere che l’inconoscibile non si può conoscere … sennò che inconoscibile è? Das unbewusste, parola usata per la prima volta dal filosofo Schelling nel 1800 sta per inconoscibile e si rivolge all’Assoluto. Quindi è il non conosciuto che si può conoscere e non l’inconoscibile che significa ciò che non si può conoscere.
Nata dal matrimonio incestuoso tra Edipo e sua madre Giocasta, dopo la tragica fine dei genitori Antigone vive a Tebe, governata dallo zio Creonte, fratello di sua madre, ed è fidanzata con il figlio di questi, Emone. I suoi due fratelli, Eteocle e Polinice, in lotta per il potere sulla città, si sono affrontati in battaglia e sono morti: Eteocle difendendo una delle sette porte della città, Polinice dandole l’assalto. E Creonte decreta: chi oserà dar sepoltura al suo cadavere sarà lapidato. Ma Antigone viola il divieto, per lei il dovere di dare sepoltura al fratello è più forte di ogni legge umana. E quando viene scoperta difende le sue ragioni di fronte a Creonte, che sostiene le proprie. Creonte afferma il dovere, anche per lui, di rispettare le «leggi scritte», che gli impongono di metterla a morte. Ma a queste leggi, dettate dal potere politico, Antigone oppone quelle «non scritte», vale a dire le regole etiche da lei sentite come imprescindibili.
Qui si dovrebbe vedere cosa si intende per “legge umana” . Se si intende “legge scritta da un essere umano” oppure “legge umana che si contrappone a legge disumana”. E non vi è dubbio che lasciare il corpo senza vita di Polinice in pasto ai cani è una legge disumana.
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Sono due sistemi di regole diverse: qui sta il dilemma tragico. Nessuno dei due contendenti ha ragione, nessuno dei due ha torto. O meglio: ambedue hanno ragione, ambedue hanno torto. Creonte è un politico con un forte senso dello Stato, Antigone non è non un’anarchica, ma rifiuta di rispettare una regola a suo giudizio senza fondamento etico. La tragedia si conclude, inevitabilmente, con la fine di ambedue i contendenti. Antigone, condannata a morire, si impicca. Il suo fidanzato, Emone, si uccide sul cadavere di lei. Alla notizia della morte del figlio si uccide anche Euridice, la moglie di Creonte: un uomo finito, ormai, moralmente annientato. Una storia, greca, anch’essa presente fra noi: la morte fisica di Antigone e quella morale di Creonte sono la fine inevitabile del conflitto che si ripropone quando un individuo, un gruppo, un popolo non riconoscono il fondamento etico di una regola di diritto, anche in un sistema legittimo e «giusto». Anche per questo i greci sono presenti tra noi, ecco perché senza di loro saremmo diversi.
Appunto, senza di loro saremmo diversi, hohalà. Saremmo diversi perché senza questa ragione anaffettiva che non sa capire, come la Cantarella, che senso abbiano «le leggi non scritte e incrollabili degli dei. – che vivono – sempre: nessuno sa da quando» non avremmo dubbi su cosa è etico e su cosa non lo è; quindi saremmo migliori e più umani di quanto lo siamo. Le leggi a cui si appella Antigone sono, “da sempre”, l’etica del divenire umano. Sono leggi interne, irrazionali, incomprensibili per chi basa tutta la propria identità sul pensiero razionale.
Tra l’altro Eva cantarella si è dimenticata di dire che la legge a cui si rivolge il tiranno Creonte l’ha scritta lui stesso.
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post del 29 giugno 2012
(Da: Il Corriere della sera del 17 giugno 2012)
L’articolo è stato copiato da un post del sito Vento Largo di martedì 19 giugno 2012
http://cedocsv.blogspot.it/2012/06/oreste-ulisse-antigone.html