di Giulia Barella
–
“Non ci torni in Shiistan quest’anno?” mi chiede l’amico curdo con un’aria ironica. Mi ci vogliono una manciata di secondi per capire la battuta, poi gli sorrido anch’io e rispondo che sì, a novembre partirò.
–
Lui ha qualche anno più di me, è un artista ed è curdo. Vive in Italia da qualche mese, dopo aver vagato per l’Europa, costretto a fuggire dall’Iran “per essere libero di esprimermi”, spiega. Mi accenna che per motivi “artistici” non può tornare nel suo paese. Un giorno mi racconterà tutta la storia, promette. Intanto parliamo di Kurdistan e di quello che lui ironicamente chiama Shiistan, la terra degli Sciiti. Parliamo, infatti, di Iraq del nord e Iraq del sud. “Si fa presto a dire Iraq. L’Iraq non è mai esistito” puntualizza da curdo.
Ci siamo conosciuti ad Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, lui di passaggio ed io lì per un lavoro di sei mesi, accettato con l’illusione di spingere il tasto “pausa” della mia solita vita e vivere, in fondo, solo un’esperienza importante per il mio curriculum.
É stata con questa illusione che, un giorno di inizio luglio di tre anni fa, parto per l’Iraq.
–
Dal finestrino dell’aereo vedo il paesaggio trasformarsi e diventarmi estraneo. Per alcune ore l’aereo vola sopra una sconfinata distesa di ovatta. Tutto è di un solo colore, o forse due: bianco e grigio. Poi, all’improvviso, sprazzi d’oro e di rosso vivo che non ti aspetti. Dove il bianco si dirada, ma l’aria è ancora troppo rarefatta per distinguere cosa ci sia sotto di me, scorgo i riflessi di laghi e fiumi che come lamine metalliche e fili dorati intrecciati riflettono il sole.
Per un bel po’ solo mare, poi solo terra, interrotta dalla cicatrice della lunga catena dei monti Zagros. Finché, quando i miei occhi non si sono ancora abituati alla luce quasi abbagliante proveniente dall’esterno e vedo solo un enorme spazio color ocra, l’aereo atterra ad Erbil.
–
L’operosa Erbil, che si sveglia presto e si trasforma velocemente in un ingorgo di Suv bianchi e Toyota Corolla adibiti a taxi, rigorosamente color crema per respingere il caldo che ad agosto sfiora i 50 gradi. Se si è fortunati, c’è l’aria condizionata che salva da quell’inferno. Il prezzo da pagare non sono tanto i 5000 dinari con i quali vai ovunque, ma lo stereo a palla che, senza soluzione di continuità, trasmette musica pop mediorientale. Il tutto si somma all’uso, frequente ed immotivato, che gli automobilisti fanno del clacson. Tra tutti questi suoni, e dissuoni, diventa perfino piacevole perdersi nelle melodie ripetitive del Muhazin.
Taxi driver in pausa, Erbil
–
“Non tutti possono cantare l’hadan, il richiamo – mi spiega sornione il mio autista Haval, un omone dalle larghe spalle e le gambe sottili – Bisogna andare a scuola ed imparare. E se ascolti attentamente, riesci perfino a capire da quale scuola proviene. Lo senti? Questo Muhazin ha un canto elegante e nobile, viene dalla città.” Imparo così che c’è un Muhazin di città ed uno di campagna, ma ancora oggi non sono riuscita a coglierne la differenza.
Verso sera, lentamente la città riprende il suo respiro. Il suk si svuota, rivoli d’acqua portano via imballaggi vuoti e frutta marcia.
L’odore di narghilè e kebab prende il posto della puzza che esce dal tubo di scappamento delle auto. E c’è il tempo per sorseggiare un dolcissimo tè in una delle tante sale ai piedi della cittadella, anche se poi si sta sempre seduti fuori, tra i negozi di souvenir, a guardare la gente che passa e scambiare due chiacchiere. Intanto, la vita si sposta attorno alle grandi fontane, cercando di mettersi controvento per rinfrescarsi con gli spruzzi più indisciplinati.
Il giorno è finito, le strade finalmente vuote, si torna a casa.
–
Da allora sono tornata spesso nella terra degli Assiri, dei Babilonesi e dei Sumeri.
Si fa sempre una certa fatica ad associare l’Iraq di oggi a quella che un tempo era la Mesopotamia. Per la maggior parte della gente che non si occupa di archeologia, la parola “Iraq” evoca scenari di guerra ora più che mai attuali. Gli sviluppi dell’avanzata dell’Isis di questi mesi richiamano alla memoria la storia dell’ultimo ventennio, in un’unica, confusa, immagine di morte e devastazione.
Il ricordo di antiche civiltà lontane, che amavano l’arte, la musica, l’astronomia e la scrittura, rimane relegato nella foto della Ziqqurat di Ur nel sussidiario di quarta elementare.
–
Quando un anno dopo mi hanno proposto di far parte della missione archeologica di base ad Ur, non avevo idea, quindi, che mi sarei recata a Nassiriyah. Ancora una volta il connubio tra le immagini della storia e dell’attualità non combaciavano nella mia mente. E non combaciavano nemmeno con l’Iraq che avevo visto fino ad allora.
Lo “Shiistan” era tutta un’altra cosa.
Per arrivare a Nassiryah bisogna atterrare a Bassora e percorrere circa due ore di autostrada, tagliando in due il deserto di argilla. Sono sparite le montagne del Kurdistan. Le uniche vette che si incontrano, qui, sono i tralicci elettrici e le torri dei pozzi petroliferi. Il petrolio è l’elemento caratterizzante di quest’area, te lo trovi sempre attorno non solo per i pozzi ma sotto varie forme: nelle miriadi di bottigliette e buste di plastica disseminate ovunque e, quando dalla terra riemerge il passato, nel bitume che, molto più oculatamente, i sumeri utilizzavano per impermeabilizzare vasi e strutture architettoniche. Oggi Nassiriyah è un agglomerato di costruzioni in cemento che si sviluppa intorno alla piazza con la statua del poeta Al Habobi, anch’essa in cemento. A parte il cemento ed il traffico, la città ha ben poco in comune con Erbil.
Appena fuori dal centro, lungo la strada che porta ad Ur, il ritmo del paesaggio è scandito dalle condotte. E, in qualche modo, anche la vita dei villaggi che attraversano. Di chilometro in chilometro, la pipe-line viene vissuta quotidianamente dagli abitanti del luogo in modi diversi.
–
Periferia di Nassiriyah
–
Come un filo di Arianna in acciaio, indica la strada sia a Teseo che al Minotauro. Diventa il limite del pascolo dove, tutti i giorni, il giovane pastore porta le sue pecore in un raro scampolo di terra verde. Pochi chilometri dopo, invece, è l’unico testimone del gesto audace di una donna in chador in un pascolo desolato.
É lo spettatore silenzioso di una partita di calcetto tra ragazzi, una guida affidabile per tornare a casa dopo la scuola, ma anche un sedile improvvisato per le chiacchiere tranquille di due amici.
–
E intanto la vita intorno scorre, proprio come scorre ciò che è dentro il grande tubo, senza mai fermarsi. Come il mio viaggio.
–
Settembre 2014
©Foto di Giulia Barella tratte da “Along the pipe-line”, progetto fotografico in fase di realizzazione.
Tiziana Scardigno
5 Dicembre 2015 @ 11:21
All’autrice: grazie, che emozione! Mi sono sentita come in viaggio…in viaggio nella storia di ieri e di oggi.
Giulia Barella
5 Dicembre 2015 @ 22:29
Cara Tiziana,
ti ringrazio innanzitutto per il commento e sono contenta di essere riuscita a trasmetterti l’emozione che ho provato io, ripercorrendo il viaggio nella mia mente. Le sensazioni vissute quando ero lì erano talmente forti che ci sono voluti tre anni prima di cominciare a raccontarle!
Spero di potervi mostrare ancora di più un Iraq diverso da quello che viene solitamente proposto dai media.
A presto, con il prossimo viaggio,
Giulia